di Alessandro Pertosa*
Il pensiero filosofico – di qualunque pensiero filosofico si tratti (quindi anche di quello che sto qui presentando) – è una «volontà di potenza infondata», perché la natura diveniente della volontà umana – così come anche la natura mutevole del pensiero che esprime questa volontà – non ha basi solide, è incapace di porre le sue radici sulla roccia e non sa scavare fino al fondo (questa affermazione, così come ogni altra affermazione umana, non è affatto evidente ma assunta per fede: si spiegherà più avanti in che senso l’affermazione è sempre una fede). Tuttavia nel corso dei secoli la tradizione filosofica occidentale ha smarrito questa coscienza di precarietà costitutiva e si è creduta, inconsapevolmente, la depositaria della verità incontrovertibile. Dico inconsapevolmente, perché i sostenitori del cosiddetto «pensiero forte» hanno inteso affermare sul serio la verità che non ammette smentite, senza accorgersi però dell’enorme inganno cui andavano incontro. Perché volere che la verità incontrovertibile sia l’oggetto della filosofia è un volere pretestuoso e arbitrario, come pretestuosa e arbitraria è l’idea che le cose siano destinate a permanere nell’essere eterno e immutabile sempre identiche a se stesse, piuttosto che divenire nell’essere che non sa persistere, nell’essere da cui tutto viene e in cui tutto va.
Il pensiero occidentale ha smarrito il senso dello scorrere, si è fatto dio, si è elevato al piano dell’Assoluto senza averne, tuttavia, le caratteristiche. E questo farsi dio è un voler dominare la realtà esterna e tutto ciò che vi si trova, è un volere la violenza, è un volere che si struttura secondo trame relazionali di tipo verticale; trame che organizzano uno spazio sociale in cui la tirannia dei pochi viene esercitata sui molti, proprio in virtù dell’immaginario culturale prodotto dall’élite al potere, che impone la sua visione soggettiva, mascherandola da verità oggettiva incontrovertibile.
Che esista una verità oggettiva, che questa stessa verità oggettiva venga concettualizzata dall’intelletto umano e infine che venga altresì enunciata in parole incontrovertibili è il grande inganno perpetrato dal potere culturale e filosofico sulla massa dei dominati, che a questo stesso potere culturale e filosofico hanno dato, e continuano a dare, nonostante tutto, ancora credito. Si tratta di capire, infatti, che il linguaggio umano non dice il vero (e il senso di questo «non dire il vero» verrà spiegato più avanti) perché non ha parole di vita eterna e non è quindi in grado di permanere sempre identico a se stesso, così come invece impone il lógos di verità. Da questa considerazione si evince allora che il linguaggio che pretende di indicare la verità è il linguaggio violento, è il linguaggio che non lascia spazi di manovra alle proposte alternative, è il linguaggio che costringe, impone, e soprattutto è il linguaggio che esprime un’insana follia, perché si ostina a non tener conto dei suoi limiti costitutivi di natura logica e ontologica.
La parola umana non è eterna perché nulla di ciò che concerne le attività umane è eterno, dato che pànta rhèi hos potamòs: è questo il presupposto che assumo per cominciare a ragionare; e come ogni presupposto (da prae-supponere, che significa porre come premessa, dove con premessa intendo ciò che è già messo, che metto prima senza doverlo anticipatamente fondare in quanto lo considero già fondato: e il considerarlo già fondato è un atto di fede) anche il pànta rhèi hos potamòs è una «volontà di potenza» non dimostrabile1, perché se la dimostrassi dovrei a mia volta cominciare il ragionamento da un altro principio, di nuovo anch’esso «preso per»/creduto vero pur non essendolo (ammesso che con il termine «vero» s’intenda ciò che persiste in eterno e resta sempre identico a se stesso). Il presupposto è quindi una «volontà di potenza» voluta per fede, e non invece ciò che si dà secondo una verità incontrovertibile. Il senso in cui dovrà essere intesa questa fede volente verrà spiegato più avanti, per ora è sufficiente sapere che la pretesa di superare la precarietà dell’essere – pretesa che tuttavia non ha ragioni immediate, eterne e incontrovertibili, ma si basa solo sulla fede di poter rendere oggettivo il soggettivo – viene espressa e confermata dal linguaggio occidentale, che nel dire ciò che dice afferma la «volontà di potenza» di permanere nell’essere: volontà che si presenta, da questo punto di vista, come dimenticanza del suo essere radicalmente provvisoria (così come è provvisorio tutto ciò che appare e che compete ontologicamente al singolo osservatore).
