Un gruppo di fondazioni (tra cui Vodafone, Cremonini, Namiral) coordinate dalla Fondazione Merloni, ha cominciato a tirare fuori la sua ricetta per l’Appennino. Se qualcuno in quella ricetta cercherà tracce di cura del territorio, critica allo sviluppo, attivazione di misure di mitigazione dei cambiamenti climatici, uso collettivo delle terre, coinvolgimento delle comunità locali resterà deluso. “Se si vuole costruire un nuovo umanesimo delle montagne, bisogna avere più capacità d’ascolto – scrive Paolo Piacentini, presidente di FederTrek – Bisognerebbe fare squadra davvero senza timore di avere sullo stesso tavolo posizioni che possono anche essere in conflitto…”

Credo che se veramente si ha a cuore il destino dell’Appennino e se si vuole costruire un nuovo umanesimo delle montagne (modestamente lo dico da molto tempo prima di qualcun’altro), bisogna avere più capacità d’ascolto. Bisognerebbe fare squadra davvero senza timore di avere sullo stesso tavolo posizioni che possono anche essere in conflitto. Noi a marzo abbiamo redatto, a conclusione delle giornate di riflessione organizzate da vari soggetti, tra cui Terre in Moto Marche, una Carta dell’Appennino. Uno strumento che non ha nessuna pretesa vertenziale ed è volutamente aperto alla discussione e alla collaborazione di tutti (i territorialisti l’hanno apprezzata e ci sono state molte interviste come quella, ad esempio, alla radio della CGIL). Una Carta che nasce da considerazioni elaborate nel corso degli anni e da un rapporto costante con tante realtà vive dell’Appennino.
Personalmente non ho mai pensato di pormi come voce sola o tra le più importanti dell’Appennino, sarei uno sciocco e un presuntuoso. La complessità dei problemi che attanagliano le nostre montagne molto probabilmente non possono avere una risposta unitaria. Le risposte vanno ricercate tenendo a cuore davvero le nostre montagne. Nei resoconti sul progetto delle varie Fondazioni, coordinate dalla Fondazione Merloni (leggi Parte dalle Marche il progetto di rinascita dell’Appennino), non ho mai letto le parole: cura del territorio, attivazione pratica di progetti per l’adattamento ai cambiamenti climatici o per misure di mitigazione. Non ho mai sentito parlare di ripresa dell’uso collettivo delle terre.
I progetti di turismo “lento e sostenibile”, giusto per parlare di uno degli aspetti molto enfatizzati, si fanno con il coinvolgimento delle comunità locali, come stiamo facendo con il Cammino nelle Terre Mutate da Fabriano a L’Aquila (2.500 copie della guida vendute in due mesi e persone dei luoghi attraversati coinvolte in prima persona che stanno credendo al progetto).
Io sono molto laico ed ecumenico e allora dico che forse sarebbe importante che l’accesso ai finanziamenti della prossima programmazione europea venga gestito in modo molto trasparente e che vadano a promuovere progetti diffusi che coinvolgano il più possibile la parte viva dei territori.
L’Appennino non ha bisogno di grandi progetti figli di un vecchio modello di sviluppo. Si ha bisogno anche di tanta innovazione, sicuramente culturale e poi anche tecnologica: va bene tutto ma a beneficiarne devono essere davvero le comunità locali. Troppo spesso le comunità si vedono arrivare i progetti dall’alto (anche i sindaci) e allora è ovvio che non avendo partecipato alla fase di ideazione e programmazione si trovano ad accettare quello che gli arriva in modo strumentale. Di esempi di progetti calati dall’alto ce ne sono molti purtroppo. Perché non si apre un tavolo ampio di confronto reale? Io ci sono e credo in molti se c’è voglia di non sentirsi i soli veri appenninici.
Oggi l’Appennino se ha bisogno davvero di un nuovo umanesimo allora ha bisogno di mettere in campo energie nuove, soprattutto da parte di giovani capaci di sporcarsi le mani. Uno sporcarsi le mani che fa da sponda anche a tanta innovazione ma tenendo la barra dritta sulla sostenibilità ambientale e sociale. L’Appennino ha un bisogno viscerale d’ascolto ma anche di tanta radicalità se davvero vogliamo ricostruire comunità non identiche ma autentiche.
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