Sarebbe molto utile raccontare la pandemia dal punto di vista dei braccianti, dei rider e delle badanti, solo per citare alcuni pezzi di società nei quali il ruolo dei migranti è sempre più importante quanto poco visibile. Tuttavia sarebbe opportuno parlare prima di tutto di donne e di uomini, con nomi, mestieri, emozioni, personalità, esperienze. Lo ricorda Andrea Staid in un breve e intenso saggio, Dis-integrati. Migrazioni ai tempi della pandemia, che l’editore nottetempo pubblica con merito gratis on line. Mentre i media allontanano il tema delle migrazioni e il virus irride qualsiasi cultura dei muri il testo propone di approfondire alcuni temi – il viaggio, l’identità, le rotte migratorie verso l’Europa, l’accoglienza – mostrando l’importanza di un approccio post-coloniale da un punto di vista teorico ma soprattutto per avere uno sguardo diverso sul presente. Di seguito, ampi stralci del paragrafo dedicato al tema dell’accoglienza
Dal dossier Fare comunità. La pandemia e i migranti
Articoli di Andrea Staid, Annamaria Rivera, Daniele Moschetti, Roberta Ferruti, Caterina Amicucci, Chiara Marchetti, Manuela Vinay, Gianfranco Schiavone, Fulvio Vassallo, Sara Maar, Mauro Armanino, collettivo Malgré Tout
Con troppa frequenza accendendo la televisione o leggendo un quotidiano siamo inondati da parole come “invasione”, “clandestini”, “criminali” e dimentichiamo che prima di tutto i migranti sono esseri umani come noi e devono avere l’opportunità di godere dei nostri stessi diritti e doveri. Queste donne e questi uomini sono titolari di tutti i diritti umani e inoltre hanno bisogno di una speciale protezione quando si ritrovano a scappare da guerre o persecuzioni politiche. […]
Non dobbiamo mai dimenticare che l’accoglienza è un concetto molto importante per gli esseri umani: indica il luogo che offriamo all’altro. Concetti basilari come l’ospitalità, la fratellanza e l’umanità sono imprescindibili.
Gli stranieri arricchiscono i mondi in cui approdano, molte innovazioni sono nate grazie all’incontro tra culture differenti, vale a dire grazie ai migranti. Per questo non c’è motivo di aver paura dell’“altro”. Dovremmo essere grati ai migranti perché molte delle migliori cose che viviamo quotidianamente nascono proprio dall’incontro con gli altri: la musica, il teatro, la danza, le lingue, la filosofia sono frutto dell’ibridazione continua, del transito culturale.
Questa semplice idea può essere tradotta in un postulato filosofico e antropologico: senza stranieri non esiste umanità.
C’è umanità perché le persone e le idee si muovono, arrivano in altri luoghi e arricchiscono il mondo in cui si spostano. Così come non esiste mondo umano senza stranieri, tanto meno esiste un mondo umano senza ospitalità. Per questo dobbiamo imparare a essere personalmente e collettivamente ospitali. Senza ospitalità è improbabile l’apparizione di umanità e di società abitabili. È nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. L’immaginazione può consistere nel rappresentare realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri. Nel quotidiano questo significa pensarsi in congiunzione con altri soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. È in questo scenario che nascono le “comunità immaginate”, gruppi che non sono più legati a un territorio o a una nazione ma sono creazioni di culture in transito che si ibridano mediante l’incontro e lo scontro con il “diverso”.
Quindi: come possiamo pensare di nuovo le nostre società? Attraverso un progetto comunitario interculturale, o meglio transculturale, un mondo che faciliti le interazioni tra culture e dove sia possibile sorpassare il concetto di integrazione.
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[…] Integrare significa che abbiamo due corpi estranei e uno deve incasellarsi nell’altro: questo meccanismo produce tensioni e conflitti, per questo è importante cominciare a parlare di interazione e ibridazione tra culture e non di integrazione se vogliamo riuscire a costruire nuovi corpi sociali e politici realmente plurali. Gli esseri umani sono differenti tra loro, però condividono un’uguaglianza strutturale: l’umanità del singolo e di tutti. Nessuna società possiede un’unica e definitiva cultura. La pluralità e la diversità sono dati inopinabili della vita sociale e non abbiamo ragione di vederli come una minaccia. La transcultura prevede possibilità universali per tutte le culture e non pone vincoli comunitari. Non ci parla di integrazione ma, per l’appunto, di interazioni costanti, e alimenta l’incontro tra le diverse culture che popolano il mondo cominciando da una base comune. […]
Non dobbiamo mai dimenticare che l’identità delle persone è il risultato dell’articolazione e della significazione che ognuno di noi deposita nei suoi attributi e nelle sue caratteristiche. Però l’identità è anche un prodotto delle relazioni che mantengono ambiti specifici nella convivenza: questo significa che le identità sono strettamente legate alle rinegoziazioni che quotidianamente realizziamo con gli altri in momenti e luoghi che, rispetto alla nostra provenienza culturale e alla società nella quale viviamo, hanno una loro specificità. Queste rinegoziazioni condividono un elemento fondamentale: il riconoscimento che gli altri danno alla nostra identità e quello che noi diamo agli altri.
