Negli 86 anni della sua lunga e straordinaria esistenza, Gustavo Esteva non ha mai cessato di ascoltare il mondo e di cercare di cambiarlo. Lo ha fatto alimentando con pazienza, umiltà e tenacia, giorno dopo giorno, la sua immensa volontà e capacità di apprendere facendo. In questa ampia, intensa e inedita conversazione con Gea Piccardi e Duccio Scotini, realizzata nell’agosto 2013 all’Università della Terra di Oaxaca, forse l’esperienza più originale e feconda cui Esteva ha dato vita, ripercorre alcuni dei passaggi essenziali del suo pensare e agire in un orizzonte di rottura per andare alla ricerca del mondo nuovo che non è un’utopia ma già esiste dentro le macerie del capitalismo. Dall’incontro e il lungo cammino percorso con gli zapatisti a quello con Ivan Illich e la continuazione dl pensiero di Marx, passando per molti dei concetti chiave del suo pensiero critico: il superamento della violenza e l’impossibilità di separare i mezzi dai fini, quello della tradizione guerrigliera latinoamericana e dell’idea di avanguardia per aprire un altro cammino non meno ma più radicale: i popoli che insorgono. Dal recupero del concetto maya del “noi” che precede la formazione della persona alla ribellione della gente comune, dal rifiuto di una società che ha come cellula fondativa la merce e l’individuo a una realtà post-capitalista costruita a partire dagli ambiti di comunità. E poi, sempre alla luce di una lettura dello zapatismo profonda quanto appassionata, il ricordo vivo in sostituzione della memoria ufficiale, il concetto di matria contro quello patriarcale di stato-nazione, la pluralità dei mondi contro l’omogeneità e la massificazione atomizzata delle persone, le rivoluzioni reali della vita quotidiana e della gente comune contro quelle che entrano nella memoria fossilizzata degli stati. E ancora: il rifiuto dei modelli, l’aspirazione alle catene del lavoro e il precariato, i limiti della resistenza e le diverse forme e colori non di uno ma di molti progetti politici, la creazione di centri autonomi di produzione del sapere, l’importanza della lotta per le parole in cui c’è molto da inventare

Abbiamo intervistato Gustavo Esteva nell’agosto del 2013, presso la sede dell’UniTierra di Oaxaca, in Messico. La nostra idea era quella di documentare il progetto di questa università popolare, descolarizzata, comunitaria, e di metterlo in relazione con un’altra esperienza unica che ha avuto luogo quell’estate nel Sud-Est messicano e a cui abbiamo avuto il privilegio di partecipare: l’Escuelita zapatista. Parlare di queste due proposte d’apprendimento ci sembrava un’occasione importante per approfondire la nostra conoscenza dello zapatismo, dei movimenti indigeni e popolari in Messico, delle lotte per la memoria e per l’autonomia, delle alternative anti-sistemiche e dei loro modi di concepire tanto la prassi politica quanto l’incontro tra differenti prassi a livello transnazionale. Soprattutto, ci interessava capire il ruolo dell’apprendimento all’interno di questi processi, dell’apprendimento come etica dell’incontro e come forma d’organizzazione politica.
Conversare con Gustavo è stata una tappa fondamentale di questo percorso, un’opportunità preziosissima per poter ascoltare chi questi processi d’autorganizzazione ha contribuito a crearli in prima persona (come nel caso dell’UniTierra di Oaxaca) o li ha sostenuti, difesi, diffusi e arricchiti con la sua stessa prospettiva ed esperienza, come nel caso dello zapatismo.
Abbiamo incontrato Gustavo non solo in veste di grande pensatore, teorico critico del nostro tempo, ma anche come militante, come compagno, e soprattutto come alunno. Lui, come noi, aveva partecipato all’Escuelita zapatista da studente, una posizione non solo di circostanza, o formale, ma prima di tutto etica e politica. Essere alunni, durante l’Escuelita, non ha significato ricoprire il ruolo passivo di chi riceve una lezione dalla cattedra, ma partecipare quotidianamente alla processualità politica della vita nelle comunità zapatiste, esercitando, più di ogni altra, la facoltà dell’ascolto e la pratica della condivisione tra mo(n)di differenti. Gustavo Esteva era, oltre a molte altre cose, uno studente, un alunno, un apprendista dei movimenti indigeni, popolari, urbani e contadini del Messico, e in particolare era alunno dello zapatismo. Come spiega nell’intervista, l’incontro con questo movimento ha segnato una svolta profonda nella sua vita, soprattutto nella sua vita da militante marxista, appartenente ai gruppi rivoluzionari della “sinistra classica” in Messico. Ha inaugurato un processo d’apprendimento mai interrotto, durante il quale Gustavo ha cercato di capire e si è lasciato ispirare da un’esperienza politica che, come ci racconta nella conversazione, ha trasformato radicalmente i principi e le forme dell’azione politica dal basso e a sinistra.
Il nostro progetto di documentario, per mille ragioni, non è mai decollato, e i materiali raccolti sono rimasti archiviati, in attesa di essere prima o poi sistemati e divulgati. Tra questi anche l’intervista a Gustavo Esteva, che qui riportiamo e che ci dispiace molto di non aver potuto condividere prima di tutto con lui. È stata la notizia della sua morte che, oltre ad averci lasciato un’enorme tristezza, ci ha anche posto di fronte all’urgenza politica e storica di pubblicare le sue parole, oggi ancora estremamente attuali.
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La nostra prima domanda riguarda il tuo incontro con lo zapatismo. Quando è avvenuto? E che impatto ha avuto sul tuo pensiero e la pratica politica?
