L’anno che abbiamo alle spalle è stato intenso e difficile per il mondo dell’immigrazione. Un anno che ha registrato un salto di qualità degli attacchi non solo al sistema di accoglienza dei rifugiati ma all’idea stessa di accoglienza
Questo articolo fa parte del terzo quaderno Benvenuti
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Il 2023 è stato un anno intenso e difficile per quel che riguarda il mondo dell’immigrazione. In Italia è cominciato in maniera dirompente il 2 gennaio con il decreto legge “Piantedosi” contro le Ong che ha stravolto completamente l’applicazione del quadro giuridico marittimo e internazionale in materia di ricerca e soccorso in mare. Con questo decreto le navi di soccorso civile vengono regolarmente trattenute e multate dopo aver salvato vite nel Mediterraneo centrale, le autorità italiane sistematicamente assegnano loro porti sicuri lontani, costringendo le persone a bordo a ulteriori ed estenuanti ore di navigazione e impedendo in questo modo alle navi di riprendere il pattugliamento e il salvataggio di altre imbarcazioni. Tutto questo avviene mentre nel Mediterraneo centrale – considerata la rotta verso l’Europa più pericolosa – si continua a morire e già nel primo trimestre gennaio-marzo 2023 è stato raggiunto il record del più letale dal 2017 con 441 vite perse e disperse (dati Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni unite).
Successivamente, il 26 febbraio, l’Italia balza all’attenzione globale per il terribile “naufragio” di Cutro. Una strage annunciata dai radar di Frontex che poteva essere evitata e su cui la Procura di Crotone mentre scriviamo sta ancora indagando. Alla rabbia e al dolore di quanto accaduto, 94 vittime di cui 35 minori, si somma l’orrore per il comportamento del governo italiano i cui membri, riuniti in consiglio di ministri straordinario a Cutro, hanno evitato accuratamente di far visita ai superstiti e ai familiari delle vittime. In quel consiglio dei ministri viene partorito in tutta fretta un decreto legge brutale, il dl 20/2023 noto decreto “Cutro”, convertito in legge il 5 maggio 2023. Molti gli ambiti toccati dal decreto: all’articolo 7 si abroga il terzo e quarto periodo del Testo unico sull’immigrazione che consentiva il riconoscimento della protezione speciale alle persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare e non potrà essere convertito per motivi di lavoro, gettando di fatto dall’oggi al domani centinaia di famiglie e persone nella clandestinità e nell’incapacità di condurre una vita normale, avere un lavoro, assistenza sanitaria e un alloggio. Il decreto, inoltre, crea un nuovo reato per «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con pene dai venti ai trent’anni di carcere. Si introducono misure anche sulla programmazione dei flussi di ingresso legale dei migranti, procedure di frontiera e trattenimento nei CPR – centri per il rimpatrio – che attraverso questa normativa, avrebbero dovuto disincentivare gli arrivi di migranti non regolari attraverso le rotte degli scafisti, condannando invece milioni di soggetti alla reclusione legittima senza aver commesso alcun reato. In particolare, l’articolo 10 del dibattuto “Decreto Cutro” stabilisce il potenziamento dei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) e i tempi massimi di detenzione vengono aumentati da 90 giorni a 180 giorni. E ancora: il decreto prevede disposizioni per la permanenza dei lavoratori stranieri, e, come vedremo più avanti, importanti modifiche alle norme sui centri di accoglienza che reintroducono molti degli elementi che già si trovavano nel “decreto sicurezza” del 2018 (almeno in parte superati con le modifiche apportate da Luciana Lamorgese nel 2020).
