La notizia non ha avuto molte attenzioni: oltre il 90 per cento dei pagamenti transfrontalieri dei 26 paesi che fanno parte dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai, a cominciare da Cina e Russia, sono già fatti senza dollaro. Un processo cominciato dieci anni fa che si è intensificato negli ultimi quattro anni e si è accelerato con la guerra in Ucraina. Quali sono le conseguenze del declino della moneta statunitense? Che relazione esiste con la crescita delle guerre? Raúl Zibechi ragiona intorno a queste domande, ma cerca di rispondere anche a un altro interrogativo essenziale: cosa sono chiamati a fare, in questo scenario, movimenti e popoli?
Giorni fa, il vicepresidente della Camera di Commercio e dell’Industria dell’associazione interstatale BRICS, Samip Shastri, ha riferito che “il volume delle liquidazioni nelle valute nazionali dei paesi membri già supera quello delle liquidazioni in dollari” (link). A questo dato si dovrebbe aggiungere che il 92 per cento dei pagamenti transfrontalieri dei 26 paesi (inclusi partner di dialogo e osservatori, ndr) che fanno parte dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (OCS), sono già fatti senza dollari (link). La velocità dei cambiamenti è forse il dato più importante da tenere in considerazione. Nel 2022, la proporzione di pagamenti in valuta nazionale tra i paesi OCS era del 40 per cento e ora ha raggiunto il 92 per cento. Parallelamente, la Cina e la Russia dal 2023 conducono scambi bilaterali utilizzando lo yuan cinese. Nel 2010 lo yuan era utilizzato dalla Cina solo nello 0,3 per cento degli scambi internazionali, ma quest’anno ha raggiunto il 52,9 per cento, 10 punti in più rispetto al dollaro. Si tratta di un processo che ha richiesto un decennio di sviluppo, ma che si è intensificato negli ultimi quattro anni e si è accelerato con la guerra in Ucraina.
La Cina deve essere considerata come la principale fabbrica del pianeta e il suo commercio estero si sposta sempre più dal Nord Globale al Sud Globale, un modo per superare le barriere commerciali imposte dall’UE (link).
Indipendentemente da quanto accadrà al vertice dei BRICS a Kazan (22-24 ottobre), che molti considerano un momento fondamentale per l’introduzione di valute alternative al dollaro e mezzi di pagamento non controllati dall’Occidente, i dati citati consentono alcune valutazioni e conclusioni.
La prima è l’evidente declino dell’uso del dollaro, soprattutto nell’area più dinamica delle attuali economie mondiali: l’Asia. Declino della moneta che è parallelo alla caduta della potenza egemonica. Tuttavia, credo che sia necessario evitare le analisi semplicistiche che danno quasi come sconfitto l’impero militare più potente della storia e l’Occidente nel suo complesso. Decadenza non è sinonimo di sconfitta o fine dell’egemonia. Credo che siamo di fronte a un processo reale, ma molto lento, che si ripercuoterà a lungo termine e che non possiamo cadere in un determinismo che ci rassicura che i cambiamenti egemonici sono inevitabili. L’Occidente ha ancora molto potere e risorse.
In secondo luogo, bisogna collegare la decadenza imperiale con la successione di guerre che essa promana nel mondo, utilizzando ucraini, israeliani, sauditi e altre nazioni disposte a sottomettersi alla sua volontà. La violenza è il punto di forza dell’Occidente, per questo ha conquistato il pianeta nelle guerre coloniali che hanno annientato interi popoli. Le guerre sono una conseguenza del declino dell’Occidente, o Nord Globale, ma a loro volta possono accelerarlo a seconda dei risultati che raccolgono, non necessariamente sul campo di battaglia, ma nelle società che le fanno.
Le guerre sono la via scelta dal capitale per prolungare la decadenza e cercare di invertirla. Questo si iscrive nella lunga storia del capitalismo, che ha potuto diventare il sistema dominante soltanto attraverso la violenza e il terrorismo. Chi continua a pensare che ci siano “leggi economiche” che hanno spiegato l’ascesa e la caduta del capitalismo, commette un grave errore. Il patriarcato, per esempio, non obbedisce a nessuna legge o ragione storica, ma all’uso e abuso di violenza e forza da parte degli uomini dominanti. E non si può porre fine al patriarcato né al capitalismo, con le stesse armi con cui è stato imposto.
La terza questione è che senza l’egemonia del dollaro gli Stati Uniti saranno una nazione fragile, per la sua debolezza produttiva e per la sua guerra interna contro i settori popolari, incapace di imporsi nel mondo. Ma anche qui non c’è il minimo determinismo.
La quarta domanda ci coinvolge. Cosa faremo?
Ciò che facciamo o non facciamo in questi momenti decisivi, come popoli e movimenti, avrà conseguenze importanti a lungo termine. Resistere e costruire le basi delle autonomie collettive sembra essere la via più adeguata, guardando lontano per non cadere in provocazioni o in impossibili uscite a breve termine. Per quanto ne so, solo l’EZLN e alcuni popoli originari del continente latinoamericano hanno tracciato piani per affrontare le guerre dall’alto e la distruzione del pianeta. Quando i membri di Teia dos Povos parlano di 3 mila anni o gli zapatisti di 120 anni o sette generazioni, non vuol dire (se ho capito qualcosa) che si tratta di aspettare passivamente. Quello che costruiamo oggi sarà fondamentale perché nel lungo tempo ci sia qualche possibilità di sopravvivenza delle persone e della vita. La speranza non può essere un’attesa passiva, ma l’attivismo delle creazioni collettive. Dobbiamo imporci di riflettere sui tempi dei popoli, non degli individui, perché questi sono i tempi brevi del capitalismo.
Pubblicato su La Jornada (traduzione di Comune). Raúl Zibechi ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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Nicola dice
Sintetizzando brutalmente quanto ho appena letto: nel mentre il mondo passa (a suon di cannone) dal “cattivo” imperialismo dell’Occidente all’imperialismo “buono” di Cina, Russia e Iran, noi popoli (tra una cannonata e l’altra) dovremmo intrattenerci con “l’attivismo delle creazioni collettive”. In attesa di capire il nuovo imperialismo da servire e riverire.