Ma questa dimenticanza è appunto la vera follia esperienziale, perché è follia pensare di superare, nella personale vita quotidiana, l’orizzonte in cui pànta rhèi hos potamòs. Ciò che scorre, infatti, non persiste in alcun modo e non potrà mai persistere, così come non poteva persistere in passato, perché la persistenza esprime una forma ontologica radicalmente opposta a quella del divenire. Per questo motivo la precarietà dell’essere in cui tutti noi ci troviamo appare insuperabile. Non solo: questa precarietà è la cifra dell’essere, è il pelago in cui l’essere si immerge e da cui emerge per mostrarsi senza alcun fondamento, senza alcuna garanzia di persistenza, senza alcuna incontrovertibilità da sbandierare; la precarietà, per chiarire, è qui intesa come forma cosmica, perché l’essere del cosmo è diveniente e precario, nel senso che non sta fisso in sé; e la precarietà è la radice del tutto che forse2 ora è, ma che tuttavia non era così prima di essere, e che non sarà più così dopo essere stato.
Sicché, volere che gli enti finiti siano eterni – cioè voler superare la costitutiva precarietà ontologica dell’essere reale – è pretendere di affermare la contraddizione come il dato originario della realtà che esperiamo quotidianamente, è fondere insieme il positivo e il negativo nell’unico essere di cui abbiamo cognizione. Ma questo volere contraddittorio viene espresso in modo pressoché inconsapevole dalla tradizione del pensiero occidentale, che, nonostante lo neghi, è immersa in un orizzonte logico e ontologico (i cui piani spesso si confondono) inaffidabile; e la parola umana che abita questo orizzonte – parola che quando viene pronunciata affiora dal divenire – è un essere instabile, è parola tratta dal nulla prima d’esser pronunciata, e che torna nel nulla quando non è più udita. Questa polarità espressa dalla parola fra il «non essere ancora» e il «non essere più» pronunciata, da un lato, e l’esser detta nel presente, dall’altro – e quindi per semplificare, la polarità fra il non-essere (prima e dopo il pronunciamento) e l’essere della parola proprio nel momento in cui viene proferita – rendono la parola stessa una res problematica.
Questa res problematica serve a comunicare il pensiero che si ha sulla realtà; realtà che abita l’orizzonte diveniente e temporale in cui l’essere si sfalda e non persiste. In questo spazio qualificato dallo scorrere, l’Io parla parole morte. Parole che, non appena espresse, defungono fra le labbra di chi le ha pronunciate, e che tuttavia pretende significhino pur qualcosa di incontrovertibile. Questa pretesa è una volontà di potenza violenta, nel senso che quando l’Io dice di parlare nella verità vuole che il senso di quelle parole persista per sempre negli Altri, vuole che questi stessi Altri, i suoi interlocutori, interpretino in eterno quelle parole così come egli stesso le ha intese una volta per sempre.
Il linguaggio è allora un ginepraio inestricabile, e da quanto si è visto sembrerebbe addirittura inservibile. Ma nel corso dei secoli il pensiero occidentale – forse persino senza piena consapevolezza – ha nascosto le difficoltà maggiori nel sottosuolo della coscienza filosofica. Tant’è che ancora oggi l’Io parla con pretesa di verità senza considerare una serie di problemi: non tiene conto del fatto che ciascun essere pensante esprime una sua peculiarità ermeneutica; mette fra parentesi il dubbio che esista un prossimo che lo ascolti, perché la presenza dell’Altro gli sembra scontata (ma non lo è affatto); evita persino di domandarsi se il suo interlocutore sia davvero in grado di capire ciò che gli viene detto; non si chiede se il linguaggio che usa venga recepito da tutti nello stesso modo, se le parole che pronuncia determinino in ognuno le medesime emozioni.
