Ascoltare, guardare, raccontare, condividere. Diciamo la verità: certi verbi sembrano oziosi tentativi di sottrarsi al tempo del consumo, della produzione, della crescita del Pil. Se poi diventano azioni, perfino riti, che riguardano la vita di ogni giorno di bambini e ragazzi allora siamo di fronte a impertinenti percorsi con cui cominciare a riprendersi il proprio tempo, a costruire relazioni diverse, insomma un mondo nuovo. A scuola, racconta la maestra Anna, con il racconto quotidiano delle nostre emozioni “ci prendiamo cura di noi e del nostro stare insieme, un tempo ben speso…”. Anche di questo si parla alla Taverna comunale del 6 ottobre con Franco Lorenzoni, Ci vuole il tempo che ci vuole
di Anna Foggia Gallucci, maestra*
Prendersi tempo è cosa buona e giusta. Oggi, pressoché rivoluzionaria. Un tempo che faccia star bene, un tempo per ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, raccontarsi. Per abbracciarsi, per dirsi, per pensarsi. Per sé e per gli altri, che poi è un po’ lo stesso.
Da parecchi anni ho preso l’abitudine di aprire o chiudere le lezioni nelle classi dove lavoro con l’appello delle emozioni. È un piccolo rito, per restituirci un tempo che sembra sempre mancare, correre veloce, sempre più spesso ignorandoci. Funziona così: ogni bambino dice come si chiama e come si sente. “Sono Francesco e mi sento sereno”. “Sono Eva e mi sento gioiosa”. “Sono Simone e mi sento preoccupato”. Con queste poche parole ci si riconosce, ci si guarda dentro e ci si dà voce. Il seguito poi si vede insieme cosa farci.
Negli anni abbiamo messo insieme un ventaglio di sfumature di emozioni che ci fanno stare bene o non bene, perché le possibilità sono veramente tante. C’è qualche emozione che non è detto sia positiva o negativa, dipende da quello che le sta intorno (così mi hanno spiegato!): è quando siamo stupiti o sorpresi o confusi. In questi casi è il motivo a fare la differenza.
Abbiamo rappresentato graficamente questo piccolo ma importante campionario, che si è progressivamente ampliato e arricchito di contenuti e riflessioni, impossibili da mettere nero su bianco per la loro vastità, per le gradazioni e le tonalità.
Quando capita che arrivino bambini nuovi nella classe, per restarci qualche ora o per sempre, i veterani dell’appello hanno subito avuto cura di spiegarne tutti i dettagli; in questi casi succede che ognuno dice la sua e il nuovo o la nuova arrivata finisce sempre per apprezzare.
È il tempo delle emozioni: sappiamo che ci sono, ci stanno dentro, sono noi, e noi le ritroviamo e ci riscopriamo vicendevolmente, legandoci in quella fiducia che si stabilisce tra chi si racconta, un aggancio che crea unione e appartenenza in grado di sopravvivere anche a delusioni, amarezze e ordinari conflitti, i quali, anche così, vengono gestiti ricomponendo le relazioni.
Non è sempre facile, chiaramente. Resta, però, l’importanza di dedicarci questo spazio per occuparci di come ci sentiamo, condividere, ascoltare gli altri conoscendoci e riconoscendoci continuamente.
Ci siamo accorti, nel tempo, che il carico emotivo che possiamo sentire eccessivo e faticoso da tenere dentro, se socializzato ci può servire addirittura a star meglio, anche quando proviamo disagio, perché diventa un disagio che racconta, ci dice qualcosa che dovevamo sapere e che richiedeva la nostra attenzione.
Il clima migliora, la predisposizione e la motivazione ugualmente. Ci prendiamo cura di noi e del nostro stare insieme. Un tempo ben speso.
Non citerò psicologi, pedagogisti e studiosi dell’educazione perché le citazioni che mi sembrano più opportune sono proprio quelle dei bambini.
Giorni fa è stato con noi per qualche ora un compagno, straniero, di un’altra classe; per farlo sentire a suo agio durante il tempo che doveva trascorrere con noi, i bambini hanno proposto di fare l’appello delle emozioni. Ovviamente glielo hanno spiegato loro come funzionava la cosa ed è nata una chiacchierata interessante.
“Dire le emozioni ci fa stare bene” (Chiara).
“In certi momenti più di altri sento proprio il bisogno di dire come mi sento” (Miriam).
“Per me è importante sentire come si sentono gli altri” (Christian).
“Ti racconti, ti spieghi, e dopo ti senti meglio” (Luigi).
“Ci manca tanto, quando per qualche motivo non si fa” (Leo).
“Dopo stiamo meglio con i compagni” (Irene).
“E’ un’occasione per farsi ascoltare” (Alessandro).
“Dopo lavoro meglio, anche se il lavoro non mi piace granché” (Sofia).
“Quando hai una preoccupazione e non sai a chi dirla non ti va di fare niente, neanche le cose che ti piacciono. E allora c’è l’appello delle emozioni” (Alessandra).
L’ospite, con il suo vocabolario italiano in formazione, allora ha voluto partecipare e ci ha detto “mi sento curioso e anche divertito, prima invece ero annoioso”.
Non serve interpretazione. “In claris non fit interpretatio”, dicevano i latini. Loro, i bambini, sono così. E quindi questo tempo ce lo prendiamo tutto.
Un minuscolo, piccolissimo frammento di un puzzle complesso, sfaccettato e multicolore che ci chiama a comporlo: è l’educazione alle emozioni e ai sentimenti.
Richiede tempo, tempo autentico.
Il tempo per educare donne e uomini consapevoli di sé, capaci di avere relazioni equilibrate, con una elevata competenza emotiva, in grado di riconoscere il disagio e affrontarlo ricercando una nuova condizione di agio; donne e uomini che sappiano riconoscere ogni tipo di violenza: verbale, psicologica, fisica; che, di conseguenza, non la agiscano, non la subiscano, che reagiscano quando la osservano; che non cadano vittima di meccanismi discriminatori e stereotipi di nessun tipo, come spesso succede quando si è inconsapevoli di sé e si finisce per subirli dal contesto e agirli in prima persona; donne e uomini che sappiano vivere e gestire conflitti distinguendoli dalla violenza; che sappiano costruire per sé e per il proprio ambiente una condizione di benessere attraverso l’esperienza condivisa della propria crescita personale e sociale, un passo alla volta, con il tempo che ci vuole.
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