Fu un incontro molto rapido, avvenuto già dal primo gennaio del ’94. Passai una settimana con enormi perplessità. La ragione era semplice: gli anni sessanta (‘63-’64) erano stati per noi, in America Latina, gli anni di Che Guevara, quelli dell’urgenza di fare la rivoluzione, e io cominciai con un gruppo di compagni a lavorare in una guerriglia, alla preparazione militare, a organizzare quella che doveva essere la prima guerriglia in Messico. Era una guerriglia urbana e rurale. Durante preparazioni e addestramenti, il 6 marzo del 1965, accadde un episodio terribile nel nostro gruppo rivoluzionario: uno dei nostri massimi dirigenti uccise un altro dirigente “per una donna”. Quest’uomo già stava con la quinta moglie, però andò a trovare la quarta e la trovò con l’altro leader, tirò fuori la pistola e lo ammazzò. Dopo venne a casa mia a cercar rifugio e qui si diede la situazione assurda di un gruppo “super rivoluzionario” dedicato a proteggere un assassino. La polizia conosceva il suo nome e lui conosceva tutti i nostri, quindi, a causa di questo terribile episodio, la situazione si concluse con il carcere. Questa esperienza fu per me la dimostrazione, a dir poco orrenda, della violenza che stavamo imponendo a noi stessi e che volevamo imporre a tutta la società. E questa era la cosa più difficile nell’addestramento militare: non tanto imparare a usare un’arma, quanto imparare a uccidere qualcuno che non ti ha fatto niente. Non è una cosa facile, richiede un grande addestramento interno. Però se apprendi a uccidere, poi apprendi a farlo in molti modi, come accadde al nostro dirigente. Questo significò per me, nel 1965, vivere una crisi che mi condusse alla nonviolenza: non abbandonare l’idea della rivoluzione e della trasformazione, ma cambiare il metodo, ossia non seguire il cammino violento. Trent’anni dopo, nel 1994, mi domandavo “perché, Gustavo, sei tanto entusiasta per gli zapatisti se stanno ammazzando e se stanno usando di nuovo la violenza? Che ti succede?”. Credo che vi fu una trasformazione molto interessante che avvenne nei giorni seguenti: mi misi a leggere Gandhi, l’uomo della nonviolenza, e incontrai in lui qualcosa che non avevo visto prima e che credo sia rilevante. Un figlio di Gandhi (quello che ha subito un attentato) va dal padre e gli chiede: “Che faccio se qualcuno mi attacca e ti vuole ammazzare? Gli predico la nonviolenza? Lascio che ti uccida?”. A quel punto Gandhi ride e gli risponde: “Guarda, la nonviolenza è per i forti, non per i deboli. Sarebbe criminale, da parte mia, predicare la nonviolenza a un topo che sta per essere divorato da un gatto. Il debole non ha altra opzione che la resistenza passiva, che non è bene, o la violenza. In questo caso la violenza è legittima, è esattamente quello che c’è da fare. Ciò che non si deve fare è essere codardi, questo è il vizio peggiore, non devi avere codardia. Se io predico la non violenza agli indù è perché non vedo perché 300 milioni di indù debbano aver paura di 150.000 britannici. Dato che loro sono forti devono usare la nonviolenza per ottenere ciò che vogliono”. Questo esempio si prestava esattamente al caso degli zapatisti. Quelli che chiamiamo zapatisti provarono di tutto: organizzazioni economiche, organizzazione politica, un’incredibile marcia a piedi di 300mila persone dal Chiapas a Città del Messico per far sentire le loro richieste. Nessuno ascoltò, né il governo né la società civile. Erano i deboli e stavano morendo come mosche. La situazione era realmente quella di un genocidio commesso dagli anni Settanta negli altipiani del Chiapas. Stavano realmente morendo in una condizione spaventosa. Come ultimo mezzo, fecero dunque ricorso alla violenza, all’addestramento militare. Ho un’interpretazione – ma è mia, del tutto personale, non è la loro versione ufficiale – per cui gli zapatisti stavano seguendo più la tradizione maya del sacrificio di una generazione per quella successiva che la tradizione delle guerriglie centro-americane. Non credo pensassero veramente di poter vincere contro l’esercito messicano, però volevano che i loro figli e nipoti potessero avere un altro destino, altre possibilità di vita. In ogni caso, questa fu per me la spiegazione di quel che era successo. Il 6 di gennaio, quando uscimmo per strada per dire a quelle persone con il passamontagna: “Non siete soli, siamo con voi, ma non vogliamo altra violenza”, gli zapatisti si trasformarono nei forti, secondo il ragionamento di Gandhi. Da deboli a cui nessuno faceva caso, d’un tratto avevano catturato l’attenzione di tutti. Grazie a questa forza diventarono, il 12 gennaio del ’94, i campioni della nonviolenza in Messico. Fu un fattore molto importante per prevenire ulteriore violenza. E stanno ancora mostrando in maniera splendida, capace e moralmente incredibile, cos’è questa cosa della nonviolenza, come può attuarsi e viversi. Questo fu il momento in cui mi legai allo zapatismo, il 13 gennaio del ’94.
Nel gennaio del 1994 molti gruppi guerriglieri della tradizione degli anni ‘70 del Centroamérica, per esempio in Nicaragua o in Guatemala, non accolsero con favore l’insurrezione armata dello zapatismo, accusandolo di cattiva strategia e di tradire il “modo usuale” di fare la rivoluzione. Con che lenti veniva guardato lo zapatismo nel ‘94? Come un movimento di guerriglia o come un fenomeno completamente nuovo?
Ci sono molti aspetti di cui tener conto. Uno è che alcune guerriglie centroamericane vedevano male lo zapatismo perché stavano negoziando con i governi. Pensavano che non fosse più il tempo della guerriglia ma quello delle trattative. C’è un altro aspetto importante, però, che è forse un’attitudine attribuibile al subcomandante Marcos. Lo spiegherei con un aneddoto che si racconta: fino al ‘90 -’91 alcuni zapatisti, il comandante Tacho e altri, propongono al Sup Marcos – che allora non era ancora subcomandante – di dichiarare guerra al governo messicano. Marcos risponde che è una follia, che l’Unione Sovietica è ormai caduta e il mondo è totalmente cambiato, non si può cominciare una guerriglia negli altopiani. Loro rispondono che sì, Marcos potrebbe avere ragione, ma che gli zapatisti si consultano sempre su tutto con la gente, dunque anche in quel caso andranno a chiedere quello che si pensa al riguardo. Questa sì è una cosa alquanto stupefacente: si organizzano consultazioni nelle assemblee, nelle comunità che allora si stavano organizzando come zapatiste. Le comunità decidono che non c’è altro rimedio: è necessario dichiarare guerra all’esercito messicano. Va sottolineato un altro aspetto molto importante: fin dal principio gli zapatisti dichiararono: “Noi non siamo guerriglia, siamo esercito”. Dicevano chiaramente che la figura del Che è quella di una guerriglia: un pesce che nuota nel mare del popolo, un gruppo rivoluzionario che organizza la guerriglia con il popolo che lo appoggia. Questo è il modello “normale” di una guerriglia. Loro invece dicevano che l’EZLN era diverso, perché l’EZLN è il mare, tutto il popolo, tutte le comunità che insieme prendono una decisione e affidano un incarico a un gruppo di persone. Queste ricevono l’addestramento militare e la comunità si occuperà di equipaggiarle o di mantenerne le famiglie. Non stavano seguendo la tradizione guerrigliera, erano un popolo che insorgeva.
C’è poi un altro aspetto molto importante da rilevare. Lo si comprende quando, il 12 gennaio del ’94, dopo solo 12 giorni, l’EZLN dichiara di cessare definitivamente il fuoco per entrare in un processo di negoziazione. Riguarda quello che si è chiamato il “camminare domandando” e si riferisce alla capacità di avanzare a zig-zag, di non seguire un cammino strategico predefinito, una linea già tracciata. Si continua invece ad ascoltare e a interagire con altri attori sociali, cambiando comportamento secondo il vento della realtà. A quel tempo una volta sentii Marcos – che a quel punto era già Sup – dire che la società di dieci anni prima era molto diversa da quella di allora [del 1994]. Così si chiedeva: “Cos’è questa società che reagisce in questo modo? Che subito appoggia lo zapatismo, che gli dà forza e gli permette di funzionare?”. In febbraio fa un’altra dichiarazione in cui dice: “Noi eravamo preparati alla guerra non al dialogo. Non sappiamo che diavolo significhi parlare col governo. Sicuramente sbaglieremo, però impareremo perché voi, la società civile, ci state dicendo di provare questo cammino”. Questa trasformazione dell’EZLN fu una risposta alla società civile che invitava ad abbandonare il cammino della violenza per la via politica del confronto. Credo che lo zapatismo sia stato continuamente frainteso, considerato come una guerriglia quando non lo era, quando già aveva adottato un altro cammino. Continuò a essere screditato da due tipi di gruppi: da quella che chiamiamo “sinistra istituzionale”, vincolata al sistema, e da alcuni gruppi che si pretendevano più radicali e volevano un altro tipo di scontro.