In realtà quando si esprime, l’Io radicato nella cultura filosofica occidentale crede che i suoi interlocutori interpretino le sue parole seguendo dinamiche uguali a quelle che egli stesso usa, e si illude allora di poter spendere a suo piacere, nel bel mezzo del dialogo, un linguaggio universale che sfugga alla tirannia del divenire, e che significhi la stessa cosa per tutti e in eterno (questa incapacità della parola di eternizzarsi non è causata dalla diversità nell’approccio ermeneutico soggettivo che ogni singolo parlante ha con il linguaggio, ma la si deve unicamente alla forma diveniente di qualsiasi essere, compreso quello verbale, che non sa abitare il luogo eterno della permanenza). La parola pronunciata da questo «Io» indica così l’esigenza di un dire che vuole persistere in eterno; la parola pronunciata sta lì ad affermare che i pensieri espressi non possono perdersi fra le maglie del tempo che scorre (e proprio questa «esigenza di dire» qualcosa di immortale rappresenta appunto la massima espressione della «volontà di potenza», recalcitrante a soccombere sotto il peso del destino nichilista, che dimentica e travolge tutto).
Sia chiaro, ogni comunicazione verbale manifesta una volontà di potenza. Lo stesso pensiero che rivelo in questo scritto incarna una volontà – la mia – che i fatti vengano intesi in un certo modo, piuttosto che in un altro. Ma l’elemento discriminate è rappresentato dalla mia personale consapevolezza del limite costitutivo del linguaggio umano, incapace di dire la verità. Sicché, la «volontà di potenza consapevole» palesata in questo scritto (consapevole perché nonostante pretenda l’assoluto è conscia dei suoi limiti ontologici e sa di non poter addurre evidenze oggettive) esprime fino in fondo il senso della lotta ingaggiata dalla parola contro il nulla, e incarna quindi la pretesa del lógos di non voler seguire la sorte mortale dell’essere verbale già deceduto subito dopo esser stato proferito: ma questa volontà consapevole di non far morire il proprio lógos è una pretesa che sa già di essere stata sconfitta, perché il nostro «dire l’essere» è un «dire» che non è eterno e non sa quindi abitare l’eterno. E per l’appunto, l’essere che ci costituisce e di cui possiamo parlare è un essere che non persiste.
Anche per questo motivo, dire qualcosa nel mondo è come un lampo che brilla nel buio, è come un lampo che pulsa e che frange, per un istante, l’impenetrabile oscurità della parola, che è detta per divenire soltanto un nulla. La parola è allora un essere sonoro fra due silenzi (iniziale e finale) che la delimitano; è la radice del linguaggio che non si mantiene, che si sfalda nel suo porsi. E il discorso umano che ne consegue è un discorso probabile, è un discorso che sfuma, che s’annulla, perché non è sempre identico a se stesso, non sa abitare la permanenza, e in definitiva non ha destino, proprio perché non sta.
Si vedrà di nuovo e meglio in seguito come giustificare questo ragionamento; per ora sia sufficiente rappresentare metaforicamente la parola umana come un flatus vocis contraddittorio che nel suo porsi come verbum finito con pretese infinite, dice e disdice sotto il medesimo rispetto, racconta l’essere che presto si annulla (racconta l’essere che è nulla), mostra la res che poi scompare. E in effetti, oltre le estremità del lógos, la dimenticanza, il silenzio e il nascondimento la fanno da padroni. Dire qualcosa è, allora, il tentativo di uscire dal vuoto cosmico del silenzio, è lo sforzo inumano di lasciare una traccia eterna che non si dimentichi, è l’illusione di esserci, di essere qualcosa d’immortale piuttosto che nulla. Ma il problema è che noi siamo nulla, o meglio siamo anche nulla, siamo il risultato dell’eterna lotta fra l’essere e la sua radicale negazione, siamo il positivo e il negativo compresenti nello stesso soggetto, ed abitiamo essenzialmente i luoghi della contraddizione3. Per questo motivo il linguaggio, inteso come una delle manifestazioni umane fra le più nobili, può strutturarsi solo a partire da un originario «fondamento contraddittorio». Su di esso si impernia la possibilità di qualsiasi dire; e un tale fondamento può essere rintracciato solo previa eliminazione degli orpelli culturali, delle convinzioni tradizionali e dei pre-giudizi filosofici, per i quali il nostro pensiero è realmente in grado di pronunciare parole ultimative, proposizioni assolute e incontrovertibilmente vere.
