Abbiamo sempre più bisogno di coltivare curiosità interdisciplinare e capacità di ascolto dell’infanzia: possiamo farlo, ad esempio, promuovendo insieme a bambini e bambine inchieste, preparando con loro domande, incontrando persone, trascrivendo e discutendo le risposte, aprendo la scuola al territorio. Una recensione di Storie di aula e di cava. Tra scuola e società negli anni ’70 di Sergio Viti (Manifestolibri)

Sergio Viti è maestro in pensione con una storia densa di passione e di continua sperimentazione nella didattica. Una sperimentazione che è stata costruita al di fuori di tutti gli schemi della pedagogia istituzionale (“pedagogia ortopedica” la chiama ironicamente Renata Puleo), rivendicando il diritto e il dovere culturale di trarre gli stimoli e le suggestioni da tutti i campi del sapere e da una straordinaria sensibilità di ascolto dei bambini e delle bambine. Queste due polarità – la curiosità interdisciplinare e la capacità di ascolto dell’infanzia – trovavano poi una miscela originale nella costruzione di percorsi di didattica e di esperienze di discussione, conoscenza e scoperta fatte insieme a quei piccoli individui che – crescendo – insieme a lui esploravano ogni volta nuovi mondi.
Sergio ha pubblicato vari libri, con l’editrice manifestolibri, sempre partendo da queste esperienze uniche di avventura con i bambini. Non c’è una tecnica codificata, tanto meno un metodo da abbellire con un brand e da registrare con copywrite come si usa sempre di più di questi tempi: alla base di queste esperienze stanno prima di tutto la discussione e l’ascolto, condotti a partire da stimoli di qualsiasi tipo: stimoli culturali e didattici proposti dal maestro, oppure curiosità emerse dai bambini. Si può discutere in margine alla didattica, sull’attualità, sulle relazioni esistenti in famiglia o in classe; qualsiasi argomento una volta entrato nel cerchio dei bambini e del maestro lievita in forza della catena degli stimoli e degli interventi, producendo dibattiti appassionanti che imboccano strade impossibili da prevedere e che Sergio accompagna, rilancia, asseconda con delicatezza. Le discussioni, una volta trascritte, diventano la materia prima di questi libri, il materiale di base da raccontare e su cui riflettere.