Se consideriamo questa capacità dello zapatismo di “camminare domandando e ascoltando”, di trasformare le sue decisioni politiche attraverso l’incontro con la gente comune del Chiapas e di altrove, come possiamo leggere la Otra Campaña? È un momento importante di questo percorso “a zig zag”?
Quella dello zapatismo è effettivamente una storia continua di esperimenti. Credo che il primo sia stato la Convenzione Nazionale Democratica dell’agosto del ’94, che rappresenta un primo sforzo di contatto con loro, fallito per motivi che tutti sappiamo. Il Fronte Zapatista fu un altro sforzo in questo senso. Ce ne sono stati molti prima di arrivare alla Otra Campaña. La Otra Campaña è un momento di maturità dello zapatismo. Da una parte, è un momento di ristrutturazione e di consolidamento dello zapatismo nella sua organizzazione di base e, dall’altra, un tentativo di relazionarsi con altri gruppi della società civile in maniera differente. È un tracciare il confine dicendo “di qua stanno quelli che faranno parte della campagna politica, quelli che sono stati dalla nostra parte ma anche del PRD e di altri partiti; di là stiamo noi, un’altra campagna”. Lo stesso giorno delle elezioni, a Città del Messico, Marcos dichiara che è bene che la gente sappia che esiste un’opzione, che si può andare a votare ma che c’è anche un’altra forma dell’agire politico. Quindi gli zapatisti invitano in quel momento a un’articolazione della società civile che possa creare un’opzione politica differente.

Un tema che torna molto nei tuoi scritti è quello della creazione di ambiti di comunità. Ti chiediamo, quali sono state le condizioni affinché emergessero, in Messico, ambiti di comunità come quello zapatista?
Credo che in Messico non sia mai terminato quello che chiamiamo “l’origine del capitalismo”, ossia l’accerchiamento degli ambiti di comunità. È così che inizia il capitalismo, con una guerra alla sussistenza che elimina gli ambiti di comunità. Accade in tutto il mondo e continua fino ad ora. In Messico c’è stata una resistenza da parte degli indigeni che sono sempre riusciti a mantenere l’identità di un “noi”, di una comunità molto forte. Una cosa che diciamo è che tra le migliori tradizioni dei popoli indigeni c’è quella di cambiare la tradizione in maniera tradizionale. Questo è ciò che gli permette di continuare ad essere se stessi. Certo non sono uguali, non sono come erano 500 anni fa, sono cambiati costantemente, si sono attualizzati, si sono conformati a circostanze diverse, però continuano ad essere se stessi perché cambiano a modo loro, cambiano attraverso decisioni collettive, in maniera autonoma, laddove è la comunità che decide di adattarsi alle circostanze. E questo è ciò che permette, tra le altre cose, la loro sopravvivenza fino ad oggi. Dobbiamo pensare che concretamente tra i Maya della zona del Chiapas, questa capacità di mantenere vivo un “noi” è molto forte. In tojolabal, una delle lingue maya parlate dagli zapatisti, non esistono le parole “io” e “tu”. Non funzionano in termini di individui, ma nei termini di un “noi”. “Noi” è la definizione di un primo strato dell’essere, che sta prima della formazione della persona.
A partire da tutto questo, credo che lo zapatismo sia in sé il frutto di un dialogo interculturale. Per come lo raccontano gli zapatisti, i rivoluzionari di professione della tradizione marxista-leninista, guevarista, eccetera, con la loro mentalità di stampo occidentale, cozzano con la tradizione delle comunità indigene. Le comunità non li comprendono, dicono: “Le vostre parole sono così dure, di cosa state parlando?”. In Chiapas, invece, c’era la flessibilità sufficiente per aprirsi a un’altra possibilità e dar vita allo zapatismo, che non è né la continuazione della tradizione indigena, né un’applicazione della tradizione rivoluzionaria “convenzionale”, bensì un misto delle due. Questo è uno dei meriti fondamentali dello zapatismo: generare un dialogo tra due culture differenti, un dialogo che ha prodotto qualcosa di nuovo. Io credo che per quanto nella creazione zapatista si possano riconoscere le tracce del passato indigeno, della tradizione indigena, quello che stiamo vedendo oggi è una novità: non si tratta né del ritorno alle origini delle comunità indigene, né di ciò che crea la rivoluzione “convenzionale” della sinistra. Questa è una creazione sociologico-politica nuova. Se pensiamo all’Escuelita come a un invito ad apprendere quello che è la libertà per gli zapatisti, possiamo dire che la struttura della libertà è formata da dei procedimenti giuridici e politici che si incastrano gli uni con gli altri. Libertà non è la possibilità di essere qualsiasi cosa in qualsiasi momento: tutte le possibilità di libertà hanno una struttura. E questa struttura consiste in procedimenti giuridici e politici. Io credo che i procedimenti che gli zapatisti hanno mostrato all’Escuelita sono procedimenti del tutto nuovi da un punto di vista sociologico e politico. Possiamo trovarvi qualsiasi tradizione politica del passato: quella anarchica, quella comunista e quella indigena. Si tratta di una creazione assolutamente nuova.
Nel territorio autogovernato dagli zapatisti, da oltre vent’anni, è in atto un processo di rivoluzione senza interruzioni. Per il pensiero politico moderno la rivoluzione è costituita da due momenti: la sollevazione e l’istituzionalizzazione. Lo zapatismo invece non possiede questa struttura propria di tutte le rivoluzioni del secolo scorso. Se lo leggiamo come un processo, di che tipo di processo si tratta?
Ci sono due cose molto importanti che sono parte delle novità dello zapatismo. Una è il sotterramento del leninismo. Che cosa significa “leninismo”? Io direi che il XX secolo è stato leninista sia a destra che a sinistra. Lenin, nel Che fare? del1902, afferma che bastano due intellettuali professionisti e ben organizzati per educare le masse e condurle. Da questa idea, ovvero che le cose si facciano dall’alto tramite un procedimento di ingegneria sociale, deriva la necessità di un comando verticistico delle masse attraverso la creazione di un gruppo dirigente. Questo principio leninista, proprio di tutte le rivoluzioni e anche delle controrivoluzioni, è stato rifiutato per la prima volta in maniera totalmente aperta e chiara proprio dallo zapatismo. Forse la cosa più impressionante che possiamo vedere nello zapatismo, una cosa che è emersa anche durante l’Escuelita, è l’attento, coerente e programmatico trasferimento del comando dalla dirigenza politico-militare alle basi di appoggio. Nella storia del XX secolo appare evidente come coloro che vincono in una rivoluzione poi prendano il potere, vi si insedino e in seguito lo mantengano, come nel caso di Fidel Castro, Che Guevara o Mao. Coloro che si sono insediati al potere sentono che è loro diritto e loro obbligo continuare a manovrare e a utilizzare la rivoluzione istituzionalizzata come uno strumento per raggiungere dei fini. Le dirigenze politico-militari zapatiste, che prima dell’insurrezione avevano una capacità di comando verticistico – essendo un esercito e avendo di conseguenza una struttura autoritaria – appena hanno potuto, molto velocemente, hanno invece cominciato a trasferire tutte la capacità decisionale alla gente, fino ad arrivare, in questo momento, a una situazione in cui gli stessi comandi politico-militari sono l’appoggio delle loro basi di appoggio. Se da una parte le basi non appoggiano più l’EZLN, che è un organismo che sta attento ed è disposto ad appoggiarle quando è necessario, dall’altra sono le persone delle comunità dei municipi autonomi e le Giunte di Buongoverno a prendere le decisioni. Tutto il potere è stato effettivamente trasferito, tanto che tutti i dirigenti dell’EZLN potrebbero sparire domattina presto – ovviamente non mi auguro che scompaiano – e non accadrebbe nulla. Ciò significa che la struttura di base dello zapatismo si è già costruita, sta già nelle mani della gente. È in questo senso che il leninismo scompare con gli zapatisti e che è possibile rappresentare la storia delle nuove rivoluzioni del XXI secolo.
