L’immenso fiume di persone che ha risvegliato il Brasile dai sogni di grande e stabile potenza del Sudamerica sembra rifluito. È il solito fuoco di paglia delle grandi fiammate di protesta senza un progetto? Oppure la ribellione, meno visibile, corre da un territorio all’altro, dal centro delle metropoli alle periferie urbane, per riuscire a cambiare la società nelle sue radici più profonde, quelle della vita di ogni giorno? Potremo valutare il Junho do Brasil solo alla luce dei suoi risultati più “politici”, quelli delle elezioni del 2014, l’anno del Mundial? E se poi accadesse come per gli indignados spagnoli, comparsi sulla scena poco prima della riconquista del governo da parte del Partido Popular? A distanza di due anni dal 15 maggio madrileno, possiamo considerare più rilevante l’ipotetico contributo all’esito elettorale favorevole alla destra di Mariano Rajoi o l’influenza planetaria di un movimento che ancora produce risonanze ovunque?
di Marco Calabria
Un risveglio improvviso quanto imprevisto, tumultuoso, disordinato, entusiasmante. Fiumi di persone che dilagano in cento città dell’immenso Brasile. Quelle del giugno 2013 sono state le più grandi manifestazioni della storia contemporanea di un paese più esteso degli Stati uniti. Fino ad ora. Nessuno le aveva previste. Nessuno avrebbe potuto farlo, sebbene, come accade sempre, abbiano profonde radici e cause niente affatto oscure. Una parte della popolazione del gigante del Sudamerica, quasi 200 milioni di abitanti, era molto esasperata. Una parte molto più grande di quanto il partito di Lula e Dilma Rousseff avesse potuto immaginare non ne poteva più degli inni alla patria e all’ordine dello sviluppo.
Quelle che gli analisti si sono affrettati a definire «classe media», una categoria sociologica assai inadeguata a spiegare la rivolta dei venti centavos (si è accesa con l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico), sono soprattutto persone giovani, molto giovani. Ragazzi e ragazze che continuano a sognare un Brasile campione nel mundial casalingo del prossimo anno ma sono indignati per il costo degli impianti faraonici, recinti di lusso in cui non potranno mai entrare a gioire di un tunnel di Neymar.
Sono ragazzi di un paese meticcio. Brasiliani, certo, ma non abbastanza nazionalisti da dimenticare che la potenza egemonica nel Sudamerica – una potenza economica e militare che miete successi e ha immesso nel mercato del consumo, strappandole alla povertà, trenta milioni di persone – resta il campione indiscusso di colossali e scandalose disuguaglianze. Se ne ricordano, quei ragazzi, quando qualcuno racconta le cifre inaudite del business dei megaimpianti e delle grandi opere. Oppure quando vengono a sapere che São Paulo ha 272 eliporti e 650 elicotteri privati che fanno quasi 400 voli al giorno. Loro, quei ragazzi, per andare al lavoro, se un lavoro ce l’hanno, trascorrono tre ore nel traffico congestionato, sempre che abbiano i soldi per pagare il biglietto esoso di un servizio scadente.
E adesso, adesso che l’impeto dell’incredibile Junho do Brasil s’è affievolito? Adesso che ripetere ogni tre giorni una manifestazione oceanica si rivela estenuante quanto impossibile? La protesta si è mossa da un territorio all’altro, dal centro delle metropoli alle periferie urbane, rendendosi meno visibile, per disperdersi e forse in seguito ri-coagularsi. Per immergersi nella vita quotidiana e, magari, trasformarla (la sola mission per cui oggi valga la pena di scomodare il concetto di rivoluzione), e per diventare, infine, chissà cosa. Adesso che tutti hanno visto nelle strade anche sgradevoli gruppi di destra, una presenza inevitabile, forse perfino un indicatore di salute in una composizione della protesta tanto eterogenea, viva, debordante. Adesso cosa?
Adesso è il momento delle ingegnose letture analitiche: hai visto? Un fuoco di paglia, il solito andamento carsico dei movimenti senza progetto. La necessità dello sguardo di prospettiva è al solito implacabile. Nel 2014, l’anno del mundial e delle elezioni politiche brasiliane, cosa potrà mai diventare tutto questo? Dilma resiste ma la protesta l’ha indebolita pesantemente. Eccoli lì, puntuali, i sondaggi. Difficile liberarsi dell’infida locuzione: cui prodest? Difficile resistere alla tentazione demoniaca di leggere una grande rivolta soprattutto, se non solo, in funzione del suo poco più che immediato risultato in «politica». Difficile ma non impossibile. Si potrebbe, ad esempio, cominciare con qualche domanda facile facile: la acampada madrilena di Puerta del Sol, spuntata quasi dal nulla in piena campagna elettorale, è stata determinante nella riconquista del governo da parte della destra iberica, del Partido popular? E se sì, oggi è più importante il governo esangue e patibolare di Mariano Rajoi o un movimento, quello degli indignados, che tuttora produce risonanze da Salvador de Bahia fino a Occupy Anchorage, in Alaska?
Altrettanto importante, ma forse perfino più difficile, sarebbe liberarsi dalla necessità di giudicare un grande movimento, o una sollevazione popolare come quella del giugno brasiliano, in base ai suoi risultati, agli esiti visibili nel breve periodo sulla scacchiera geopolitica. Un tempestivo esercizio, ancora una volta analitico, che attrae come le api il miele modesti reporter dei telegiornali e insospettabili e raffinati intellettuali. A noi pare che quel che è accaduto sia già molto più importante di quel che potrebbe accadere: «Óooo, o povo acordou» (Óooo, il popolo s’è svegliato), si cantava nelle strade di São Paulo. Come se avessero dormito per anni, ha scritto Raúl Zibechi. Milioni di persone comuni hanno deciso di ribellarsi e ricominciato a camminare. Verso dove, si vedrà.
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