L’economia (cioè il capitalismo), come molte altre discipline accademiche, è di solito descritta come una «zona di pensiero» neutrale, priva di pregiudizi. In realtà, l’economia della crescita e il suo famigerato Pil sono del tutto scollegati al benessere delle persone. L’ingresso in questa «disciplina» di persone provenienti da ambiti diversi e della cosiddetta «economia femminista» (che vanta nomi come Marilyn Waring o Vandana Shiva, ma conta pensatori e sostenitori di sesso maschile) ha cambiato un po’ il quadro, mettendo in luce gli assunti arbitrari di diverse teorie e dogmi. E questo non è gradito dagli economisti tradizionali: ce ne faremo una ragione
Maria G. Di Rienzo
“All’economia mettiamoci una madre di tre figli”. Questa frase, assieme alle aperture ai neo-nazisti e al desiderio di abolire i sindacati, ha fatto parte di recente dell’ossessivo e urlato show con cui il solito politicomico italiano tenta di tenere i riflettori su di sé. Se la si accetta senza pensare, può persino sembrare appetibile: solo che ne’ una laurea ad Harvard ne’ 30 figli permetteranno alla madre in questione di agire l’economia in maniera diversa se non ha appunto nessuna idea diversa da quelle dei ministri (maschi o femmine) che l’hanno preceduta. Una madre di tre figli troverà innanzitutto assai più difficile vivere, in un paese in cui il nazismo è sdoganato e i sindacati cancellati d’arbitrio. Per il primo, avrà un valore solo in relazione ai bisogni degli uomini e senza i secondi nulla starà più fra lei e gli abusi che può subire come lavoratrice.
L’economia, come molte altre discipline accademiche, è di solito descritta come una “zona di pensiero” neutrale, priva di pregiudizi. La sua vulgata assomiglia ad un libro contabile sacro sul cui frontespizio sta scritto in caratteri cubitali: Non ci sono alternative. Per cui il debito pubblico si può pagare solo così, non si può fare altro che questo e quest’altro (generalmente, ridurre opportunità, spazi, diritti, speranze, nelle esistenze di chi ha meno). In maggioranza, gli economisti sono ancora maschi, di pelle bianca e appartenenti ad una cerchia privilegiata: costoro hanno creduto e credono che la loro descrizione della vita sia vera per tutti. L’ingresso nella disciplina economica di persone provenienti da ambiti diversi e della cosiddetta “economia femminista” (che vanta nomi come Marilyn Waring o Vandana Shiva, ma conta non pochi pensatori e sostenitori di sesso maschile) ha cambiato un po’ il quadro, mettendo in luce gli assunti arbitrari di teorie e politiche economiche. Ad esempio, l’economia tradizionale pensa che:
1) Le donne sono dipendenti. Da padri, mariti, compagni di sesso maschile che provvedono ai loro bisogni di base. Perciò, le loro entrate sono viste come “secondarie”. Perciò, possono e devono essere pagate meno anche se fanno lo stesso tipo di lavoro di un uomo a parità di orario e mansioni: cosa che accade ovunque nel mondo. A parte il fatto che vi sono moltissime donne “sole” (con figli o senza), a parte il fatto che si tratta di una violazione dei loro diritti umani, l’assunto ignora che queste entrate “secondarie” spesso sono assolutamente necessarie perché la famiglia intera non vada a ramengo. Le donne, le persone in genere, economicamente parlando non sono indipendenti o dipendenti: sono tutte interdipendenti.
2) Le famiglie “papà-mamma-bambini” sono l’unità economica di base. Questa definizione di famiglia è specifica e ristretta: un padre che guadagna, una madre che fornisce cura e lavoro domestico, figli dipendenti. Certamente, stando alle ricerche, non descrive la maggioranza delle famiglie, in Italia o altrove, quindi manca di vedere la realtà per omissione ideologica. Ma persino per le famiglie che rispondono a queste caratteristiche non si ha alcuna attenzione particolare quando si tratta di effettuare tagli alla spesa pubblica o di chiedere “sacrifici”. Si può dire che il nostro modo di procedere economicamente, in questo periodo, dichiara di non avere nessun rispetto neppure per quella che considera la sua unità di base.
3) Le donne sono improduttive. L’economia vigente ha diviso la vita in due categorie separate: sfera economica e sfera domestica. La prima è concentrata sul mercato: produttori, compratori, venditori; la seconda include tutti i lavori non pagati che sono necessari per il funzionamento della vita. Poiché questo tipo di economia conteggia e valuta solo la produzione che si concretizza in qualcosa di vendibile sul mercato, la seconda sfera è vista come “esterna” e “improduttiva”. Il lavoro domestico delle donne (riproduzione, crescita dei bambini, mantenimento della casa, cucinare e provvedere cibo, fornire sostegno emotivo) è dato per scontato: sebbene l’economia sia totalmente dipendente da esso. L’economista femminista Helen Longino dice che questa grave omissione ha significato “sottostimare grandemente il costo della produzione”.
4) Ognuno per sé e dio per nessuno. Un altro assunto pericoloso dell’economia “tradizionale” è l’idea che le persone siano separate e atomizzate: agenti liberi e razionali sul mercato, prenderanno decisioni che si basano sulla massimizzazione del loro interesse individuale. Diana Strassman, economista femminista, sostiene che questo: “sposta l’attenzione dalle connessioni che rendono possibile la vita umana e dalle complessità delle relazioni interdipendenti. Inoltre, la nozione che ogni persona sia un agente indipendente responsabile solo dei propri bisogni personali riflette una visione del mondo sproporzionatamente maschile, adulta e privilegiata.” Le nostre relazioni con altre persone sono invece cruciali nelle decisioni che prendiamo: e molte di esse non consistono della nostra pura e semplice volontà, ma si danno nello spazio limitato delle scelte che possiamo fare (comprare una lavatrice, iscriversi ad un corso, mandare il bambino a ripetizione: denaro a disposizione, tempo, benefici futuri, cura per gli altri, giocano tutti un ruolo enorme nelle nostre decisioni).