L’altra cosa importante è che gli zapatisti hanno detto subito in maniera esplicita che volevano farla finita con la separazione tra mezzi e fini. Questa separazione è stata sempre fatta dalla sinistra e dai rivoluzionari: il fine ultimo della rivoluzione dà il diritto, per arrivarci, di fare qualunque cosa. Posso ammazzare, corrompere, tradire i miei amici, posso fare qualunque cosa perché qualunque mezzo è buono se il fine è tanto elevato e coincide con la rivoluzione. Gli zapatisti hanno detto che mezzi e fini sono due facce della stessa medaglia, ossia che nell’azione che compio deve già essere contenuto il risultato. Questa congiunzione l’hanno portata avanti prima, durante e dopo la sollevazione. Ben prima del primo gennaio 1994, nell’organizzazione che costruirono per arrivarci, c’era già il risultato: la preparazione per una nuova forma di vita sociale e politica. Credo che sia soprattutto in questi due elementi che gli zapatisti stiano rompendo con il XX secolo e cominciando il secolo XXI.

Il movimento zapatista, nato dalle comunità e dalle resistenze indigene contro il colonialismo, è riuscito a creare una forma del fare politica capace di confrontarsi con un sistema globale e con le sue ristrutturazioni contemporanee (quello che tu chiami il post-capitalismo) in maniera forse molto più efficace rispetto ai movimenti sociali che si rifanno a una politica di sinistra classica, radicale o meno. In che modo questo è accaduto? In cosa si contraddistingue la differenza tra questi ultimi e il “che fare?” zapatista?
Direi che nello zapatismo stiamo osservando un’anticipazione che alcuni chiamano “post-postmoderna”. In questo senso, la post-modernità non è tanto ciò che sta dopo la modernità, quanto lo stato di disillusione dei moderni che dicono che “il paradigma che abbiamo non serve più, però non abbiamo niente in cambio, un nuovo paradigma sostitutivo”. Le scienze sociali adesso stanno cercando un nuovo paradigma. Prima erano per lo più allineate con l’idea di sviluppo, di progresso, eccetera. Attualmente le scienze sociali, in tutto il mondo, dicono che bisogna assolutamente trovare un nuovo paradigma perché l’altro non serve più, non va più bene. Però lo cercano nell’Accademia, mentre gli zapatisti stanno dicendo: “Un attimo, qui c’è già!”. Lì si è creato un nuovo paradigma che però non è uscito da un’università, né dalla testa di un pensatore. Si tratta di una creazione sociale pratica, la costruzione di un nuovo paradigma nella pratica. Io direi che c’è una realtà post-capitalista che sta emergendo dal capitalismo (i nuovi mondi nascono sempre dal ventre dei vecchi mondi) e che si sta costruendo dappertutto ma non ha ancora nome: il miglior esempio è forse quello dello zapatismo, ma non è l’unico. Nel 1992 il gruppo della rivista britannica The Ecologist, una sorta di bibbia degli ambientalisti, girò il mondo con il pretesto della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente per vedere cosa stava succedendo e quello che trovarono nel mondo intero (che in seguito hanno chiamato Reclaiming the commons) era l’espressione dello sforzo della gente dal basso, non degli intellettuali o dei partiti. A partire dalle difficoltà della situazione e dalle crisi si stava cercando di ricostruire i Commons: ovvero un movimento molto profondo, nelle città come nelle campagne, per rigenerare e creare ambiti di comunità. Se da una parte c’era un tentativo di ricostituire ambiti di comunità, dall’altra ce n’erano che hanno resistito nel tempo e che il capitalismo non è mai riuscito a distruggere. Se la società capitalista ha come sua cellula fondamentale la merce e l’individuo, quello che stiamo vedendo nella nuova realtà del mondo che sta cercando di emergere è l’ambito di comunità come cellula della nuova società, dove l’individuo e la merce non funzionano più. Per questo è già una realtà post-capitalista, perché le relazioni sociali stabilite tra l’individuo e la merce non sono più operative. Credo che gli zapatisti si riferivano molto concretamente a questo il 21 Dicembre 2012 nel comunicato intitolato “Escucharon? El sonido de su mundo derrumbandose”: la crisi del mondo capitalista, il collasso della civilizzazione occidentale, del mondo coloniale, machista, quello della mentalità patriarcale. E il mondo nuovo che emerge è quello degli ambiti di comunità. È possibile che non vi siano esempi tanto completi e potenti come quello degli zapatisti, però esistono in tutto il mondo: è un movimento in corso anche nelle società iper-individualistiche dal momento che la gente non può continuare a sopportare questo individualismo, lo sta rifiutando e sta cercando altro. È in questa stessa ricerca che sta quella che potremmo chiamare la rivoluzione degli ambiti di comunità, che viene dalla gente e non rispetta i momenti classici delle rivoluzioni del ‘900 (prendiamo il potere e poi facciamo la rivoluzione), perché quello che fa è smantellare il vecchio potere, praticare un taglio cesareo sul vecchio potere politico e economico.
A noi sembra che nel movimento zapatista la distruzione dell’individualismo passi per la costruzione pratica di questi ambiti di comunità, ma, insieme, anche per un processo di reminiscenza, un esercizio di memoria che risponde alla domanda “chi siamo?”, dando vita a un’identità collettiva molto forte. Quando stavamo andando all’Escuelita, sul camioncino, un compagno e alunno di San Cristobal, ci disse che per lui gli zapatisti sono i guardiani della storia, della patria e della memoria. Che significato ha per te questa frase? Che rapporto intrattiene lo zapatismo con la memoria?