Solo dopo aver smascherato l’atteggiamento dogmatico dell’approccio filosofico classico, e solo dopo l’ammissione della poliedricità del reale, irriducibile alle singole aperture ermeneutiche umane – che, per quanto geniali, restano pur sempre limitate ad un solo punto di vista –, ampi spazi di nuova luce (e questa nuova luce è la luce della filosofia, che consiste infatti in un prendersi cura di ciò che è luminoso: da saphés) potranno finalmente emergere dalle nebbie della conoscenza occidentale; nebbie che, nel diradare, cederanno il passo a razionalità più estese, complesse, persino paradossali e non riconducibili al mero rispetto del Pnc (Il Principio di Non Cantraddizione). Perché non si può escludere a priori che la realtà sia più vasta della struttura mentale umana, costretta dalla cultura tradizionale a operare entro gli angusti ambiti di una logica stringente. E non si deve neppure escludere che la stessa struttura mentale umana sia capace di abitare felicemente il paradosso.
Perciò, solo dopo essere giunti a questo livello di consapevolezza è possibile dire, con cognizione di causa, che la realtà non è conoscibile in sé, ma si manifesta come il risultato della relazione fra il singolo osservatore e l’essere esterno che gli si presenta come oggetto4. E proprio per questo motivo la poliedricità del reale non sembra in alcun modo riducibile né alla sola razionalità del singolo Io, né tantomeno al solo Pnc, concepito – nell’ottica di questo scritto – non più come l’unico modello logico con cui leggere e interpretare necessariamente l’orizzonte ontologico. Sicché il ricorso alle logiche non classiche, come la logica paraconsistente5 e la logica paracompleta6, apre nuovi spiragli di relazione intellettuale fra il soggetto pensante e l’oggetto pensato. E a corroborare questa riflessione, con sempre maggiore urgenza, emergono dal fondo le seguenti questioni, che si dovrà tentare di risolvere: perché appoggiarsi necessariamente alla sola versione forte della logica (appunto al Pnc), intesa dalla filosofia occidentale dominante come l’unica concreta garanzia della stabile razionalità del pensiero umano, quando è invece possibile fondare il proprio ragionamento su concezioni logiche e ontologiche più ampie, che abbiano magari come riferimento ultimo la contraddizione, il paradosso e la complessità? Chi stabilisce che il Pnc sia più vero dei meccanismi logici paraconsistenti, paracompleti, non-aletici, o di qualsiasi altra modalità logica eccedente i vincoli rigorosi dello stesso Pnc? E su tutte svetta la questione radicale: quid est veritas? E in che senso, dopo aver superato il Pnc, si può parlare ancora di verità, nel modo in cui l’ha intesa, sin dalla sua origine, la filosofia occidentale?
Tranne in qualche rarissima eccezione, la filosofia occidentale ricorre da sempre al lógos forte del Pnc, perché pretende di avere l’ultima parola non-contraddittoria sul mondo, o meglio una parola che, nelle intenzioni del parlante, sia vera, immediata e incontrovertibile, e che nel suo porsi implichi necessariamente la radicale smentita della sua negazione. Si tratta di capire, però, che nell’orizzonte diveniente in cui siamo irrimediabilmente tutti immersi, e in particolar modo proprio dal punto di vista di chi sostiene la necessità intrinseca del Pnc – punto di vista, come ormai dovrebbe esser chiaro, distante da quello che assumo in questo scritto – ciò è impossibile, perché l’eterno e l’immediato non appartengono alla parola umana, che dal canto suo discorre nel tempo e viene pronunciata, detta, in un contesto delimitato; e infatti la parola, proprio in quanto parola fra i parlanti, è veicolo di mediazione ermeneutica tutt’altro che immediata, dal momento che per venire ascoltata e intesa necessita almeno dell’udito e del ragionamento.
