A mettere sottosopra l’economia, per immaginare ma soprattutto per sperimentare una società diversa, sono ovunque in tanti, magari poco visibili, e in molti modi diversi. Del resto mai come oggi c’è bisogno, per dirla con Latouche, di un’aufhebung (rinuncia, abolizione e superamento) non solo della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’accumulazione illimitata di capitale, ma anche dello sviluppo e dei suoi miti fondatori. Scegliere di provocare e gestire un conflitto schietto con il concetto di marketing, ci sembra una battaglia culturale che va in quella direzione.
«Smarketing» è il libro (ed. Altreconomia) con il quale Marco Geronimi Stoll non spiega come cambiare il marketing, ma come farne a meno. Un testo destinato soprattutto a chi si occupa di comunicazione in ambito sociale, culturale, nuovi stili di vita: piccole aziende agricole, cooperative, ristoratori del km0, operatori del turismo consapevole ed ecologico, artigiani, band, singoli artisti, ma anche responsabili di enti pubblici, di servizi di car e bike sharing, di biblioteche, di associazioni, di teatri, di parchi, di fiere. Di seguito, il paragrafo di Smarketing intitolato «A cosa serve questo libro». L’indice completo e altre notizie li trovate QUI.
A che cosa serve
1. Spiegare che non basta essere buoni
La mente umana segue percorsi brevi: se il tuo volantino è pasticciato, tu sei pasticcione, A = A, è l’identità della logica formale.
Chiunque di noi vada a fiere come “Fa’ la Cosa Giusta!”o “Terra Futura” incontra centinaia di realtà che producono cibi squisiti, abiti stupendi, servizi intelligenti, tutto “buono” in senso ecologico, sociale, estetico.
Spesso però la comunicazione è un disastro. Anche per questo molti faticano a quadrare i bilanci.
È inutile essere “buono” se non lo sa nessuno.
Anche se hai un budget limitato per la comunicazione, non ti aiuterà essere schivo, comunicare in modo sbrigativo o trascurare il sito.
A maggior ragione se il tuo lavoro è innovativo o atipico e il tuo potenziale cliente è propenso a fare l’equivalenza tra la qualità della tua comunicazione e la qualità del tuo prodotto o servizio.
Un conto è pensare all’effimero fasullo della pubblicità tradizionale, un altro è che, se vuoi bene al tuo lavoro, vale la pena di raccontarlo con amore, gusto e pazienza.
2. Distinguere smarketing e marketing
Comunicare non significa affatto fare marketing.
Abbiamo lasciato che diventassero sinonimi, ma è come chiamare “addestramento” la scuola di Platone (non c’è maieutica senza scambio di disponibilità, fiducia e interazione). O definire “rancio” l’invito a cena d’una persona innamorata (se lei cederà al corteggiamento davanti alle linguine ai carciofi non dipende da un calcolo delle calorie ma dal calore emotivo della relazione, che attraverso la qualità del cibo, il vino e l’atmosfera il corteggiatore cerca di simbolizzare, non di surrogare).
Definire marketing la comunicazione dei “pesci piccoli” è un equivoco. In libreria, per esempio, sullo scaffale marketing, in mezzo a tanta fuffa troverete anche testi utili e intelligenti sul marketing sostenibile o sul web marketing minimalista (w002). Usano la parola marketing anche ove vengono suggerite garbate ed efficaci tecniche comunicative, condivisibili e adatte alle formiche.
Alcune tecniche sono simili a quelle suggerite da questo libro, ma la differenza è nello scopo: il marketing vuole vendere qualsiasi cosa più è possibile, lo smarketing vuole vendere la giusta misura di prodotti e servizi che rispettano l’uomo, l’ambiente e la società.
3. Passare dal vendere “più che si può” al vendere “il giusto a lungo”
Qui non troverete trucchetti per vendere tanto. Trovate se mai i mezzi per vendere il giusto, a lungo:
• fidelizzare in modo reciproco (voi e il cliente);
• mostrare la qualità in modo trasparente (diffondendo competenza sul vostro prodotto);
• accorciare la filiera (con internet ma non solo);
• abbattere in modo drastico il numero di inserzioni e spot (cercare pochi contatti ma buoni).
Le tecniche per vendere tanto sono uguali o diverse da quelle per vendere il giusto? Dipende, per certi aspetti sono simili e per altri sono diametralmente opposte: e tutto il libro ha lo scopo di dettagliare questo “dipende”.
Il marketing pretende di essere una scienza esatta, lo smarketing è solo un processo empirico che richiede di navigare a vista, senza una mappa univoca e definitiva (dubito che tale mappa possa esistere); sono “solo” buone pratiche, ma essendo state collaudate sul campo posso garantirvi che di solito funzionano abbastanza bene se si vuol vendere a lungo il giusto; abbastanza male per chi vuole fare tanto fatturato a qualsiasi costo e in fretta.
4. Identificare gli errori principali
Pochi errori molto frequenti costano ai “pesci piccoli” un sacco di tempo, denaro, complicazioni, demotivazione e insuccessi.