Sì, gli zapatisti ci stanno dicendo che quello che bisogna fare oggi è una battaglia della memoria contro l’oblio. Credo che per noi sia importante stabilire una distinzione tra quello che è la memoria come qualcosa di testuale, congelato, qualcosa che produce una specie di verbale di quello che è accaduto in passato, e il ricordo, una parola che invece viene dal cuore e che ha una capacità di vita. Marcos ha detto molte volte che nei villaggi indigeni ci si confonde perché lì hanno una concezione del tempo molto diversa dalla nostra: raccontano qualcosa che uno non sa bene se sia successa ieri, se sta accadendo ora, o è di mille anni fa. Per come è narrata, sembra sempre qualcosa di vivo. Quindi se quello che stiamo facendo e che vogliamo fare è ricordare, ricostruire il ricordo, allora dobbiamo distruggere la memoria fossilizzata, prodotto della disciplina storica. Quando Eric Wolf scrive il famosissimo e brillante libro Europa y la gente sin historia, ci sta dicendo proprio questo. La storia è solo quella che scrivono gli storici, l’altra storia non conta, non esiste. Quest’ultima, la storia viva, la storia reale, quella che vive la gente, è registrata nel ricordo che si tramanda da una generazione all’altra. È quella che gli zapatisti stanno recuperando. Se oggi andassimo in uno dei paesi della Ex Jugoslavia, e provassimo a porre il tema dell’autogestione, ci accorgeremmo che è proibito: “No, non si può parlare di autogestione. Fu imposta da Tito. Fu un fallimento, non servì a nulla”. I partiti politici e i governi sopprimono l’esperienza dell’autogestione che, ai tempi di Tito, si presentò nel mondo intero come modello alternativo allo stalinismo. Era un modo di fare la rivoluzione nella vita sociale diverso dal controllo burocratico dello Stato nel “socialismo reale”. Quella è una memoria formalmente soppressa in questi paesi. Però se uno comincia a parlare con la gente e a ricordare l’altra faccia dell’autogestione: dapprima fu sì imposta da Tito ed effettivamente produsse molti problemi, poi però fu anche un’esperienza viva della gente, di cui può riemergere il ricordo. Quindi, io penso che dobbiamo provare a distinguere tra questo ricordo e la memoria ufficiale, la memoria consacrata. Quello che fanno gli zapatisti è proteggere, coltivare e rinnovare questo ricordo vivo della gente, non la memoria ufficiale. Così facendo, stanno sfidando la storia ufficiale. Se qualcuno volesse parlare di una specie di curriculum nel sistema di apprendimento zapatista, l’unico importante sarebbe quello di studiare cosa accade a noi, chi siamo e da dove veniamo, quale è stata la nostra storia, la storia del nostro sterminio, non quella che ci ha venduto il governo o quella che ci vendono gli storici. Si tratta del recupero di un altro tipo di memoria.
Credo inoltre che gli zapatisti parlino più spesso della “matria” che della “patria”. Eliminano l’elemento patriarcale proprio della costruzione dello Stato-Nazione, che è un apparato di controllo e in cui il nazionalismo dà vita a un meccanismo di manipolazione. Sin dall’inizio dicono: “Non siamo separatisti, non vogliamo creare uno Stato indio separato dagli altri, inoltre il nostro non è un movimento indigeno, sebbene la maggior parte di noi è indigena. Vogliamo qualcos’altro, la possibilità di vivere a modo nostro, in armonia con gli altri, dentro il Messico”. Quindi mantengono il Messico come elemento di unione tra messicani diversi. E qui sta il contrasto tra patria e matria. La patria sarebbe il modello dello Stato-Nazione per cui tutti siamo italiani, francesi, messicani, eccetera. Una definizione omogenea e burocratica di coloro che formano la nazione. Gli zapatisti, invece, dicono che vogliono creare un mondo che accolga tutti i mondi. “Vogliamo vivere in un mondo, questo mondo, in cui dentro al Messico e altrove possiamo esistere in armonia tra diversi”. Io direi che ciò che loro intendono ha più a che fare con l’idea di matria che con quella di patria. In questo senso, sì, credo che il compagno con cui avete parlato dica delle cose molto vere.

Questa differenza tra matria e patria ci ricorda quello che gli zapatisti hanno scritto nella Sexta in questo gennaio, ovvero che tutti i tentativi di omogeneità hanno qualcosa di fascista. Un’affermazione che ci pare vada oltre il solo sotterramento del leninismo. A livello teorico si è parlato di questo anche in Europa, ponendo la differenza tra le categorie teoriche di popolo e moltitudine. Il discorso teorico quindi rifletteva quello zapatista della “non unità”, di una forma plurale di organizzazione, che però, nei fatti, non si pratica mai. Ci sembra dunque che il senso di “tutti i tentativi di ricondurre a ‘omogeneità’ sono fascisti” indichi altre forme di organizzazione tutte da immaginare…
La forma nella quale esprimerei io questo concetto non è un’espressione degli zapatisti ma del poeta spagnolo Machado: la parola “massa”, nonostante abbia una risonanza radicale, ha un’origine ecclesiastica e borghese. Gli uomini e le donne non possono essere massa. Le masse sono formate da atomi omogenei, si può disporre una massa se si tratta di mitragliarci, controllarci e manipolarci. L’unità, quindi, è l’unità della massa formata per atomi omogenei. Questi atomi omogenei non possono organizzarsi da se stessi, c’è qualcuno che deve organizzarli. Da questa idea di unità emerge generalmente una forma fascista di controllo autoritario, perché la gente è pensata come incapace di organizzarsi autonomamente. Deve esserci un’ideologia, una forza esterna. In altre parole, non c’è modo per cui un gruppo di palle da biliardo si mantenga in equilibrio, devo tenerlo io con le mani per mantenere la struttura. Le palle da biliardo, atomi omogenei, non possono stare unite da sole. In termini che suonano molto più familiari alla sinistra classica, possiamo dire: “l’organizzazione dei lavoratori”. Se riduciamo ciascuno di noi a un aspetto della nostra realtà, che è quella di essere lavoratori di un’impresa, di avere un impiego, ci trasformiamo in atomi omogenei, che costituiscono una massa, organizzata, che dunque dev’essere unita. Gli zapatisti rompono con questo principio. Noi continuiamo ad essere persone, ad essere ciò che siamo. E da qui, dall’essere diversi, possiamo organizzarci e articolarci in altri modi. Ci stanno mostrando come va questa costruzione dal basso verso l’alto, le persone continuano ad essere diverse anche se si mantengono organizzate autonomamente. E questo necessita di nuove forme organizzative per raggiungere una scala maggiore. Un esempio si dà, per iniziativa degli zapatisti, durante il Forum Nazionale dei Popoli Indigeni nel gennaio del 1996. Era l’ultimo giorno, dopo che avevamo partecipato a un incontro splendido. Era la prima volta in 500 anni che i popoli indigeni del Messico si riunivano per propria iniziativa. Fu una scoperta per loro: ti ritrovavi i Tzotzil, scoprivi i Tarahumara, gli Yaquis che si incontravano per la prima volta con gli Zapotechi di Oaxaca. Non sapevano nemmeno dell’esistenza reciproca, mentre lì si sono conosciuti, hanno legato, incontrato enormi possibilità di relazione e di unione. Tuttavia, l’ultimo giorno, quando si pose la questione di come unirsi, come proseguire una volta concluso il Forum, tutte le proposte caddero nel vuoto. Si diceva: “No, non possiamo fare così, una commissione, un’organizzazione, non è un partito, così finiremo solo col burocratizzarci e sarà un’altra volta come al solito”, eccetera. Alle due del mattino, gli zapatisti dissero: “Dopo dieci ore di discussione vi chiediamo un voto di fiducia e lasciate che noi si capisca come regolare il tutto”. Quello che fecero fu … non regolare niente, bensì chiedere a una commissione di persone di chiamare altra gente per cominciare a pensare come fare, finchè non si creò il Congresso Nazionale Indigeno. Un lemma del Congresso Indigeno, molto importante e che definì la nuova forma di articolazione senza l’unità né la massa, è il principio che senza dubbio emerse dalle lotte di Oaxaca: siamo rete quando siamo separati, siamo assemblea quando siamo insieme. E questo è un principio che esiste anche nello zapatismo. Significa che gente che viene dalle comunità, gruppi indigeni dispersi che stanno per tutto il Paese, che nella maggior parte dei casi non hanno Internet e che la comunicazione la fanno sugli asini, da una parte mantengono la loro autonomia e continuano ad essere quello che sono (Tarahumara, Yaquis, Zapotechi), e, dall’altra, si ritrovano periodicamente dando vita a un’unione circostanziale, transitoria e nella quale si relazionano come assemblea. E in questa assemblea prendono accordi e decisioni.