Contrariamente a quanto annunciato, questi provvedimenti restrittivi e coercitivi non producono però l’effetto desiderato e l’afflusso verso l’Europa attraverso le coste italiane non sembra placarsi. La guerra ai “trafficanti di clandestini” su tutto il globo terracqueo si rivela un flop e allora si cercano nuove strade per contrastare quella che ormai tutti i media accettano come una vera invasione. I dati ufficiali e le varie indagini di settore smentiscono però questa visione e nonostante gli sbarchi continuino ad aumentare, la presenza straniera sul territorio italiano si mantiene costante da oltre cinque anni: circa 5 milioni di presenze pari all’8,4% della popolazione nazionale (dati Istat). Il 16 luglio a Tunisi viene perciò siglato un Memorandum di intesa tra Unione Europea e governo di Tunisi che prevede finanziamenti pari a 150 milioni di euro di sostegno al bilancio più 105 milioni per la gestione delle frontiere. Artefici di questo accordo, Giorgia Meloni e la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen. Analogamente a vergognosi accordi precedenti – come quello del 2016 con la Turchia o il memorandum d’intesa tra Italia e Libia – quest’ultimo si inserisce in una strategia vincolante degli aiuti economici e di esternalizzazione delle frontiere europee.
Il 21 settembre come emanazione del Decreto Cutro è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un decreto del ministero dell’Interno – firmato insieme al ministero della Giustizia e a quello dell’Economia e delle Finanze – intitolato “Indicazione dell’importo e delle modalità di prestazione della garanzia finanziaria a carico dello straniero durante lo svolgimento della procedura per l’accertamento del diritto di accedere al territorio dello Stato”. Il decreto fissa (art. 2) a 4.938 euro il valore della «garanzia finanziaria» come alternativa al trattenimento in un Cpr – Centro di permanenza per il rimpatrio – durante lo svolgimento della procedura per il riconoscimento del diritto di accedere al territorio italiano. In base al decreto, quella cifra è considerata idonea, tra le altre cose, per garantire al migrante la disponibilità di «un alloggio adeguato sul territorio nazionale», dimostrando e dichiarando implicitamente che i Cpr su cui da anni si raccontano gli orrori sono di fatto luoghi inidonei a un Paese civile.
Intanto durante il periodo estivo si è notato un incremento di arrivi di “Minori stranieri non accompagnati” (MSNA) che ancora godevano, nonostante tutto, di una maggior protezione essendo considerati “vulnerabili”. Il 6 ottobre entra però in vigore un nuovo decreto in materia di immigrazione (dl 5 ottobre 2023, n. 133) rivolto ai Msna: un altro provvedimento adottato con urgenza che con gli art. 5 e 6 mira a ridurre drasticamente i diritti – finora tutelati grazie alla legge 47 del 2017, cosiddetta legge Zampa – dei minori con più di 16 anni che da questo momento possono essere trattenuti nei centri di accoglienza per adulti e dispone inoltre procedure sommarie e invasive per l’accertamento dell’età.
Il 21 ottobre il governo italiano ha anche notificato il ripristino, in via temporanea, dei controlli alla frontiera italo-slovena: tutti i varchi resteranno aperti e saranno istituiti presidi ai valichi, da parte delle Forze dell’Ordine italiane, che controlleranno i flussi in entrata in Italia. Altri 9 paesi europei hanno ripristinato i controlli alle frontiere interne giustificando, con pochi distinguo, tale misura in ragione della grave crisi internazionale e dei connessi rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Scrive Gianfranco Schiavone: ”La gestione di un fenomeno generale come la gestione delle migrazioni, e a maggior ragione, dell’arrivo dei rifugiati, non può assolutamente rappresentare una motivazione per un continuo ricorso alla misura estrema del ripristino dei controlli alle frontiere interne. Questo orientamento, sempre più diffuso tra gli Stati UE può portare a una costante elusione delle normative internazionali ed europee sul diritto d’asilo e sul rispetto dei diritti fondamentali, tra cui il divieto di respingimento, e può condurre alla demolizione pezzo per pezzo del principio della libera circolazione nell’area Schengen la cui importanza è così cruciale per la vita stessa dell’Europa, ovvero per la vita di tutti noi”.
Sempre nel mese di ottobre dobbiamo segnalare la decisione della giudice del tribunale di Catania Iolanda Apostolico di non convalidare i trattenimenti nel Cpr di Pozzallo disposti dal questore di Ragusa nei confronti di sei migranti tunisini. Una decisione che sconfessa la legittimità del Decreto Cutro perché “il richiedente – scrive Apostolico – non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda e il trattenimento di un richiedente protezione internazionale, per le direttive europee, costituendo una misura di privazione della libertà personale, è legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge”. La giudice rileva poi che la norma del cosiddetto Decreto Cutro che prevede il pagamento di una somma a garanzia come mezzo per evitare il trattenimento è «incompatibile con la direttiva Ue del 2013». Altri giudici in tutta Italia seguiranno l’esempio di Apostolico disapplicando il decreto Cutro.