Per i difensori fondamentalisti del Pnc (che per semplificare chiamo «D»), dire il vero coincide con lo stare nel vero, perché solo stando nel vero si coglie l’essere assoluto ed eterno, l’essere immobile e sempre identico a se stesso. Ma se ciò corrispondesse realmente alla verità incontrovertibile – e qui la verità la intendiamo proprio come la concepiscono i sostenitori del Pnc –, lo stare nel vero non potrebbe in alcun modo competere all’uomo, ch’è un essere finito, e in cui nulla del suo stare è immediato, eterno e incorruttibile: aggettivi, questi ultimi, che per «D» non si predicano accidentalmente della verità, ma che le ineriscono essenzialmente. Il nostro essere nel tempo, allora, proprio seguendo la lezione di «D», si allontanerebbe dalla destinazione persistente di ciò che sta, di ciò che è sempre identico a se stesso e che permane necessariamente nella sua eterna staticità. Chi sostiene la logica classica è allora costretto ad ammettere che all’uomo non può competere la verità incontrovertibile ed eterna, perché nell’orizzonte finito e temporale non v’è nulla di incontrovertibile e di eterno.
Per ovviare allo scacco in cui cadrebbe chi volesse fare filosofia con pretesa di verità oggettiva senza avere le physique du rôle, questo scritto propone un allargamento degli orizzonti logici classici, basato su forme di razionalità più ampie, che non escludano a priori la contraddizione, e che siano in grado di cogliere spicchi di una realtà poliedrica, eccedente ogni tentativo di riduzione alla pura semplicità. Per far ciò può essere utile iniziare da una considerazione: la realtà è complessa e il nostro essere temporale ci consente soltanto di aprire uno spiraglio di lettura del reale a partire dal nostro singolare punto di vista, condizionato da una cultura, da un carattere, da una sensibilità, da un tempo e da una razionalità limitate che orientano – e talvolta (dis)orientano – il nostro sguardo sul mondo.
È forse opportuno, a questo punto, provare a fornire almeno una prima spiegazione del senso in cui si deve intendere il nostro essere temporale, ovvero il nostro non essere eterno nella condizione di enti reali, che appaiono in un dato momento della storia universale per poi scomparire, con la morte, dalla vista di coloro che restano. L’apparire e lo scomparire dell’ente reale esprimono il senso dell’impermanenza dell’ente stesso, ma non dicono nulla riguardo al valore ontologico della realtà. E la questione da cui partire è allora questa: il reale è eterno? Nessuno può dirlo con verità (nel senso in cui la verità è concepita come incontrovertibile). Noi cogliamo una sola parte del reale. Percepiamo esclusivamente quello che vediamo, e lo vediamo perché ci appare, sicché è certo lecito dire che per noi il reale è tutto ciò che vediamo, ma non possiamo affermare niente più di quello, non possiamo cioè dire che ciò che noi vediamo è tutto il reale possibile.
Perciò, anche per questo motivo l’affermazione «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale» appartiene alla follia massima dell’Occidente, che ha pensato di poter scorgere davvero l’assoluto rimanendo nel relativo, ed è arrivata a giustapporre la limitata struttura razionale umana alla trama poliedrica e onnicomprensiva del reale, di cui non possiamo dire niente oltre a ciò che – dal nostro spicchio di mondo – noi, enti pensanti e parlanti, vediamo e intendiamo. Si tratta di capire, allora, che ogni parola sul mondo è un punto di vista unico e irripetibile, ma è anche un punto di vista limitato e condizionato dall’ermeneutica soggettiva, che in quanto tale è singolare e mediata, quindi incapace di cogliere il dato oggettivo assoluto.