Vorrei riportare un aneddoto che ho raccontato molte volte perché mi impressiona molto e riflette una nuova teoria politica. Vent’anni fa ci fu, qui a Oaxaca, un candidato governatore che era un mixteco, un indigeno. Il giorno in cui doveva iniziare la sua campagna politica invitò i rappresentanti dei quindici popoli indigeni dello stato di Oaxaca a fare una cerimonia per l’inizio della campagna. In un grande salone c’erano i rappresentanti dei 15 popoli. Per dieci ore ascoltammo ciascuno di loro parlare nella propria lingua indigena, senza traduzione. A Oaxaca c’è chi parla una, due, tre, quattro lingue, ma nessuno parla quindici lingue. Quindi fu terribile ascoltare dieci ore senza poter capire un bel niente, non sapevamo letteralmente cosa stessero dicendo. Dunque, alla decima ora, un vecchietto molto vecchio, scelto da loro, attraversò tutto il grande salone e quando fu vicino al candidato disse: “Vogliamo che tu sia per noi come l’ombra di un albero”. E basta. Io ero totalmente sconcertato, come tutti quanti. Corsi dai miei amici e chiesi quale fosse il senso di tutto questo rituale quando finalmente avevano l’opportunità di dire al candidato le loro proposte, i loro piani, e di porre le loro domande. Loro si stupirono della mia sorpresa e mi dissero che il messaggio era molto semplice. La prima parte serviva per dire: “Non puoi capire la nostra lingua che è l’espressione suprema della nostra cultura. Se per parlare con noi devi usare lo spagnolo che è la lingua dei colonizzatori, non puoi seriamente pretendere di governarci perché non puoi intenderci”. Avevano voluto dimostrargli, per dieci ore, che non poteva capirli e quindi, tanto meno, governarli. Il secondo messaggio era anche molto semplice: “Questa non è una ribellione. Vogliamo un governatore, meglio se indigeno, però lo vogliamo di un governo diverso, non uno che vuole governarci tutto il giorno anche contro la nostra volontà. Dev’essere un governatore che sta fisso in un luogo, come un albero appunto, che ha le radici nel popolo e che – se siamo in difficoltà, se attraversiamo una crisi, o se c’è siccità, se accade un terremoto e se stiamo litigando tra di noi – sappia offrirci protezione come te la offre l’ombra di un albero. Mi pare una buona teoria politica. Non si tratta di chiudersi al livello della comunità, ci si può articolare in tutta la matria messicana, però senza un potere burocratico che ci controlla, senza supposti rappresentanti che non ci rappresentano. Possiamo quindi avere luoghi in cui tenere un’assemblea e dove ci si possa mettere d’accordo su delle decisioni, così come una struttura, dissero, che ci offra protezione quando essa ci manca. Si tratta di un’idea di governo diversa, un’idea di struttura giuridica e politica differente da quella degli Stati-Nazione in tutte le forme precedenti.
Il mio Votàn mi ha detto che quando si cominciò a parlare dell’Escuelita, tra gennaio e febbraio, i priisti [aderenti al PRI, Partito Rivoluzionario Istituzionale, ndr] ridevano di loro e dell’Escuelita perché non riuscivano a capire che si trattasse di un progetto politico. Questo è significativo della natura differente dell’Escuelita, che non è un Social Forum. Qui non partecipa solo la rappresentanza militante ma ci sono alunni, gente comune, e Votàn. Per te qual è lo scarto tra l’Escuelita come progetto politico e la prassi politica della sinistra classica? E inoltre, per connettere questo tema a quello della UniTierra, qual è il valore politico delle pratiche d’apprendimento? E in che modo queste si distinguono dalle forme più classiche di coalizione politica?
Un’impressione che ho avuto anche parlando con altri compagni è che l’Escuelita sia nata prima di tutto dentro lo zapatismo, per loro stessi. Quando gli zapatisti vedono la necessità di passare dal livello delle comunità e municipi a quello delle Juntas de Buen Gobierno, si scontrano con un problema: nei municipi e nelle comunità parlano le lingue locali, si capiscono, e quindi c’è un flusso costante di apprendimento che avviene attraverso lo scambio diretto di esperienze. Tuttavia, a livello dei Caracoles, c’è gente di diversi villaggi e quindi si trovano obbligati ad usare lo spagnolo come lingua franca per potersi capire. In questo processo, visto che esistono autentiche forme di decisione dal basso, i Caracoles cominciano a svilupparsi in maniera differente gli uni dagli altri. E quindi tutti si chiedono come poter apprendere gli uni dagli altri, come potersi relazionare tra distinti Caracoles. Da qui nasce prima l’idea di fare una specie di Escuelita interna – non esattamente lo stesso che abbiamo visto noi, ma qualcosa di simile per apprendere tra di loro – e poi, di fare lo stesso ma con gente che viene da fuori. “Perché non invitare altra gente del mondo e del resto del paese per condividere quello che facciamo e che siamo?”, potrebbero essersi detti. Quindi sin dall’inizio è un progetto politico, di costruzione dal basso, attraverso l’apprendimento diretto, una decisione della gente comune non dei dirigenti o del comando, in cui si pone qualcosa che possiamo chiamare “la circolazione delle lotte popolari”, come l’ha definita Harry Cleaver trent’anni fa. È una caratteristica dello zapatismo l’apprendimento dagli altri. Questo cammino a zig-zag, il “caminar preguntando”, rappresenta proprio l’apprendimento da altra gente grazie all’interazione. La costruzione rivoluzionaria basata sull’apprendimento a partire dalla gente comune. Io direi che questa è anche la storia universale delle rivoluzioni: le rivoluzioni reali sono quelle fatte da donne e uomini comuni che cambiano il loro comportamento. Non sono la presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, momenti che poi rientrano nella memoria fossilizzata degli stati. È il cambiamento della gente comune nel suo modo d’essere e di comportarsi, l’apprendere gli uni dagli altri. Quello che fanno gli zapatisti è, ancora una volta, rinnovare questa tradizione delle autentiche rivoluzioni dal basso cercando modi per far circolare la conoscenza delle lotte popolari.