Sono errori facili da riconoscere, quando li commettono gli altri.
I mille piccoli bivi della comunicazione – una parola o l’altra, quale colore, quanto ingombro, quali bottoni nella home page? – sono un labirinto. Chiunque guardi dall’alto il labirinto altrui vede facilmente dove sbaglia strada; ma quando dentro ci sei tu è tutt’altra faccenda. All’inizio imbocchi i bivi e fai le scelte senza avere cognizione di causa, affidandoti al caso o ai luoghi comuni; poi scopri che cosa avresti dovuto tenere a mente per non perderti e da quali errori avresti potuto imparare qualcosa, ma ormai sei già irrecuperabilmente smarrito. Senza filo d’Arianna, credevi di essere Teseo ma diventi il Minotauro.
I piccoli minotauri smarriti sono troppi: volantini affollati, slogan criptici, grafiche cialtrone, siti incomprensibili… Ottime persone perse nel loro labirinto, al punto di confondere la loro stessa identità. Se passiamo da un’epoca di “delega allo specialista” a un’era nuova, a bassa delega, e in cui diventiamo tutti dilettanti competenti, risolvere questa limitazione è fondamentale.
5. Aiutare la democrazia e l’economia minuta
Se impariamo a fare una comunicazione “abbastanza buona” decuplichiamo la forza dei nostri volantini, siti, comunicati. L’effetto sarebbe che nel nostro Paese le brave persone che vogliono lavorare in modo pulito, con poca fatica moltiplicherebbero il proprio budget e il tempo di lavoro. Non è politica questa?
Allo stesso tempo si potrebbe abbattere drasticamente l’impatto ambientale della comunicazione.
Inoltre una comunicazione differente aiuterebbe la gran parte delle persone a liberarsi dal “senso comune artificiale” indotto dalla televisione e dal marketing. Anche questa è sicuramente politica.
Non so se questo sia un obiettivo troppo alto per questo libro. Forse è solo fiducia nelle idee semplici e soprattutto nelle cose che persone come voi hanno da dire. Propongo di partire dalla convinzione che, finora, troppo spesso abbiamo comunicato in modo dispersivo, autoreferenziale, provinciale, senza pensare insieme e dal basso: se non lo facciamo vincono i grandi persausori e il senso comune diventa sempre più uniforme.
6. Facilitare la trasparenza come metodo
Il nostro metodo sostituisce il “persuadere” del marketing con la capacità di “far parlare di noi”.
In pochi anni lo scenario è cambiato in modo radicale. Questo dovrebbe aiutarci.
Tutti i protocolli di responsabilità sociale dicono infatti che la trasparenza è un valore. Tutte le esperienze di comunicazione sui social media dimostrano che è meglio essere sinceri. Una comunicazione è trasparente se rende conto dei risultati reali conseguiti nella direzione degli scopi dichiarati.
Eppure molte organizzazioni storiche – associazioni, sindacati, Ong e altre – sono ancora “opache”. Le loro gerarchie sono spesso impegnate in giochi di potere e di carriera, clientele, nepotismo. Per quanto nobile sia il loro passato e numerosi i loro iscritti, queste sono diventate organizzazioni “a valorialità parassitata”.
I loro valori cioè sono sfruttati per fini impropri. Spesso saranno restie a mettere on line i bilanci economici o sociali ed eviteranno di rendere conto sui social media dei propri reali risultati. Al massimo proveranno a rendersi simpatici al “bar del marketing” con una vernice green o modernista e qualche pagina patinata, ma senza comunicare in modo reciproco con i propri stakeholder (dipendenti, clienti, fornitori, indotto, abitanti del territorio…) e senza mettersi in discussione.
Morale della favola? Non fate come i loro “capi” che non vogliono neppure sentire parlare di smarketing: alzano il telefono e chiamano un’agenzia, spendendo un sacco di soldi. Ma finiscono per raccontare – e male – solo la “favola della morale”.
E in un’epoca in cui la comunicazione non è più controllabile ma digitale e liquida, le bugie hanno gambe molto più corte: è più facile reperire informazioni e prendere la parola. La vecchia nomenclatura può solo rimandare il proprio crollo: peccato che più lo si ritarda più sarà doloroso l’esito per tutta l’organizzazione. Tenetene conto.
7. Liberarsi dal belining
È il participio presente del sostantivo genovese “belin”.
Durante uno dei corsi di smarketing per la Comunità di San Benedetto al Porto mi raccontarono questo episodio. Don Andrea Gallo, dopo aver ascoltato il briefing di un marketing plan (immagino zeppo di parole come vision, goals, numbering, targetting, branding…), si alza in piedi e chiede “ma alla fine cosa resta di tutto questo belining?” Anche a noi ogni tanto scappa qualche parola in gergo markettaro: è normale, è un linguaggio tecnico come tanti altri e molte di queste parole un significato effettivo ce l’hanno; ma abbiamo deciso di adottare belining per indicare il malcostume, ancora in voga, di nascondersi dietro queste espressioni per non dire nulla ed evocare in modo fumoso la presunta superiorità del tecnico.
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