Quando si pensava di aver visto e sentito davvero l’inimmaginabile arriva la notizia dell’accordo tra Italia e Albania siglato il 6 novembre a Roma. Un accordo che, come gli altri elencati, ha suscitato critiche non solo dalla politica italiana ma anche in Europa. L’intesa prevede il trasferimento di migranti salvati nel Mediterraneo verso l’Albania, in pratica una nuova frontiera dell’esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, attraverso la costruzione di due centri operativi dalla primavera 2024 con una capienza massima di 3mila persone alla volta, che possano contenere un flusso annuale complessivo di 36 mila persone. La procedura si applicherà ai migranti soccorsi in mare dalle autorità italiane e poi sbarcati nella città costiera albanese di Shëngjin, dove saranno costruiti i due centri a spese del governo italiano e sottoposti esclusivamente alla giurisdizione italiana. I migranti ospitati negli hub non potranno lasciare i locali in attesa dell’esame delle loro richieste, che non dovrebbe durare più di 28 giorni. Questo accordo sembra nascere sulla scia del progetto del Regno Unito di creare degli hotspot per l’analisi delle domande di asilo in Ruanda, successivamente bloccato dalla Corte di appello britannica a causa dei numerosi ricorsi da parte di individui e organizzazioni di tutela dei diritti umani.
Abbiamo provato a riassumere gli eventi significativi che hanno caratterizzato l’attività del governo Meloni in merito alle migrazioni durante il 2023. Risulta evidente che l’equazione migranti–invasione sia ormai data per acquisita e che questo sia un fenomeno da contrastare a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Fiumi di denaro investiti per foraggiare improbabili alleati per esternalizzare le frontiere, nuovi Cpr (uno per ogni regione), propaganda martellante sulla sicurezza e sul “prima gli italiani”. Intanto, al 24 settembre 2023, gli arrivi sono risultati oltre 132.100, tra cui più di 21.400 minori, inclusi 11.600 non accompagnati. Agli arrivi via mare, si aggiungono quelli di 173.900 rifugiati ucraini fuggiti dalla guerra, di cui più di 49.400 sotto i 18 anni (dati Unicef). Numeri decisamente irrisori se si confrontano con gli 8 milioni di profughi ucraini che improvvisamente, nell’arco di pochi giorni, hanno raggiunto altri paesi dell’Europa all’”inizio” della guerra. A proposito di dati: c’+è anche ci ricorda come nel 2021 il saldo tra spese (28,2 miliardi di euro) e introiti (34,7 miliardi di euro) dello Stato imputabili all’immigrazione ha segnato un guadagno per l’erario pubblico di 6,5 miliardi di euro, fortemente cresciuto rispetto al 2020 (circa un miliardo in più) grazie alla ripresa post-pandemica dei settori in cui gli stranieri sono maggiormente impiegati (dati Dossier statistico sull’Immigrazione 2023).