Uno degli aspetti più chiari dell’Escuelita è che non si sta “vendendo” un modello. Gli zapatisti non stanno dicendo: “Noi siamo i leader, seguiteci e imitate quello che noi facciamo”. Non ci sono molte persone che vogliono vivere come vivono gli zapatisti, quindi sarebbero comunque pochissime quelle che vogliono imitarli, ma a loro non interessa affatto essere considerati un modello. Vogliono condividere con altri ciò che stanno facendo, questo dovrebbe permettere di tessere un progetto politico ampio. Vorrei dire – e non credo che in questo caso mi si possa accusare di ottimismo patologico – che l’Escuelita sarà tanto importante nel mondo di oggi come lo è stata l’insurrezione del ’94. Nel ’94 tutti i movimenti anti-sistemici dissero che quello era il risveglio, era il segnale, quando tutti ancora dormivano. Dopo vent’anni, quando è evidente che un sistema sta crollando con tutte le sue istituzioni, parte del problema è che non vediamo alternative perché continuiamo a pensare con vecchi strumenti, oggi gli zapatisti con l’Escuelita ci stanno dicendo: “Pensate in un orizzonte di rottura che veda altre cose, che guardi più in là”. Lasciatemelo dire in una maniera quasi aggressiva: ci sono milioni di lavoratori di quasi tutti i paesi europei che stanno lanciando un messaggio molto preoccupante che dice che c’è qualcosa di peggio dell’essere sfruttati, ed è il non esserlo. “Se non c’è da queste parti un capitalista che mi può rimettere le catene, che può tornare a sfruttarmi come faceva prima, non posso vivere. Se non ho un impiego e se non mi dà un sussidio il governo non posso vivere”. Questa è la mobilitazione di milioni di lavoratori che bussano alla porta di un sistema che ormai non gli darà né lavoro né le condizioni che aveva prima, e che però non vedono alternative. Non è il problema di un partito o di qualche dirigente, ma di molti uomini e donne comuni che stanno ancora dentro quella mentalità e che non vedono altre opzioni, altre possibilità. Questo è molto grave, molto delicato e molto pericoloso nelle condizioni attuali del mondo. Quello che fanno gli zapatisti con questo progetto è provare a creare un nuovo orizzonte politico di riferimento e una serie di esercizi di interazione che ci permettano, a noi non a loro, di costruire progetti politici differenti, a partire dall’idea della possibilità di un’alternativa oggi. Non è un’utopia, l’utopia è qualcosa che non ha luogo nel mondo, questo invece ce l’ha, anche se non ha un nome. Si tratta di costruzioni al di là di ogni utopia, costruzioni immediate per andare al di là del post-capitalismo. C’è un elemento che ci dicono molto bene gli zapatisti: la resistenza non è solamente sopportare, non è solo dire di no, la resistenza può avere un esito effettivo solo se, insieme al resistere, si costruisce qualcosa di nuovo rispetto a ciò contro cui si resiste. È una lezione utilissima non solo per le lotte specifiche, come quella NoTav in Val di Susa o qualsiasi altra lotta che sta avvenendo ora nel mondo, ma anche per coloro che stanno lottando per sopravvivere, perché non hanno più lavoro e le condizioni di prima ma cercano di risolvere il problema della fame. Quindi, sì, credo che quello che hanno fatto gli zapatisti avrà molte ripercussioni. Non ne uscirà un progetto politico bensì molti progetti politici di emancipazione con diverse forme e colori. In qualche modo, stiamo cercando di fare lo stesso qui all’UniTierra, un lavoro direttamente collegato a quello che chiamiamo “riflessione nell’azione”. Anche gli zapatisti hanno detto che ciò che fanno è in primis prendere collettivamente una decisione, metterla in pratica, e solo dopo riflettere su quello che è stato fatto. Questo andirivieni da riflessione a azione sta dando luogo, in molte parti del mondo, a un esercizio di creazione di centri autonomi di produzione di sapere che sfidano, come diceva Foucault, la produzione istituzionale di verità, le forme in cui ci vendono verità stabilite dalla sinistra o dalla destra. In questo senso, l’UniTierra è il recupero di una tradizione antichissima che è quella dell’“apprendere facendo”, per cui l’apprendimento non si basa su conoscenze formalizzate, testuali e teoriche, per cui solo dopo aver appreso il teorico si può accedere al pratico. Al contrario, qui cerchiamo di definire l’apprendimento a partire dalla pratica e con il ricorso a strumenti teorici. Al posto di prendere la teoria come realtà da applicare, vediamo le teorie e i testi come lanterne interessanti, che possono essere molto potenti per illuminare la realtà, ma dove ciò che importa è la realtà illuminata da queste lanterne. Quello che a noi interessa è lavorare alla trasformazione di questa realtà.

Che collegamento c’è, secondo te, tra la parola resistenza, che non significa solamente un “no”, e la parola disobbedienza?
Tra le due c’è un collegamento, con un solo problema, che riguarda il caso del Messico e non solo. Per passare alla forma della disobbedienza civile, dev’esserci, prima, l’obbedienza civile. In Messico non c’è molto di tutto questo, ossia, non abbiamo la tradizione dell’obbedienza civile. Siamo a tutti gli effetti disobbedienti. Alcune volte in un modo irrazionale e molesto: in Oaxaca la forma in cui si disobbedisce alle regole di transito converte la circolazione ma anche il passeggiare per la città in qualcosa di molto pericoloso, però, allo stesso tempo, esistono spazi di libertà che abbiamo creato non obbedendo a leggi e norme che ci hanno imposto per vivere. Abbiamo resistito alle leggi delle Indie durante trecento anni. Erano norme che ci imponevano da fuori, e poi abbiamo resistito alla legislazione dello Stato messicano, composta, ancora una volta, da norme imposte da fuori. Abbiamo affrontato le norme vigenti con le nostre, quelle che emergono dalle forme di organizzazione, dalle culture indigene e non. Quindi, anche se certamente posso vedere connesse resistenza e disobbedienza, nel nostro specifico caso non si applica tanto, perché realmente non siamo e non siamo mai stati obbedienti.
Un’altra riflessione ricorrente nei tuoi ultimi scritti è quella a proposito del precariato. In Italia, con questa parola si è tentata, almeno a livello teorico e politico, la ricomposizione di un soggetto potenzialmente rivoluzionario. Tuttavia, come hai detto tu prima, ci si scontra con un’impasse politica forte per cui spesso nella pratica si finisce col “bussare alla porta del capitalista” per chiedere un impiego, e non necessariamente a costruire alternative. Nei tuoi scritti parli di costruzione di ambiti di comunità, ma sempre in connessione con quello che Ivan Illich chiama il controllo “de las herramientas”, degli strumenti. Da qui emergono due domande. La prima, più teorica, riguarda la relazione tra l’accezione di Illich del controllo degli strumenti e quella di Marx del controllo dei mezzi di produzione. La seconda, invece, è più connessa con la questione del precariato, e s’interroga su come, e se è possibile, creare ambiti di comunità, e quindi generare controllo degli strumenti, in una situazione di crisi economica come quella odierna.
Questo è un tema che mi interessa e su cui sto lavorando molto ultimamente. Mi sono reso conto, da un paio di anni, che i marxisti non leggono Illich e gli illichiani non leggono Marx. E questa credo sia una tragedia perché non leggere Illich impedisce di capire bene Marx e viceversa. C’è una connessione profondissima tra i due e la combinazione dei due ci dà armi molto potenti per la trasformazione del presente. Per porla in termini molto concreti, nel 1971 Illich produsse un piccolo documento che fu una tesi che discuterà durante i tre anni seguenti nei suoi seminari settimanali. Questa tesi dice fondamentalmente che per ristrutturare la società bisogna pensare a tre cose: 1. al controllo sociale della proprietà dei mezzi di produzione; 2. al controllo sociale del frutto della produzione (la forma di distribuzione) 3. al tetto comune tecnologico, ovvero ai limiti che dobbiamo porre alla tecnologia per controllare il modo di produzione stesso, non solo la forma in cui è organizzata. Da dopo il 1960, aggiunge che è diventato prioritario porre l’accento sul terzo punto, ossia la limitazione della creazione tecnologica e il controllo del modo di produzione stesso; e che, tuttavia, solo le tre cose insieme possono permettere di ristrutturare la società. Qui io vedo una connessione chiara e profonda tra Marx e Illich: tutta la costruzione illichiana, tutto quello che ha fatto nei successivi cinquant’anni, fu proprio lavorare su questa dimensione del controllo dei mezzi di produzione. Ma cosa significa? Primo, che tutte le istituzioni dominanti, tutti gli strumenti dominanti, si tramuteranno in contro-produttivi, ossia produrranno il contrario di ciò che dicono di voler produrre (il trasporto rapido paralizzerà, la scuola produrrà ignoranza e disuguaglianza, il sistema di salute porterà malattie). Secondo, dice Illich, perderemo il controllo delle istituzioni. Le istituzioni si faranno sistema. Invece di essere mezzi, cose che rispondono alle mie intenzioni (se ho un martello vorrei che il martello facesse ciò che io voglio che faccia), si convertiranno, trasformandoci in schiavi dei nostri stessi mezzi. Saranno loro ad imporci la loro logica. Questa tesi di Illich è la continuazione del pensiero di Marx, la sua attualizzazione, cent’anni più tardi. Quindi, credo che bisogna riappropriarsi di questi tre aspetti, fondamentali per dar vita, oggi, a una trasformazione profonda. Tornando allo zapatismo, non è altro che questo: il controllo pieno della proprietà dei mezzi di produzione, una fantastica forma organizzata di distribuzione dei frutti dei lavori collettivi, e il controllo totale della tecnologia che si utilizza. I tre punti di Illich sono ben incarnati nel mondo zapatista.