Nessuna società ha una sola e definitiva cultura, tutte le culture vivono un transito permanente. Anche se nelle società ci sono tendenze egemoniche, è certo che si creano sempre subculture e controculture. Ogni società è costituita da molteplici tradizioni e gruppi culturali. Non solo le culture non sono eterne, ma sono soggette ai grandi processi economici e culturali che le attraversano e ai cambiamenti significativi della vita quotidiana. […]
L’esperienza migratoria rende coscienti dei limiti dei propri modelli culturali e li mette a confronto con quelli estranei. In questo senso, la migrazione implica scontri e negoziazioni tra soggetti con forme di vita differenti. Per questo l’incontro prodotto dalle migrazioni può generare spazi interculturali che prospettano dialogo e comprensione, così come nuove espressioni e spazi di convivenza. Tuttavia può anche produrre intolleranza, razzismo e xenofobia, soprattutto in società tradizionaliste e oppressive dove si discrimina per sesso, età, etnia o nazionalità.
Una cultura critica e cosciente di se stessa è necessaria per evitare che il tradizionalismo legittimi pregiudizi e pratiche discriminatorie che impediscono lo sviluppo umano e personale impoverendo la vita umana. L’integrismo culturale identifica la cultura con tradizioni antiche o molto resistenti ma, come già aveva ben intuito John Stuart Mill, la longevità di un’abitudine non dimostra che questa sia corretta. Certe tradizioni oppressive non meritano di essere preservate semplicemente perché già esistenti o perché antiche: è sufficiente non convertire a priori ogni tradizione (cos’è la tradizione?) nell’ultima parola a proposito di identità e decisioni dei soggetti. Questo atteggiamento presuppone il non privarsi di principi morali e politici essenziali per una vita emancipata. Si tratta di poter scegliere per la propria vita tradizioni che non siano nocive. Questa libertà culturale implica che l’identità non è lo stesso che un’identificazione irriflessiva con la propria cultura. Per questo le verità o le credenze culturali di un gruppo o di una società non dovrebbero essere vissute come verità assolute: è, al contrario, necessario renderle riflessive, in modo che siano le culture stesse a creare le condizioni per una critica permanente, non esistendo idee di mondi futuri perfetti − mi riferisco a quelle idee “perfette” che hanno determinato gli errori del Novecento. Le migrazioni, viste sotto questa luce, possono essere un poderoso fattore di cambiamento e di riflessione in merito alle identità personali e collettive, quelle degli altri e le nostre. […]
Noi animali umani comunichiamo mediante linguaggi che ci permettono di comprendere e manipolare il mondo. In generale, lottiamo per sopravvivere e questo presuppone la ricerca di cibo, sicurezza, vestiti e rifugio. Condividiamo la condizione comune di essere animali umani.
Siamo un’umanità e abitiamo sotto lo stesso cielo: già Kant poneva la questione del diritto cosmopolita, il diritto a essere capaci di attraversare frontiere di stati e nazioni, e illustrava il diritto universale all’ospitalità, un diritto di accesso senza condizioni e allo stesso tempo una legge di accoglienza per accettare lo straniero come coabitante. Ognuno di noi è un migrante nel suo proprio microcosmo di relazioni, accolto e invitato ad accogliere l’altro in nome della coabitazione che nel nostro mondo contemporaneo si fa sempre più imprescindibile. […] Il futuro sarà inevitabilmente sempre più meticcio, inutile avere paura di questa evoluzione. Se proprio deve esserci uno straniero, questo deve essere la concezione stessa del razzismo e dell’esclusione.
Andrea Staid è docente di antropologia culturale presso la Naba (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano. Tra i suoi libri: Le nostre braccia. Meticciato e antropologia della nuova schiavitù (Agenzia X) e I dannati della metropoli. Etnografia dei migranti ai confini della legalità (Milieu Edizioni).
Luciano dice
Se non vogliamo che tutto ciò che è scritto rientri nella retorica ‘accademica’, agiamo perchè le persone abbiano condizioni di vita normali appena giungono in Italia. Diversamente, si diventa complici dello sfruttamento.