Alla fine di questa analisi e di un anno carico di decreti e iniziative in urgenza, andiamo a vedere cosa è rimasto dell’accoglienza. Con il Decreto Cutro la prima accoglienza viene gestita con l’istituzione di nuovi centri dove le Prefetture collocano i richiedenti asilo in strutture ex art. 9 – Centri di Prima Accoglienza (CPA) – e art. 11 – Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) – del D.lgs 142/2015 e che garantiscono solo l’accoglienza materiale, è stata infatti abolita sia l’assistenza psicologica e che quella legale. Si prevede la costruzione di CPR – centri per il rimpatrio – in ogni regione. Per la seconda accoglienza, il SAI -Sistema di Accoglienza e Integrazione – viene limitato ai soli cittadini afghani e altri richiedenti protezione internazionale arrivati in Italia con operazioni di evacuazione umanitaria o reinsediamento, ai cittadini ucraini e ai richiedenti vulnerabili. Resta un profondo mistero la distinzione tra richiedenti asilo meritevoli e quelli non meritevoli e soprattutto come si possano individuare soggetti vulnerabili meno evidenti se nei centri di prima accoglienza, luoghi di fatto di smistamento e individuazione, viene garantita solo la mera sussistenza e non più la presenza di figure professionali qualificate. La rete SAI (ex SPRAR) è stata istituita nel 2002 dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale ed è gestita dall’Anci (l’associazione dei Comuni italiani), considerata a livello internazionale, almeno nella sua conformazione iniziale, un modello virtuoso e d’avanguardia, perché coniugava un’alta qualità dell’accoglienza con costi e impatto contenuti, oggi con il decreto Cutro è di fatto demolita. In particolare l’accoglienza diffusa, organizzata in appartamenti di comuni che ne fanno richiesta, è stata per vent’anni un’esperienza di inclusione e riscatto sociale importante, ha ripopolato paesi semi abbandonati, rivitalizzato comunità a rischio di estinzione e permesso a molti migranti di vivere nelle comunità ospitanti come liberi cittadini, avendo un proprio alloggio, corsi di formazione e di lingua, sostegno psicologico e legale. Innumerevoli professionalità si sono formate sull’accoglienza dei migranti e hanno contribuito al progetto inclusivo del sistema Sprar che successivamente, dopo ripetuti rimaneggiamenti è diventato SAI. Al 31 ottobre 2023 sono 919 i progetti della Rete SAI (669 ordinari, 209 per minori non accompagnati, 41 per persone con disagio mentale o disabilità) affidati a 780 enti locali titolari di progetto (687 comuni, 16 Province, 29 Unioni di Comuni, comprese le Comunità Montane e le Unioni Montane di Comuni, e 48 altri). I progetti hanno una scadenza triennale e sono ben 200 i Comuni titolari di progetti SAI, in scadenza il 31 dicembre 2023, che hanno presentato domanda di prosecuzione, per un totale di 8.600 posti. Alla fine del 2023 hanno scadenza anche gli oltre 4.000 posti, finanziati tra agosto e settembre 2022, destinati a persone giunte in Italia a seguito dei conflitti in Afghanistan e Ucraina. Ad oggi non si sa nulla sul proseguimento di questi progetti e c’è il timore fondato che quest’inerzia e assenza di comunicazioni faccia parte di una strategia mirata a scoraggiare e demotivare i comuni a proseguire nell’accoglienza diffusa.
Questa deterrenza è di fatto applicata in ogni settore della burocrazia che riguarda i migranti sul nostro territorio: si va dalle interminabili attese nelle questure italiane dove per depositare la richiesta di primo permesso di protezione internazionale si aspetta anche sei mesi, mentre per il rinnovo si può attendere da nove mesi a più di un anno, alle incredibili difficoltà nei progetti SAI per richiedere l’autorizzazione all’acquisto di una stufa o di sedie per gli ospiti… Attese estenuanti per ogni cosa, operatori sotto pressione in attesa di risposte anche per il rinnovo del loro contratto di lavoro e per continue ispezioni che si risolvono spesso in processi sommari. Insomma il sistema SAI, regolato da una rendicontazione “bulgara” viene costantemente controllato e ostacolato mentre sulla prima accoglienza, l’accoglienza straordinaria e i CPR – nonostante siano ormai numerose le denunce di parlamentari e le inchieste giornalistiche -, si continua a versare denaro pubblico senza controllo.
Spiega Giovanni Maiolo, vice presidente Recosol e operatore SAI in Calabria: “La faccia crudelmente inutile della burocrazia ormai si chiama, a volte, Servizio Centrale. Ti impongono di sbrigare solo cartacce e poi ti rimproverano di avere troppo amministrativi, che però non bastano mai per soddisfare le loro esigenze. Ci impongono di non lavorare coi migranti per poi rimproverarci di non farlo. E siccome sono stanco di questa deriva che sta uccidendo l’accoglienza in Italia, più dei decreti e delle politiche anti-immigrati del governo, adesso voglio dirlo a tutti. Che senso ha fare un monitoraggio ad un progetto in chiusura? Quando arriverà il follow-up, così lo chiamano, ossia la relazione con le osservazioni e le richieste di adeguamento, probabilmente il progetto sarà chiuso, perché la giunta di Calanna ha legittimamente deciso che al 31 dicembre di quest’anno l’accoglienza non proseguirà. Quindi nessuno risponderà a quel follow up, se non per dire che non ci si potrà adeguare a niente, semplicemente perché non esisterà più l’accoglienza. Ma lo hanno dovuto fare lo stesso, per giustificare la loro esistenza come organismo burocratico, facendo perdere tempo prezioso a chi vive i territori e le loro problematiche, a chi sostiene tutti i giorni i migranti provando ad individuare strade che possano garantire diritti e offrire prospettive di vita”.