Ho fatto questo cenno all’impossibilità per il singolo mortale di cogliere l’assoluto perché la sua condizione, per l’appunto, di «essere singolare» posto in modo temporaneo dinanzi alla realtà, lo rende incapace di elevarsi al di là della sua condizione ontica, irrimediabilmente compromessa con la sua stessa contraddizione terrena. A tal proposito intendo porre l’attenzione proprio sul fatto che la nostra condizione di esseri caduchi palesa un limite di concepibilità del nostro stesso essere, che è di fatto logicamente impensabile e contraddittorio se si resta rigorosamente all’interno del Pnc. Infatti, l’ente che esiste nel periodo compreso fra l’istante in cui viene tratto dal nulla (l’essere creato) e l’istante in cui torna nel nulla (l’essere defunto) è un ente che «è» e «non è» al contempo: «non è ancora» prima di essere e «non è più» dopo essere stato, ma tuttavia «è ciò che è» quando esiste. L’ente mortale tiene quindi uniti insieme sia il suo «essere ciò che è» nel tempo in cui persiste, e sia i suoi «non-essere ancora» e «non-essere più»7, e proprio per questo motivo quello stesso ente mortale esprime in modo netto la contraddizione. Il punto è che per non mostrare la sua contraddizione l’ente non dovrebbe essere mortale. O detto altrimenti: l’ente non-contraddittorio dovrebbe essere soltanto quello specifico ente che è proprio quella cosa che è in eterno, vale a dire quell’ente che è esattamente quella cosa che non viene dal nulla e che non va nel nulla8. Ma a questo punto si tratta anche di capire che l’ente eterno, incontrovertibile e non-contraddittorio, a cui ho poc’anzi accennato, è indicibile, di esso non possiamo minimamente parlare, perché noi tutti siamo capaci di dire qualcosa solo degli enti che ci stanno davanti, o che lo sono stati, o, in previsione, che non è impossibile che lo saranno in futuro (in quanto la loro reale possibilità di esistere corrisponde in qualche modo alla nostra capacità razionale di anticipare con l’immaginazione la forma che li costituirà concretamente). Dell’ente assoluto (non-contraddittorio) eternamente presente dobbiamo tacere, e il motivo è presto detto: l’uomo è costretto a osservare il mondo dal proprio cantuccio relativo e temporale, e da quel ristretto angolo visuale impastato di tempo non può cogliere in alcun modo l’eterno, dice l’essere che presto scompare e proprio per questo abita la contraddizione logica. Tutto ciò che concerne il tempo e il divenire, infatti, è irrimediabilmente contraddittorio, attiene all’orizzonte della fede, del «non-vero», che è cosa diversa dal falso. Il falso, infatti, in quanto tale è assoluto ed eterno come la verità, ma della verità rappresenta, o più semplicemente è, proprio la negazione radicale ed eterna, immediata e incontrovertibile. Il falso e il vero sono dunque concetti eterni, e per questo, dal nostro punto di vista terreno, anche ontologicamente inattingibili.
Dimenticandosi di ciò, la cultura occidentale ha sempre inteso la veritas come un concetto immediatamente lineare e non-contraddittorio. Non è qui importante discutere quanto questa volontà filosofica sia stata coerente con la premessa; ciò che m’interessa invece, è cogliere la generale condivisione della idea secondo cui vi è una reale corrispondenza fra la verità e la sua immediata evidenza non-contraddittoria. E mi interessa perché se l’oggetto della filosofia fosse realmente questa verità così concepita, dovremmo ammettere che l’oggetto del pensiero umano è qualcosa di ultraumano, situato in un contesto eterno e immutabile. Perché se la verità immediata, evidente e non-contraddittoria fosse di fatto l’oggetto del mio pensiero, io sarei in grado di cogliere l’assoluto rimanendo nel relativo. Ma si tratta di capire – e quindi di credere (vedremo poi in quale senso si deve qui intendere anche il credere) – che una tale condizione è impossibile, perché nulla di ciò che compete all’umano è eterno o immediato. E che non vi sia nulla di eterno lo si coglie guardandosi attorno: e non c’è logica o sillogismo che possa dimostrare il contrario, perché appunto la dimostrazione è una mediazione, e quindi attiene all’orizzonte di ciò che non-è-immediatamente-vero; e ciò che non-è-immediatamente-vero deve essere mostrato con argomentazioni e dimostrazioni: sicché entra nelle dinamiche del creduto e si manifesta quindi come una volontà di potenza.