Per come la vedo io: società umana, ambiente ed economia non sono entità in competizione.
La società fa parte dell’ambiente in una relazione di interdipendenza, l’economia non è un’entità a sé stante, è un attrezzo che noi esseri umani abbiamo creato ed usiamo. Non si tratta, quindi, di riuscire ad integrare l’economia con il resto: quel che c’è da decidere è in che maniera usare questo attrezzo, ad esempio per il profitto di pochi, o perché soddisfi i nostri bisogni collettivi. Le economiste femministe sono concentrare sul cosiddetto “social provisioning”, e cioè su come le società si organizzano per provvedere sostegno alla vita. La salute dell’economia di un paese si basa quindi sul suo successo o sul suo fallimento nell’assicurare vite decenti a chi in quel paese vive.
L’economia deve “crescere”?
L’assunto imperativo attuale: un’economia che cresce (imprese e banche) è un’economia sana, il che equivarrebbe ad una comunità sana in cui la felicità ed il benessere dei cittadini crescono di pari passo. Purtroppo, l’ammontare di denaro che si muove attraverso i sistemi economici del nostro paese non dice nulla della salute e della soddisfazione della cittadinanza. Il famigerato PIL (prodotto interno lordo) è del tutto scollegato al benessere di una comunità. Gli attuali modi di misurare l’economia non misurano in che modo il denaro è distribuito in un paese, ne’ in che modo l’attività economica contribuisca a produzioni e servizi che fanno del bene alla società e all’ambiente naturale. La rappresentazione economica unidimensionale che ne risulta non ha relazione con le vite reali delle persone.
Ogni crescita ha un costo. Anzi, più d’uno.
Una maniera più seria di misurare includerebbe parametri quali il costo per l’ambiente, il costo per le persone, il costo per la società nel suo complesso. E cercherebbe di misurare le cose che sono veramente importanti in un’esistenza: felicità, salute, relazioni, vita. Con semplice buon senso, si favorirebbero quindi le “crescite” che non comportano danni ad esse, e si fermerebbero quelle che invece le mettono in pericolo o le diminuiscono.
La chiave temporale.
Alcune economiste femministe suggeriscono di mappare il fluire del tempo per analizzare le nostre società e ridisegnare le manovre economiche. Se ad esempio i 2/3 del tempo dedicato alle cure relative alla salute avvengono nelle case (anziani, malati cronici, disabili) il budget sanitario dev’essere diretto alle case stesse, in proporzione.
Cos’ha valore?
Se ne avessero, ad esempio, il lavoro domestico, il volontariato, la cura dei piccoli, la manutenzione e messa in sicurezza del suolo, le energie rinnovabili, i trasporti sostenibili, il calcolo dell’impronta ecologica, la qualità dell’aria e dell’acqua, il riciclo dei rifiuti, la distribuzione equa di risorse e opportunità, la salute, l’istruzione, il godimento di diritti umani, la libertà dalla violenza… il nostro governo non penserebbe ne’ a comprare armi ne’ a consumare suolo e risorse per opere faraoniche e inutili.
Dire che economia volete è un vostro diritto. Non dovete essere “esperte/i” per farlo. Dire ad esempio che desiderate il mantenimento o il miglioramento delle reti e meccanismi che proteggono i più vulnerabili (sistema sanitario, istruzione, assistenza sociale, tutela dei lavoratori/della lavoratrici) non fa di voi dei folli o dei “buonisti”. I settori nominati non sono “beneficenza” ma parti essenziali di un’economia sana. Un’economia sana è quella che non distrugge persone e ambiente per il profitto delle corporazioni o dei potentati. Un’economia sana riesce a riconoscere la ricchezza andando oltre il soldo: idee, tempo, sensibilità, creatività sono doni di cui ogni nazione – e la nostra in particolare – ha bisogno. In questo modo persone di tutte le età, di qualsiasi provenienza o appartenenza, in possesso delle abilità più disparate sarebbero riconosciute come persone che contribuiscono al benessere della società in cui vivono (l’economia monetizzata non è in grado di farlo).
Per finire: all’economia vorrei una persona che conoscesse e valutasse quel che ho scritto sopra, e lo mettesse in pratica, non mi importa se è femmina, maschio, se ha tre figli o non li ha. Mi basta che sia un essere umano sensato e decente.
Questo è articolo è stato pubblicato nel blog Lunanuvola. Maria G. Di Rienzo con il titolo «Un po’ di economia (feminist style)». Tra i libri di Maria G. Di Rienzo segnaliamo Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi (con Monica Lanfranco), Ed. Intra Moenia; Senza velo. Donne nell’Islam contro l’integralismo (con Monica Lanfranco), Ed. Intra Moenia; Il giudizio di Morna, Ed. Stelle Cadenti.
Per un approfondimento su donne e critica all’economia suggeriamo la lettura di E’ il mondo di tutti/e, dicono le donne, cambiamolo di Veronika Bennholdt-Thomsen e degli articoli di Daniela Degan che trovate qui.
Anche io, come te, mi “accontenterei” di un essere umano sensato e decente all’economia!
Bel post, condivido!
Grazie
Serena
La crescita economica è una terribile patologia della Terra. Anzi, bisogna abbandonare ogni modo di pensare “di tipo economico”. Non esiste alcuna “green economy”. Purtroppo temo che sia troppo tardi per un capovolgimento di pensiero così profondo, ma dobbiamo tentare ugualmente. Magari il trauma cui stiamo andando incontro sarà meno grave…