Insomma è sempre più difficile per i comuni e gli enti gestori proseguire nell’accoglienza diffusa. Malgrado ciò la rete SAI ancora esiste e le esperienze che si raccolgono ovunque in Italia dove è presente l’accoglienza diffusa a governance pubblica alimentano speranza. Storie che potremmo oggi definire di resistenza, di direzione “ostinata e contraria” perché invertono la narrazione corrente e i risultati ci sono e sono importanti anche se chi il governo non vuole neanche prenderli in considerazione. «I Comuni sono e vogliono essere protagonisti di politiche migratorie stringendo un patto con la propria comunità e coinvolgendo anche quelle realtà sociali che, negli anni, hanno accresciuto la professionalità necessaria all’accoglienza, alla protezione e inclusione delle persone migranti e alla loro integrazione sociale ed economica», dice il sindaco di Castelbuono (Pa), Mario Cicero. Significative anche le piccole comunità Arberesh del cosentino, rinate grazie ai progetti SAI: si tratta di esperienze promosse in sette comuni gestiti dall’associazione Don Vincenzo Matrangolo che ogni anno in agosto si aprono al confronto e organizzano un festival delle migrazioni. Paesi come Acquaformosa, Cerzeto e San Benedetto Ullano che vent’anni fa rischiavano l’estinzione oggi sono un riferimento per tanti. In provincia di Asti, invece, il Piam dal 2000 si occupa di donne e immigrazione, con particolare attenzione alle vittime di tratta e sfruttamento e coordina diversi progetti di accoglienza. A Carmagnola, a due passi da Torino, l’associazione Karmadonne conta circa 700 soci e socie e gestisce l’accoglienza diffusa grazie soprattutto a un gruppo di donne straniere che sono diventate un riferimento importante per l’intera comunità, tra sportelli di ascolto, mensa popolare, doposcuola, consulenza legale. Sempre al nord, merita una segnalazione l’esperienza che ha preso forma a Santorso (Vicenza), con il sindaco Franco Balzi, per accogliere, prima, le persone in fuga dall’Ucraina e, successivamente quelle sbarcate sulle coste durante l’estate. “Tutto è partito nella primavera del 2022, quando ci siamo ritrovati donne e bambini ucraini letteralmente in casa senza sapere dove ospitarli”, racconta il sindaco Balzi: 27 comuni del vicentino si sono uniti e hanno messo a disposizione 130 posti in appartamenti dislocati sul territorio grazie al progetto “Tenda di Abramo”. L’accordo, siglato con la prefettura di Vicenza, prevede la gestione dell’accoglienza in Cas, con Santorso capofila, ma con l’impegno di garantire assistenza e servizi come da protocollo SAI (mantenendo il criterio di distribuzione “3×1000”, tre migranti ogni mille abitanti). Di fatto un accordo che permette di superare lo stallo della burocrazia del sistema centrale e una rapida gestione dell’accoglienza, oggi estesa non più soltanto a profughi ucraini, con requisiti di qualità certificati. Quando nell’agosto 2023 il percorso per i rifugiati ucraini si è concluso, la Tenda di Abramo ha iniziato ad accogliere i migranti arrivati via mare in Italia. Attualmente i comuni che hanno aderito sono 20.