In Storie di aula e di cava il maestro Sergio ha ripreso in mano due vecchi lavori prodotti nei primi anni di insegnamento (siamo all’inizio degli anni Settanta) in una piccola scuola pluriclasse di Pruno, un paesino delle Apuane (cercatelo su una mappa). Si tratta di due lavori che potremmo definire di storia, ma che per il modo particolare in cui furono sviluppati – secondo il metodo dell’inchiesta e della ricerca cooperativa – escono da ogni risibile confine disciplinare così come noi li conosciamo oggi. Di quelle esperienze Sergio ha conservato i testi, le parole dei bambini e quelle in dialetto delle persone del paese che furono chiamate e fatte entrare a scuola a parlare con essi. Oggi, a cinquant’anni di distanza quelle parole sono fonti per la storia del dialetto e per la storia sociale del lavoro e dell’istruzione nel Novecento; sono materiali culturali ricchi che si possono proporre per vari tipi di letture, a conferma che nelle scuole, quando alla passione di chi insegna si unisce una curiosità sincera e priva di autocensure, possono circolare i temi cruciali della società in cui si vive.
Le inchieste che fanno da filo conduttore al libro sono due. La prima indaga il lavoro nelle cave di marmo che ha accompagnato le generazioni dei nonni e dei genitori dei bambini come pressoché unica risorsa di lavoro nella zona. I bambini si dividono a gruppi e preparano le domande sui diversi aspetti del lavoro in cava; poi accolgono i testimoni a scuola e registrano, trascrivendo le risposte. Alla fine, sulla base dei racconti in dialetto che hanno ascoltato (la durezza del lavoro, il pericolo, la povertà, le tecniche di taglio e trasporto, le relazioni con il potere…), discutono tra loro, senza evitare le contrapposizioni (ad esempio tra chi comprende chi finiva per acquistare la tessera durante il fascismo per ottenere il lavoro e chi sostiene che non si dovesse subire “il comando dei fascisti”). La consapevolezza del percorso è evidente dalle riflessioni finali:
“Con questa storia abbiamo imparato tante cose sui vecchi cavatori. Anche i nostri babbi ci hanno raccontato come era una volta la vita alla cava”; “mi ha impressionato, perché i padroni erano troppo severi”, “noi volevamo sapere tutte le cose dei cavatori vecchi e così abbiamo conosciuto la vita dei nostri nonni”, “abbiamo imparato una storia che sui libri di storia non c’è scritta”.
L’altra inchiesta porta i bambini alla scoperta della storia della loro scuola. Anche qui i gruppi, attraverso le interviste, fanno luce su una microstoria che porta in sé una declinazione emblematica della storia della nazione; dall’inchiesta emerge la vita della scuola nel passato remoto fatta di punizioni corporali, di freddo, di assenza dei bagni e dell’acqua, di trasmissività unilaterale, di selezione. Accanto ad essa emergono le trasformazioni del passato prossimo (siamo nel 1973) con la discontinuità di modi di relazione e di metodi didattici introdotte da Sergio e dalla collega solo uno o due anni prima, di cui i bambini si rendono consapevoli proprio “facendo storia”. Le citazioni sono tutte interessanti, scegliere è difficile; prendiamo solo Carla e Ilaria: “[nella vecchia scuola] quando i bambini volevano dire qualcosa alla maestra, non gliela faceva dire perché non avevano confidenza con lei. Per noi non è bello, perché ai bambini bisogna permettere sempre di dire le loro cose. A noi la maestra e il maestro ci permettono di dire le nostre cose e, delle volte, ci si sta anche ore e ore a parlare”. E Carlo: “A quel tempo i bambini non si aiutavano nemmeno perché, se la maestra li vedeva, li picchiava e così diventavano timidi ed egoisti”.
È un libro che si può leggere come si assiste a un bel documentario degli anni Settanta riproposto da Rai-storia, appassionandosi alle voci e alle vicende delle persone che hanno lavorato in cava durante il Novecento, oppure per scoprire cosa significava andare a scuola in un paesino sperduto delle Apuane fino agli anni Settanta.
Ma si può leggere anche da maestre, cogliendo un po’ in tutto il volume i frequenti rimandi a come si sta nella relazione didattica, per capire come si può essere utili, come intuire quando si è dannosi, come si accompagnano i bambini alla presa della parola, come si fa ad essere meno giudicanti possibile… Il mestiere di insegnante, quando non oppresso da condizionamenti faticosi e dannosi (burocrazie, test, programmi vincolanti da svolgere), è una splendida occasione per ascoltare, valorizzare, proporre continuamente stimoli culturali, interessi, motivazioni, per registrare gli universi culturali dell’infanzia in movimento e indirizzarli ad esserlo sempre di più; per valorizzarli, che è tutto il contrario di valutarli. Tutto questo nello stare a scuola di Sergio e delle sue colleghe si percepisce molto bene: sono maestri che incoraggiano i piccoli a partire, a lasciare i territori stucchevoli dei sussidiari e a intraprendere per mari aperti (come recita in titolo di un altro dei suoi libri) avventure collettive con le compagne e con i compagni.
È un libro utile anche perché è sincero, non nasconde le sconfitte. Riflettendo sull’apprezzamento di questa impostazione educativa ricevuto all’epoca soprattutto da parte delle famiglie acculturate, Sergio scrive:
“Ancora oggi vivo come una sconfitta personale il fatto di non essere riuscito a incontrare, se non in qualche caso, il favore di quella classe operaia da cui io stesso provengo e per la quale ho sempre cercato di battermi a livello sociale e politico”.
Oltre ad apprezzare questa sincerità in termini di bilancio, viene da pensare che non di una sconfitta personale si sia trattato. Questa generazione di maestre e maestri ha profondamente rinnovato la scuola elementare italiana ma si è ben presto trovata di fronte un grande ostacolo alla generalizzazione di questi approcci nella mancata trasformazione della società secondo le speranze di questi primi anni. I limiti del maestro Sergio erano i limiti di tante di quelle trasformazioni che partivano dalla scuola ma che non trovarono nella società un percorso parallelo di liberazione e di trasformazione. L’onestà del maestro Sergio ce lo segnala, facciamone tesoro, non illudendoci che essere bravi insegnanti sia sufficiente.
*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna di sostegno di Comune “Ricominciamo da tre”.

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