Tra i molti volti del razzismo istituzionale c’è anche quello del “volontariato obbligatorio” – un ossimoro -, tradotto in ore di lavori socialmente utili comprese nel contratto di accoglienza dei richiedenti asilo. Intanto diverse esperienze di ricerca e di azione dimostrano che gli atteggiamenti di solidarietà spontanea sono molto diffusi tra i rifugiati che oltrepassano i confini delle relazioni tra connazionali e quelli imposti da presunte identità. Anche il tempo sospeso della pandemia ha aperto spazi di reciproco riconoscimento basati sull’appartenenza alla medesima “comunità di destino” e sul bisogno di vivere in un un flusso di relazioni di cura e di prossimità
Negli ultimi anni in Italia molto si è parlato di volontariato da parte di richiedenti asilo e rifugiati. La cronaca locale ha ripetutamente enfatizzato le esperienze – ritenute virtuose – degli accolti nei centri che si sono impegnati nei lavori socialmente utili in favore delle comunità in cui si trovavano. Così, le foto di giovani ragazzi africani volenterosamente indaffarati a raccogliere rifiuti, tenere in ordine parchi e rotonde, accompagnare bambini e vecchietti hanno affollato le bacheche dei social e sono anche entrate nel novero delle “buone prassi” riportate in occasioni pubbliche, istituzionali e non. Al di là delle singole esperienze, più o meno sensate e concordate con i diretti interessati, a emergere con prepotenza è un paradigma secondo cui l’accoglienza (intesa soprattutto come costo per lo Stato italiano) non è tanto un diritto, quanto qualcosa da guadagnare attraverso un servizio da rendere alle comunità, ai cittadini autoctoni e le istituzioni.
L’ambivalenza di questo messaggio si è resa evidente nelle proposte di “volontariato obbligatorio” – un ossimoro – tradotto in ore di lavori socialmente utili comprese nel contratto di accoglienza dei richiedenti asilo, ma ancor più nell’aspettativa – per altro tradita – di veder tradotto tanto impegno in un riconoscimento della protezione: da parte di tanti richiedenti asilo, infatti, il prodigarsi in favore della comunità locale, per altro attraverso incarichi faticosi e socialmente poco riconosciuti, ha creato l’illusione che fosse un viatico per una positiva risposta della Commissione territoriale. Quello cioè che per le istituzioni era già una restituzione (“spendo per la tua accoglienza, quindi devi ricambiare in qualche modo”), per i richiedenti asilo era un investimento inserito in un’economia morale in cui diritto e merito si confondono pericolosamente.
Nel 2016 la proposta del Prefetto Mario Morcone di istituire un meccanismo premiale, in base al quale la protezione umanitaria avrebbe potuto essere concessa a chi avesse dimostrato capacità e volontà di integrarsi positivamente nel contesto sociale ha prospettato la saldatura di questa ambivalenza in un vero e proprio permesso di soggiorno. E non è probabilmente un caso che quando nel 2018 il decreto immigrazione e sicurezza è arrivato ad abrogare la stessa protezione umanitaria, a emergere dalle ceneri è stato il permesso per atti di particolare valore civile, per il quale non basta più nemmeno il volontariato, ma è necessario qualche fulgido esempio di vero eroismo per guadagnarsi un permesso.
Queste ombre non devono tuttavia indurre a pensare che richiedenti asilo e rifugiati abbiano un atteggiamento per lo più strumentale oppure che siano meri esecutori di disposizioni impartite dall’alto. Quello che diverse esperienze di ricerca e di operatività sul campo sembrano invece dimostrare è che gli atteggiamenti pro-sociali e di altruismo sono molto diffusi tra i rifugiati e oltrepassano frequentemente i confini della solidarietà intracomunitaria tra connazionali. Tuttavia, a favorire questa disposizione d’animo non sarebbero tanto i freddi “calcoli” di una restituzione materiale, fondata sulla gratitudine e la riconoscenza, quanto piuttosto il caldo flusso di relazioni di cura e di prossimità in cui ci si sente inseriti. Un giovane rifugiato camerunense accolto in una famiglia italiana a Parma, ad esempio, dice:
“Trovi gente che non sono un tuo parente, un tuo compaesano, non hanno la tua mentalità, la tua opinione, però ti vogliono bene, non ti giudicano, cercano sempre di sostenerti. È bello quello, veramente. Spero che un giorno riuscirò… la stessa cosa la trasmetto pure io, soprattutto per persone che appena arrivano hanno bisogno”.
