La nuova legge contro il caporalato nasce dal basso ed è un risultato importante. Tuttavia chi conosce sul serio il fenomeno non si fa illusioni: non basta quell’intervento normativo, non privo di limiti, il problema riguarda le logiche dell’intera filiera agroalimentare e i diritti dei migranti. In Italia sono almeno ottanta i luoghi nei quali sono stati riscontrati fenomeni di grave sfruttamento in agricoltura. Il caporalato coinvolge quasi mezzo milione di persone. Dovremmo tutti pensarci più spesso quando ci sediamo a tavola: la lotta contro il caporalato si fa tutti i giorni
di Ilaria De Bonis
È un passo in avanti rispetto alla precedente versione del 2011 (che introduceva il reato penale di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) e contiene novità per nulla scontate. Eppure la nuova legge contro il caporalato, varata dalla Camera il 18 ottobre, «non è sufficiente di per sé ad estirpare un fenomeno così complesso».
Lo dicono diversi interlocutori impegnati da anni sul versante dei diritti dei braccianti e lotta alle agro-mafie. Tra questi Fabio Ciconte, direttore della onlus ambientalista Terra!, Mimmo Perrotta, tra i fondatori di Fuori dal ghetto di Venosa e Marco Omizzolo, attivista, giornalista e sociologo. Il caporale (fuori legge e amorale) è solo la punta dell’iceberg di un sistema nascosto, sottile e perverso.
«Questa legge andrebbe completata, integrata, accompagnata da misure più vaste e globali», spiegano. Perché lo sfruttamento del lavoro nelle campagne riguarda l’intera filiera agroalimentare. «I ghetti abitativi sono solo la spia di un sistema malato – spiega Ciconte – Repressione e prevenzione devono andare di pari passo. In termini esclusivamente repressivi questa legge va anche bene».
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È uno strumento penale severo, «ma si sofferma sul sintomo anziché sulla causa della malattia – spiega – Le ragioni dello sfruttamento e dell’ingiustizia si annidano dentro le maglie della filiera della produzione». Tra la grande distribuzione, l’agricoltore e il cittadino consumatore finale ci sono decine di passaggi intermedi che non vengono neanche nominati nel testo. «Fino a quando le telecamere non mostreranno dove vanno a finire i prodotti raccolti – si legge nel dossier Filiera Sporca – fino a quando cioè non creeremo una connessione netta tra il campo e la tavola, sarà difficile trovare la soluzione a un problema come questo».
Siamo proprio certi che colpire l’ultimo anello della catena basti a smontarla?
«Un ruolo fondamentale, a monte dello sfruttamento lo gioca la grande distribuzione – spiega Ciconte – che determina un prezzo al ribasso: arance o pomodori, ad esempio, vengono pagati davvero troppo poco all’agricoltore».
Questo prezzo miserrimo mette alle strette un datore di lavoro (disonesto) che spreme il bracciante già vulnerabile fino all’inverosimile, privandolo di qualsiasi tutela. Sono i più fragili: migranti, “clandestini”, persone in attesa di permesso di soggiorno, vessati da caporali e intermediari senza scrupoli. Loro, pur conoscendo spesso i propri diritti e battendosi, hanno paura ad organizzarsi in modo strutturato.
La nuova legge in realtà è un passo nella direzione giusta: punisce non solo il caporale ma anche il datore di lavoro disonesto.
«Prima del 2011 l’intermediazione tra bracciante e proprietario agricolo era punita solo con la multa – spiega Perrotta – Poi si è arrivati al carcere, ma il meccanismo di individuazione delle responsabilità era piuttosto complicato. Oggi, con questa legge, abbiamo due responsabili: caporale e datore di lavoro». Che spesso e volentieri approfittano delle falle create dal sistema dell’immigrazione.
«La cosa davvero importante da fare, sarebbe migliorare la legge sull’immigrazione», suggerisce Perrotta. In modo che i richiedenti asilo, i migranti e i rifugiati possano godere delle tutele che gli spettano. «Per migliorare la vita di molti braccianti migranti basterebbe piuttosto modificare le normative sull’immigrazione, rendendo più libera la mobilità, più semplice ottenere una residenza, un domicilio, un permesso di soggiorno», dice.
«In secondo luogo, né il testo della legge né il protocollo – spiega Perrotta – prevedono il coinvolgimento e la consultazione dei lavoratori interessati da queste politiche. È il cuore del problema: ministri e presidenti di regione pretendono di combattere gli sfruttatori senza gli sfruttati».
Si continua a trattare i braccianti come vittime, non come lavoratori con dei diritti e con i quali discutere alla pari del miglioramento delle condizioni di vita.
Fabio Ciconte ci parla di un’altra proposta: quella messa a punto da varie onlus tra cui Amnesty, Terra!, Medici senza frontiere e Medu, che punterebbe a creare «una etichetta narrante sui prodotti, che racconti la vita del prodotto. A quel punto non potremmo più far finta che il fenomeno non riguardi tutti: dal consumatore al distributore, al coltivatore».
Infine, una questione non meno urgente che va oltre il sistema locale: combattere la tratta internazionale e la riduzione in schiavitù. «Contrastare lo sfruttamento a monte», come suggerisce Marco Omizzolo. Ossia, allargare ancora di più la visuale e il contesto: colpire la rete di sfruttamento e violenza che coinvolge i connazionali dei braccianti, come avviene con i lavoratori del Punjab fatti arrivare in Italia. «A noi, che combattiamo affianco ai lavoratori sikh della Pontina, questa nuova legge può esser d’aiuto se la magistratura funziona – spiega Omizzolo – Nelle campagne del Lazio di fatto siamo lasciati soli: mancano le istituzioni. Continuiamo a raccogliere storie, a fare denunce, ad organizzare presidi e scioperi, ma siamo soli. La politica, le istituzioni, le amministrazioni locali non stanno accanto a noi e ai braccianti».
Tanto per quantificare: i numeri parlano di ottanta epicentri in Italia nei quali sono stati riscontrati fenomeni di grave sfruttamento in agricoltura e caporalato. La Cgil stima tra 400mila e 430mila i lavoratori irregolari in agricoltura, potenziali vittime di caporalato. Sono invece 100mila i lavoratori in Italia che vivono situazioni di sfruttamento e grave vulnerabilità.
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* Ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme
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