Per quanto riguarda invece il tema del precariato. Questo termine, che va ora di moda in Europa, risponde a uno sforzo di riportare i precari, che stanno sfuggendo al modello normale, a tornare al modello abituale. Se solo si dicesse che quelli che sono diventati o che sono sempre stati precari sono altrettanto sfruttati dal capitale, e per questo rientrano nell’insieme del proletariato, allora sì che si tratterebbe di una tesi lucida. Per molto tempo si è detto invece che i precari stavano fuori dallo sfruttamento capitalista, quindi è un grande approdo dire che chi non lavora sotto diretto padrone, ma all’interno della fabbrica sociale, è sfruttato tanto quanto gli altri lavoratori. Il problema nasce quando si configura la lotta del precariato come lotta reazionaria, che vuole tornare a una stabilità passata. Io direi che, in questo momento, in Europa e nel mondo intero, ci sono lotte interessantissime a partire dai “precari”, che noi, in America Latina, chiamiamo “lavoratori marginali” o del “settore informale”, in cui rientrano anche i contadini, non solo i marginali urbani (e per noi questo è molto importante). In questo settore possiamo trovare un tesoro di forme d’organizzazione per la trasformazione della società. Io direi che qui, come in Italia, Francia o Germania, buona parte dei lavoratori che erano precari sin da prima, non solo a causa della recente crisi, coloro che non hanno mai avuto un lavoro, non sarebbero potuti sopravvivere senza organizzazione. Un lavoratore di fabbrica o un impiegato di ufficio, può vivere solo, in quanto individuo, e, di quando in quando, trovarsi con altri al pub. Al contrario, coloro che sono veramente precari, e che noi chiamiamo “informali”, non possono vivere senza un’organizzazione sociale: per la loro sopravvivenza conservano un “noi”, una struttura organizzativa. Costoro, quindi, hanno creato possibilità diverse di esistenza, oltre il capitalismo. Non è per ideologia, ma per sopravvivenza che creano qualcosa che non si risolve nei termini capitalisti. Questo si dà in Europa e in tutto il mondo: un insieme di esperienze di immaginazione sociologica e politica che ora possiamo coltivare ed espandere ad altre aree. Da queste possono imparare coloro che adesso si trovano con le porte sbarrate, come sindacati e lavoratori tradizionali. Oggi continuare a lottare nelle condizioni tradizionali della lotta sindacale non ha alcun futuro, alcuna prospettiva, né ci sono vittorie possibili. Quindi le organizzazioni sindacali, ma anche partitiche classiche, invece che riproporre questo modus operandi tradizionale, dovrebbero spostare lo sguardo verso questi precari, vedere come si organizzano. Solo così incontreranno, dentro le società avanzate, un tesoro fatto di organizzazioni differenti che possiamo chiamare ambiti di comunità.
In Italia, dagli anni Settanta, ci sono lavoratrici e lavoratori diciamo “informali” che arrivano alla decisione del rifiuto del lavoro. Rifiutano di produrre per il padrone e si organizzano altrimenti. Oggi crediamo che sia importante riprendere questa visione per immaginare e organizzare luoghi di produzione autonoma. Questa è una possibilità che qualche volta si concretizza, ma che è ancora lontana dall’essere un processo in atto. Cosa ne pensi?
Da una parte c’è il problema della legittimità, perché l’idea, presente anche in Marx, che il lavoro sia la massima espressione dell’uomo è sempre stata dominante. Una sorta di religione del lavoro. Quindi, tra etica protestante ed etica marxista, rifiutare il lavoro è ancora qualcosa che la gente non accetta. Per comprendere l’idea del rifiuto del lavoro serve forse ricordare l’etimologia della parola “trabajo” [“lavoro” in spagnolo] dal latino “tribalium”, uno strumento di tortura, e distinguere questo tipo di lavoro dall’attività creativa, quella con cui costruisco la mia vita e quella di altri, in cui la relazione collettiva è vissuta come forma di espressione creativa. Perché non si tratta di incontrare altre forme di produzione dentro i confini del sistema. Anche la parola “produzione” è associata a un modo specifico di organizzazione della società. Dobbiamo invece porci la questione di come autogestiamo creativamente la nostra stessa esistenza pensando alle sfere della vita quotidiana che vogliamo ricreare. Si tratta di pensare a come creiamo/produciamo il nostro cibo, i nostri modi di apprendere, di curare o di abitare. Non si tratta di trovare un modo alternativo di produrre, che però immediatamente associa produzione a mercato – mi organizzo per produrre così poi vendo sul mercato. E ovviamente non si tratta di una trasformazione che avviene da un giorno all’altro. Gli zapatisti stanno organizzando la loro vita e non vedono come “lavoro” l’attività di realizzazione vitale che compiono tutti i giorni. Tuttavia, fanno ancora qualcosa che potremmo chiamare produzione per il mercato. Vendono caffè, stivali, forza lavoro, e molte altre cose, perché sono in una condizione di transizione. Perché per comprare i loro computer, i camion, gli antibiotici e gli attrezzi per le loro cliniche hanno bisogno di vendere qualcosa al mercato. Per rispondere alla vostra domanda sul settore informale, io direi che è a questa forma di organizzazione che bisogna pensare. Non si tratta di capire come conquistare e gestire la fabbrica di computer o di automobili Non credo sia questa la lotta primaria. Il problema è: come genero la mia stessa vita? E va fatto partendo dalle cose che riguardano la vita quotidiana. Non si tratta di dire: “Ci organizzeremo, tra informali, per produrre un computer”, ma: “Possiamo organizzarci molto bene per mangiare con i nostri mezzi, per curare, per abitare”, per tutte queste funzioni basiche. Credo che anche i termini debbano essere ben calibrati. Buona parte della lotta che dobbiamo fare oggi è una lotta per le parole. Chissà che la crisi principale che è in corso sia anche una crisi di immaginazione di fronte alla quale possiamo rispondere con l’invenzione di nuove parole.
Qui i 150 articoli di Esteva che abbiamo pubblicato tra il 2012 e il febbraio scorso, quando Gustavo ha intrapreso il suo ultimo viaggio
“Morire è l’unica cosa del tutto prevedibile nella nostra vita. L’arte di morire è parte centrale dell’arte di vivere. È inaccettabile venire privati della capacità di morire con dignità, come si fa oggi con coloro che muoiono negli ospedali”
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