Anche una rifugiata nigeriana accolta in un appartamento Sprar/Siproimi in un paesino della provincia fa riferimento alla sua aspirazione per il futuro:
“Ho incontrato tanta gente qui in Europa: camerunensi, gambiani, nigeriani, italiani, americani. Persone di tanti paesi diversi. Nel mio paese non era così. Se capita di vedere un bianco si dice: Guarda, un bianco! Ma non li conosciamo. Il mio sogno qui in Italia è diventare una brava persona, gentile con tutti, non solo con la mia gente, voglio avere un buon nome ovunque vado”.
Questa disposizione a prodigarsi per gli altri, riconoscendo di far parte di una medesima comunità già interculturale, si è moltiplicata durante l’emergenza sanitaria della pandemia. L’impressione condivisa di molti operatori e operatrici interpellati durante i mesi del lockdown è che i rifugiati – in particolare quando accolti in piccoli centri o appartamenti del sistema Sprar – abbiano agito con grande responsabilità, non solo rispettando i comportamenti imposti dalle autorità per ragioni di salute pubblica, ma dimostrando nella maggior parte dei casi una sincera preoccupazione e partecipazione verso la comunità di cui si sentono parte. Per altro si può ipotizzare dalle evidenze emerse dal campo che a promuovere questo spirito di com-partecipazione non sia stata – come si attendeva nel volontariato “imposto” – la percezione di uno squilibrio da appianare (ho ricevuto tanto, quindi ci si aspetta che restituisca, o ancora: mi do da fare per gli altri, così ottengo qualcosa in cambio), quanto al contrario la consapevolezza di una maggiore, anche se mai assoluta, parità di condizioni, una simmetria che deriva da una comune vulnerabilità e dalla paradossale riduzione delle distanze avvenuta durante l’isolamento.
Gli operatori ad esempio non sono più solamente persone che si incontrano in ufficio e da cui sembra dipendere l’attivazione di un tirocinio o persino il successo in Commissione, ma sono a loro volta individui a 360° con famiglie, bambini, piatti da lavare che si intravedono sullo sfondo di una videochiamata, genitori anziani malati o addirittura scomparsi a causa del Covid. Si moltiplicano così le chiamate dei rifugiati non con atteggiamento richiestivo o rivendicativo, ma volte a sincerarsi che vada tutto bene:
“Ti chiamo solo per sapere come stai, come state”.
Parallelamente, molti rifugiati si fanno avanti chiedendo di rendersi utili per la comunità nel suo complesso. In un momento in cui si impennano le disponibilità anche da parte dei cittadini italiani (solo il Centro servizi per il volontariato di Parma, ad esempio, ha intercettato più di settecento candidature per attività di volontariato), anche i rifugiati – esattamente allo stesso modo e con le stesse motivazioni – vogliono mettersi a disposizione e si prodigano in azioni di solidarietà e supporto: da quelle più classiche e materiali, persino attraverso la raccolta di donazioni economiche, a quelle con un alto contenuto emotivo e relazionale, come la preparazione e la consegna ai familiari degli effetti personali delle vittime del Covid, mostrando – a detta degli organizzatori – una sensibilità e una “familiarità al dolore” che in questo triste contesto si rivelano una preziosa risorsa.
Il tempo sospeso della pandemia ha pesato fortemente sui percorsi di inserimento sociale ed economico dei rifugiati, così come la crisi economica ha impattato e continuerà a farlo sui destini di tanti italiani ben oltre la fine dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, ha anche aperto uno spazio per un reciproco riconoscimento, basato sull’appartenenza alla medesima “comunità di destino”. Ha mostrato che la partecipazione dei rifugiati alla vita sociale e pubblica delle comunità in cui vivono non è solo possibile, ma esiste già, a condizione di lasciare lo spazio e la libertà affinché la soggettività di questi nuovi cittadini possa esprimersi a pieno. Nel riconoscimento reciproco della vulnerabilità che ci accomuna e nella consapevolezza che le relazioni ci salvano, tutti insieme: poco importa se agite a distanza o nella prossimità di un contatto ravvicinato.
Questo articolo (titolo originale completo Dal volontariato come restituzione alla partecipazione come cittadinanza. Esperienze di rifugiati durante il Covid e oltre) è apparso in Escapes – Laboratorio di studi critici sulle migrazioni forzate VI Conferenza nazionale – edizione on line da giugno 2020.
Il testo è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Italia
#escapes2020 online presentazione
#escapes2020 online programma
Chiara Marchetti, docente di Sociologia delle relazioni interculturali presso l’Università degli Studi di Milano e di Sociologia della globalizzazione presso l’Università degli Studi di Parma, lavora nell’ambito della progettazione e della ricerca sui temi dell’asilo con l’Associazione CIAC Onlus di Parma.
LEGGI ANCHE Fare comunità. La pandemia e i migranti
Lascia un commento