Viviamo un tempo di grande confusione ma segnato da diverse guerre, con armi e senza armi o, meglio, con diversi tipi di armi, tutte pericolose. La più recente è la guerra commerciale scatenata da Trump. Non dobbiamo sottovalutarla, anche perché, probabilmente, anticipa una tremenda guerra militare. Tutte le guerre perseguono la stessa cosa: annientare i nemici, si tratti di nazioni, popoli o settori sociali. Per i popoli, la difesa è molto più potente dell’offensiva, è nella difesa che un popolo assume la condizione di essere tale, quando dà forma e significato al suo essere collettivo. La cosa più difficile e importante, però, è liberarsi dell’idea di annientare a nostra volta il nemico, perché quella è la strada per interiorizzarne la logica. La razionalità della guerra va di pari passo con la proposta di occupare lo Stato e trasformarlo nel principale strumento per l’emancipazione. Poteva essere un percorso ragionevole un secolo fa, quando non c’era alcuna esperienza sulle trappole che quella strategia implicava per i movimenti antisistemici, facendoli poi diventare molto simili a ciò che combattevano. Gli strumenti che scegliamo non sono mai stati né possono essere neutrali
di Raúl Zibechi
Nella guerra la superiorità dell’armamento ha poca importanza. Molti conflitti bellici sono stati vinti dalla parte che possedeva l’armamento più povero e meno sofisticato, come avvenne nella guerra del Vietnam. Anche nelle guerre tra stati, si è spesso verificato che gli eserciti meglio armati e più addestrati venissero sconfitti, come accadde con la Germania nazista.
In questo momento, il mondo soffre diverse guerre, con armi e senza armi o, meglio, con diversi tipi di armi, ma tutte pericolose. La più recente è la guerra commerciale scatenata dal governo di Donald Trump contro la Cina, una guerra incentrata sulle tariffe commerciali che ha come obiettivo mettere in ginocchio il paese asiatico.
Tutte le guerre perseguono la stessa cosa: distruggere e annientare i nemici, che siano essi nazioni, popoli o settori sociali. Tuttavia, noi che ci organizziamo come popoli, classi o sessi, movimenti antisitemici, non possiamo né dobbiamo affrontare la guerra con la stessa logica degli stati maggiori delle forze armate. Se utilizziamo le nostre forze per annientare il nemico, ci trasformeremo in qualcosa di simile a ciò che combattiamo. È la storia dell’Unione Sovietica sotto Stalin.
Nell’attuale congiuntura, contrassegnata dalla proliferazione delle guerre, sembrano necessarie alcune considerazioni su quanto sta succedendo e sulle prospettive che si stanno aprendo davanti a noi.
La prima è che non dobbiamo sottovalutare l’attuale guerra commerciale o economica, dal momento che anticipa una guerra militare perché punta allo stesso obiettivo: mettere in ginocchio l’altro. Se osserviamo il mondo in prospettiva, possiamo affermare che siamo entrati in un periodo di distruzione di massa, capitanato dal capitale finanziario e dal suo braccio armato, il Pentagono.
Viviamo un aggravamento del clima bellico che porterà, anche se nulla è com’è ovvio inevitabile, verso un confronto armato tra potenze nucleari. Non si deve escludere, quindi, l’utilizzo di armi atomiche, con tutta la sua gravità per la vita nel pianeta.
Tuttavia, l’arma atomica non modifica la logica della guerra, come era stato anticipato qualche decennio fa da uno dei più brillanti strateghi, Mao Tse Tung, con una frase tremenda: “la bomba atomica è una tigre di carta”, che viene utilizzata per intimorire i popoli.
Le guerre le vincono i popoli che mostrano maggiore coesione (non l’unanimità) e coraggio nel difendersi, e che si sono dotati di una direzione politica che interpreta quella volontà. Il popolo sovietico sconfisse i nazisti per l’ostinata decisione di difendere la patria, così come i vietnamiti di fronte agli yankee e gli algerini ai francesi. Cuba ha superato l’aggressione e l’embargo con l’energia e la volontà del suo popolo.
Sono state le decisioni prese in basso, negli spazi della vita quotidiana, a proteggere quei popoli nel difendersi collettivamente.