Da queste considerazioni appare che all’uomo non compete nulla di immediato. Perché se io per farmi capire ho bisogno di dimostrare qualcosa a qualcuno, questo stesso qualcosa che dimostro non è immediatamente evidente: se lo fosse, infatti, non dovrei dimostrarlo, sarebbe già chiaro. Dunque: tutto ciò che abbisogna di una dimostrazione non è immediato. Questa affermazione implica un ripensamento globale della filosofia, che ha finora creduto di strutturarsi sulla verità oggettiva (o ha immaginato di poterla cogliere in qualche modo), quando invece – come qualsiasi attività umana – muove da sempre i propri passi sul terreno della fede. E per ora si intenda la fede come l’atteggiamento di colui che afferma l’assoluto restando nel relativo. O più chiaramente come la pretesa soggettiva di considerare oggettivamente vero ciò che invece è solo probabile.
Il risultato teoretico raggiunto, con cui nego la possibilità umana di cogliere la verità oggettiva – e con cui nego quindi alla filosofia il diritto di tendere a questo scopo – non consente comunque a nessuno di cadere nell’altro classico postulato, secondo il quale se la verità oggettiva non ci compete allora nell’ottica relativista tutto è lecito. Questo ragionamento è fuorviante e sbagliato. Il relativismo, infatti, è una forma di verità assoluta mascherata, perché quando afferma che niente è vero sostiene con verità l’assenza di verità: il che è contraddittorio (e questo sarebbe normale per un discorso umano) senza volerlo essere; perché il relativista che parla non scorge l’implicita contraddittorietà della sua affermazione, e perciò pretende di asserire una parola definitiva, non smentibile, oggettiva. Viceversa, l’orizzonte entro cui si colloca il pensiero umano è relativo non relativista, è situazionista, nel senso che si apre al mondo con pretesa oggettiva, ma matura a partire da un punto di vista singolare, destinato a rimanere tale.
Mi soffermo su questo punto e provo a chiarire per altra via: per me che penso non c’è nulla di relativistico, proprio perché quando propongo un modello di pensiero opero soggettivamente con volontà oggettiva, cioè voglio – pretendo, ho fede – che il mio pensiero valga per tutti, ben sapendo tuttavia che il mio punto di vista è il mio punto di vista e nient’altro. Il pensiero che esprimo è, quindi, idealmente oggettivo – perché parla ad ognuno dei miei interlocutori (nei confronti dei quali faccio un altro atto di fede; esistono infatti i «miei interlocutori»?; esiste la realtà che mi circonda?) –, ma ha al contempo la lucida consapevolezza di essere soggettivo. Questa consapevolezza mi consente di evitare il rischio di assolutizzare la mia filosofia, che non cade nel relativismo, ma si coglie come relativa: relativa a un punto di vista – a un punto di osservazione –, il mio. Nulla a che vedere col relativismo, che è invece una verità assoluta spacciata per «non verità», e si riduce all’affermazione: «La verità non esiste» e la sua logica è tutta interna al Pnc.
Diversamente, lo ribadisco, il relativo è la volontà (fede) che quello che penso sia vero in modo universale, cioè valga per tutti, pur sapendo che invece è solo il mio punto di vista personale. Punto di vista che resta comunque saldo e immobile nella mia mente, perché quando penso una certa cosa io non posso pensare altrimenti – quindi singolarmente mi trovo immerso in quella che potremo definire la «verità personale» –, ma al contempo riconosco che il mio ragionamento è solo il mio punto di vista sul mondo, che pur anelando all’universalità è di fatto singolare, personale, soggettivo.
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