Probabilmente Erdoğan non aveva nei paraggi un balcone da cui affacciarsi (come quel tale che un giorno annunciò da Palazzo Chigi di aver abolito la povertà), ma ve lo ricordate, il 22 luglio a Istanbul, il trionfalismo dei leader e dei grandi media al momento della firma disgiunta tra Russia e Ucraina, grazie alla mediazione turca, per il via libera alle prime 25 tonnellate di grano bloccato sulle navi? “Abbiamo evitato l’incubo della fame nel mondo”, disse il sultano di Ankara. “L’accordo è un faro nel Mar Nero”, gli fece eco il segretario delle Nazioni Unite. In questo articolo, Gustavo Duch spiega come di grano su quelle navi destinate a salvare l’umanità ce ne siano davvero poco (1 nave su 14), gli altri carichi – soia, mais, girasole – probabilmente, per la maggior parte, diventeranno come al solito mangime per ingrassare il bestiame industriale dove decide il libero mercato. Nessuna di quelle navi è infatti destinata ad arrivare in Africa, dove la fame si è in effetti aggravata, perché le rotte le decide la commercializzazione e le navi – che trasportino mais, petrolio o gas liquido – seguono sempre il denaro, cioè chi paga meglio. Lo dimostra in modo eclatante anche il fatto che la nave destinata in Libano – il solo paese (tra le destinazioni annunciate) realmente colpito in modo devastante dalla crisi alimentare in questi mesi, una volta arrivata a Cipro ha invertito la rotta ed è arrivata dove qualcuno era pronto a pagare: nella Siria amica di Putin. Un dirottamento del signore russo della guerra? Macché, “dopo che le navi in uscita hanno superato le ispezioni a Istanbul, il Centro di Coordinamento Congiunto cessa di monitorarle”, dicono alle Nazioni Unite. A quel punto, “le navi autorizzate procedono quindi verso le loro destinazioni finali, qualunque esse siano”. Anche l’ambasciata ucraina a Beirut, malgrado da lì non possa non sapere che un libanese su tre sta rischiando letteralmente di morire di fame, spiega che la destinazione delle navi “non rientrava tra le loro competenze”. E da Washington fanno sapere che “per noi contano soprattutto un paio di cose: che l’Ucraina sia adeguatamente compensata per il grano. E che il cibo arrivi dove è più necessario”. Tutto chiaro, no?

Quello che recitava “Il cibo non è una merce” è stato uno dei primi slogan che, ricamato su cappellini o serigrafato su magliette e bandiere, è stato gridato a gran voce dai sostenitori de La Vía Campesina (organizzazione che rappresenta 200 milioni di contadini) in tutto il mondo. Tutta quella gente sosteneva, a ragione, che un diritto umano vitale non poteva essere lasciato nelle mani del libero mercato. Come la salute o l’educazione, il cibo dovrebbe essere garantito a scala universale, soddisfacendo naturalmente il lavoro di chi il cibo lo produce, le contadine e i contadini. Non è così, tuttavia, e in questi giorni stiamo assistendo a un altro, molto drammatico, dei tanti esempi che lo ratificano.
Come è stato ripetuto spesso, la specializzazione nella coltivazione dei cereali nelle regioni colpite dalla guerra in Ucraina è uno dei motivi (il più importante è la speculazione) dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari che sta causando una crisi molto grave. Per questo sono state seguite con tanto interesse le – dicono – complicate trattative per che il primo di agosto hanno portato a riaprire il commercio marittimo di cereali dai porti del Mar Nero. Tutti i leader politici si sono congratulati perché così si è “garantita la sicurezza alimentare”, soprattutto per le zone più colpite, come gran parte dell’Africa.

Le Nazioni Unite hanno lanciato una pagina web per conoscere i movimenti delle navi dal Mar Nero. Quello che stiamo vedendo dimostra che la protesta e l’indignazione de La Via Campesina sono sacrosante: i cereali ucraini, come ogni altra qualsiasi merce, sono attratti da una forza centripeta che li dirige verso il paesi che possono pagare meglio, dove si accumula il potere del capitale. Delle quattordici navi finora partite, nessuna ha come destinazione un paese africano. Le destinazioni sono: Turchia, Italia, Irlanda, Inghilterra, Cina e Corea del Sud. Ne è rimasta solo una diretta verso una delle aree colpite dalla crisi alimentare, il Libano, ma secondo il New York Times anch’essa è in attesa e cerca un acquirente (infatti è finita nella Siria alleata di Putin, ndt). Non compare nell’elenco, ma le informazioni contenute nel quotidiano Usa spiegano che il Programma alimentare mondiale ha effettivamente noleggiato una nave in luoghi come lo Yemen o la Somalia.
Chiama altresì l’attenzione il fatto che, delle quattordici navi in transito, solo una trasporta grano.
Nove sono invece cariche di mais, tre di girasole e una di soia. In altre parole, la forza centripeta del denaro dà priorità alla commercializzazione di prodotti che, per la maggior parte, verranno convertiti in mangime per ingrassare il bestiame industriale. In questi mesi, insomma, si è parlato tanto di grano ucraino e sicurezza alimetare ma, per il momento, per molte persone non ci sarà pane né oggi né domani.
Viene voglia di ricordare gli episodi che si ripeterono in Castiglia, nel XIX secolo, quando di fronte alla speculazione alimentare la popolazione, soprattutto le donne, come canta Guille Jové , decise che “o mangiamo tutti, o il governatore finisce nel fiume”.
Fonte: cxtx
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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