di Fabrizio Marcucci*
Un caffè è un sacco di cose. Ti ci svegli la mattina, ci ragioni intorno durante una riunione di lavoro; lo usi per una pausa dal lavoro o per invitare una persona a berlo insieme e farci una chiacchierata sopra. Un caffè è tante cose. È chi lo beve. Ed è anche chi lo produce. In questo senso un caffè è un viaggio che ti porta in Africa o in America del Sud ogni volta che lo bevi, anche se non lo sai. Perché è da lì che arrivano i chicchi. Ed è da lì che inizia una storia di sfruttamento o di emancipazione. Dipende da chi pagherà per importare quel caffè. Dipende da quanto pagherà. Dipende da come sono organizzati i lavoratori che raccolgono il caffè.
Il caffè, tra le tante cose che è, è pure la bevanda di riconoscimento del commercio equo e solidale. Quel movimento che punta a utilizzare l’acquisto e la vendita di merci per l’innalzamento della qualità della vita dei produttori, piuttosto che a sfruttarli per avere le mercanzie al prezzo più basso. Una sovversione di alcune presunte leggi naturali – quella della massimizzazione del profitto a tutti i costi, ad esempio – che è anche testimonianza viva e vegeta di un altro mondo possibile, come si diceva qualche anno fa: dentro al commercio equo lavorano quasi mille persone in Italia; il valore delle merci importate è stato di 12 milioni di euro nel 2014, secondo i dati dell’ultimo rapporto presentato nel maggio di quest’anno. E ci sono 200 organizzazioni di produttori sparse per il mondo che hanno l’Italia come sbocco per le loro merci. Cioè duecento realtà produttive, cooperative in grande maggioranza, che non sfruttano il lavoro minorile, corrispondono un salario equo ai lavoratori, coltivano e producono secondo criteri di rispetto ambientale; duecento aziende insomma, che servono all’innalzamento di chi lavora, non ad ingrassare chi le gestisce sfruttando il lavoro altrui.
È proprio dalla bevanda di riconoscimento del loro movimento che sono partiti quelli di Ponte solidale per la festa di inaugurazione del loro nuovo punto vendita a Ponte San Giovanni, quartierone alle porte di Perugia: una bottega del mondo – si chiamano così i negozi del commercio equo e solidale, sono 246 in Italia e contano oltre 30mila soci – che ha visto più che raddoppiare lo spazio espositivo rispetto a prima. Cosa che in tempi di crisi non è da poco, considerando anche che il trasloco è stato accompagnato e sostenuto da una crescita del fatturato e dal calore dei soci e dei simpatizzanti. Quando ci entro Fabrizio, uno dei volontari, si tira su dal mucchio di scatoloni che sta aprendo e mi viene incontro con occhi raggianti. “È arrivata la fornitura di Tatawelo”, mi dice, indicando i cartoni pieni di confezioni di caffè, e comincia a spiegare. Tatawelo è un’associazione che lavora con le comunità indigene zapatiste del Chiapas, quelle insorte più di vent’anni fa per rivendicare pari dignità per i nativi sottoposti alla violenza del governo centrale. “Abbiamo raccolto e inviato i soldi a marzo – mi spiega Fabrizio – e oggi è arrivata la merce”. Le cose sono andate così: Tatawelo ha chiesto alle botteghe d’Italia un prefinanziamento e una prenotazione delle quantità di caffè, poi ha fornito i soldi alle comunità zapatiste che a quel punto, sapendo che il loro lavoro aveva già trovato uno sbocco, hanno potuto iniziare a coltivare e raccogliere con la sicurezza di un guadagno. Ed eccolo qui, Fabrizio, nel bel mezzo della nuova bottega, ad aprire queste decine di scatoloni che contengono 260 chili di caffè che sono costati a chi ha prefinanziato il progetto poco più di 3mila euro complessivamente e che di qui a breve verranno distribuiti. “Hanno partecipato tre gruppi di acquisto solidale e oltre venti famiglie dei nostri soci – dice Fabrizio – in questo modo hanno ottenuto il caffè con il 25 per cento di sconto; noi abbiamo rinunciato al nostro margine di guadagno, ma che importa?, abbiamo attivato una rete, abbiamo fatto partecipare i nostri soci a un progetto di emancipazione”.
Funziona così il commercio equo e solidale. Funziona mettendo l’economia al servizio delle persone, non viceversa. Sovvertendo. Giocando la carta della fiducia che mette fuori gioco la competizione al ribasso (“chi ha pagato la sua quota a marzo, sapeva che oggi, a distanza di mesi, avrebbe avuto il caffè – dice Fabrizio – e l’ha avuto”). Ed è una sovversione che paga. In termini economici, come si vede dai numeri. Ma anche in termini di crescita vera delle comunità di produttori e di consapevolezza da parte di chi acquista da quest’altra parte del mondo. Con i proventi del loro lavoro, le comunità che producono finanziano scuole per i loro bambini, progetti sanitari, liberano le donne dalla schiavitù della mancanza di reddito e della dipendenza dagli uomini. E qui in Italia, chi importa e vende, prova a crescere, nonostante la crisi. Come sta succedendo a Ponte solidale, che ha inaugurato la nuova bottega con una festa durata un giorno intero e imperniata, guarda un po’, sul caffè. “Abbiamo ospitato un laboratorio di Shadhilly, una cooperativa marchigiana impegnata in progetti con realtà del Guatemala e dell’Uganda: loro hanno spiegato ai nostri soci la provenienza e la lavorazione del caffè, poi hanno offerto una degustazione”, mi spiega Stefania, socia lavoratrice di Ponte solidale. Poi la giornata è andata avanti con laboratori per i piccoli e chiacchiere e assaggi vari, perché il commercio equo non è solo caffè, ma un sacco di altre cose. E in ogni bottega delle centinaia sparse in tutta Italia trovi un pezzo del mondo come dovrebbe essere: vestiti prodotti senza sfruttare minori, cioccolato dignitoso per chi lo produce e tanto altro ancora. E adesso, a festa finita, eccoli qui Fabrizio, Stefania e gli altri attivisti di Ponte solidale. Con questa bottega nuova e ampia. Con un grande spazio al centro. “Perché – mi spiegano – l’ampliamento non l’abbiamo voluto per riempire il negozio di merci, ma per riempirlo di persone con le quali incontrarsi e far crescere il movimento”. Già, perché il commercio equo e solidale non è solo vendere e fare profitto. È voglia di cambiare il mondo. In meglio. Magari a partire da un caffè. Intorno al quale parlare. E dirsi come possono cambiare le vite delle persone se si scalzano profitto e competizione e si rimette la dignità al centro.
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