La seconda questione deriva direttamente dalla precedente: il punto chiave è la difesa, che è molto più potente dell’offensiva. È nella difesa che un popolo assume la condizione di essere tale, quando dà forma e significato al suo essere collettivo. La difesa davanti agli attacchi esterni, ha la capacità di rendere coesi, mentre l’offensiva indebolisce il nemico, se siamo capaci di continuare a esistere.
Pertanto, in questi momenti la chiave è la durata, il persistere e il sostenerci, per sopravvivere come popoli. Perfino la ritirata senza combattere può aver senso se si tratta di continuare a esistere. Questo vale per i popoli e per le nazioni, le classi e i gruppi sociali. Non ha alcun senso giocarsi il futuro nell’impeto di “distruggere” chi ci attacca.
I popoli stanno optando per la difesa non violenta dei loro territori. È ciò che osserviamo tra i mapuche, i nasa-misak, gli zapatisti, gli afro e gli aymara che resistono in massa e in modo massiccio, organizzati in comunità. Non ci sono scorciatoie per evitare il dolore e la morte, però c’è la capacità di trasformarli in potenza collettiva.
La terza questione è la più complessa, perché come movimenti di emancipazione non abbiamo molta esperienza rispetto a un cammino tanto necessario quanto inedito: smontare la strategia di annientare il nemico perché quella è, in modo simultaneo, la strada per interiorizzare la logica del nemico.
La razionalità della guerra va di pari passo con la proposta di occupare lo Stato e trasformarlo nel principale strumento per l’emancipazione. Questo è stato un percorso ragionevole un secolo fa, quando non c’era alcuna esperienza sulle trappole che quella strategia implicava per i movimenti antisistemici. Come sappiamo, ha segnato il corso della loro trasformazione in movimenti conservatori e repressivi.
In questa svolta della storia non abbiamo altra alternativa che la creatività. Ripetere le strategie che ci hanno portato al fallimento è garanzia di tornare a inciampare sulle medesime pietre. In un periodo di grande confusione, dobbiamo attenerci a un’etica che ci dice che gli strumenti non sono mai stati né possono essere neutrali.
Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo De la guerra comercial a la guerra militar
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo.
serghiey dice
Apprezzo molto i vostri articoli, ma consentitemi una critica a questo, quando dite: “Pertanto, in questi momenti la chiave è la durata, il persistere e il sostenerci, per sopravvivere come popoli. Perfino la ritirata senza combattere può aver senso se si tratta di continuare a esistere.”
Stiamo vivendo il periodo in cui le risorse a disposizione cominciano il loro declino e bisogna fare sempre di piu’ con meno. Questo e’ vero anche per potenti istituzioni come le banche, figuriamoci per il popolo che dipende dallo stesso sistema che serve, per tutti i propri bisogni fondamentali. In questa fase, il resistere e’ un’implicazione dell’esistenza stessa. Non e’ una scelta politica, e’ una necessita’.
Qui non si tratta di “giocarsi il futuro nell’impeto di “distruggere” chi ci attacca”, in quanto che, distruggendo il sistema senza criterio, ci si ritrova distrutti a propria volta.
Il fatto e’ che la distruzione di questo sistema e’ l’automatica conseguenza della fine delle risorse che lo tiene in vita. Risorse che sono diventate anche umane e che – e’ sotto l’occhio di tutti – vanno spremute fino alla fine come l’ultima goccia di petrolio.
Il futuro ce lo si gioca a permettere che tale sistema resti in vita fino alla fine trascinando ulteriori estinzioni, cambiamento climatico e inquinamento, a scapito del benessere degli umani per il quale dovrebbe essere stato creato. E purtroppo a partire dagli esempi che portate, ci si puo’ immaginare che non sara’ sufficiente smettere di comprare al supermercato e prendere la bicicletta.
Qualcuno pensa davvero che gesti simili avrebbero fermato Hitler?
Siamo d’accordo nell’osservare “le trappole che quella strategia implicava per i movimenti antisistemici” che “ha segnato il corso della loro trasformazione in movimenti conservatori e repressivi.” Tuttavia l’errore di non avere una chiara visione di un futuro sostenibile viene tuttora ripetuto. Bisogna progettare una societa’ in grado di liberarsi dell’utilizzo di risorse, anche a costo di mettere in discussione le comodita’ in maniera radicale.
Il rischio e’ che se non si combatte un certo tipo di potere dell’uomo sul resto delle altre specie e sul pianeta – finche’ questo continua ad esistere – chiunque si trova ad averlo tra le mani continuera’ ad usarlo.