In un intervento all’iniziativa “Città accoglienti”, promossa in luglio a Bologna, ha spiegato Franco Balzi: “È a tutti evidente che, ancora una volta, il sistema italiano d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati sia di nuovo in crisi. Quel sistema pubblico dell’accoglienza e dell’integrazione, che abbiamo conosciuto come SPRAR, SIPROIMI e ora SAI – nei fatti ridotto a essere marginale rispetto le diverse forme di accoglienza emergenziale che si sono succedute negli anni e a più riprese oggetto di azioni di forte depotenziamento – oggi viene di fatto smantellato nei suoi principi costitutivi e programmatici. Era accaduto nel 2018 con il decreto Salvini. Accade nuovamente ora, con la legge 50/23, con cambiamenti profondi, che ne snaturano il significato. L’accoglienza dei richiedenti asilo rimane ad esclusiva gestione del ministero dell’Interno, salvo le situazioni vulnerabili; i Comuni vengono chiamati a occuparsi solo dei percorsi di integrazione sociale dei titolari di protezione internazionale, speciale e di altre situazioni delicate (ex minori, vittime di tratta ecc.). Della gravità di questa scelta si è parlato poco, anche tra i comuni, come se fosse stata una scelta che non modifica l’identità del sistema SAI. E invece dobbiamo obbligarci a riflessioni critiche profonde. Riflessioni oggi attualissime, senza le quali è davvero alto il rischio di degradare il dibattito sulle politiche di accoglienza a mera competizione per la sopravvivenza tra apparati burocratici, tra sistemi, senza più identità e senza più logica unitaria. Per capire quanto questa scelta sia grave è necessario chiedersi perché la cosiddetta “accoglienza diffusa” dei richiedenti asilo con gestione dei servizi da parte delle amministrazioni locali viene di fatto tenacemente contrastata, considerato anche che tutte le ricerche scientifiche sono state univoche nel riconoscere che si tratta un modello che produce rispetto dei diritti fondamentali, coesione sociale e sicurezza, con costi quanto mai contenuti. Servirebbe comprendere perché sia stato e sia ancora oggi oggetto di un simile accanimento da parte del legislatore, accanimento conosciuto in diverse fasi politiche… Ma serve anche provare a comprendere perché il modello non sia stato adeguatamente sviluppato e tutelato nel corso dei più di vent’anni di vita, considerandone funzione sociale e, dati alla mano, risultati…”.
Ed è proprio da questa domanda, perché il modello SAI non è stato adeguatamente sviluppato, che bisognerebbe partire per analizzare quanto sta accadendo. Attualmente, oltre all’incertezza del futuro sul proseguimento dei progetti c’è anche la stridente considerazione che a fronte di nuove e costose strutture lager ultra affollate e disumane, centinaia di posti in accoglienza diffusa sono vacanti: posti che un tempo erano assegnati a persone che ora non hanno più i requisiti per restare nei SAI e che oggi vivono in clandestinità. Una recente ricerca di Action Aid e Open Polis – Centri d’Italia, il vuoto dell’accoglienza – ha tra l’altro evidenziato che nell’arco di tre anni, dal 2018 al 2021, sono stati chiusi 3.576 centri, con un calo del 29,1%. La motivazione risiede innanzitutto nella forte contrazione degli arrivi, che di conseguenza ha portato alla riduzione del numero di posti nel sistema: nel 2021 venivano messi a disposizione 59.466 posti nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), il 60,9% del totale dei posti a disposizione dell’intero sistema (97.670). Un calo rilevante riguarda anche il Sai (Sistema accoglienza e integrazione): nel 2021 erano disponibili oltre mille posti in meno rispetto al 2018 nonostante per i richiedenti asilo l’accoglienza resti un diritto sancito dalla Costituzione e da una direttiva europea. Eppure la narrazione di un sistema in perenne emergenza è presentata ovunque. Le immagini dell’hotspot di Lampedusa sovraffollato, gli sbarchi lungo le coste del sud Italia alimentano la convinzione che siamo di fronte a un problema ingestibile, una minaccia pubblica che richiede risposte emergenziali ma come abbiamo visto, la realtà è ben diversa. Le persone che arrivano in Italia tendenzialmente non vogliono restarvi e appena possono riprendono il viaggio verso altri Paesi europei. Cadono nel vuoto anche le parole di papa Francesco: “In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti… Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano. Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace…”.
Roberta Ferruti, Recosol
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