Già sei anni fa, nella primavera del 2015, gli zapatisti lanciarono un drammatico e sorprendente grido d’allarme: a noi pare di vedere che per i popoli del mondo sta arrivando una tormenta molto più devastante di quel che abbiamo visto finora. Siamo zapatisti, però, e sappiamo di poter sbagliare. Voi che ne pensate? Così convocarono, per il 3 maggio successivo, il seminario itinerante “Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista” chiamando il mondo intero a discuterne. Oggi, scrive Raúl Zibechi, quella previsione che allora a molti sembrò assurda rivela tutta la sua veridicità: la pandemia non è certo solo un problema sanitario. È un’anteprima di ciò che può accadere: incendi e inondazioni, cambiamenti drammatici del clima e perfino nella Corrente del Golfo. E poi la militarizzazione dei territori e le devastazioni sociali che non colpiranno allo stesso modo quelli che stanno in alto e gli oceani sempre più vasti di persone che lottano per sopravvivere ogni giorno. La pandemia accelera non solo il collasso/tormenta, ma l’offensiva delle élite contro l’umanità. Non è che la classe dirigente l’abbia pianificata, ma certo ne approfitta per accelerare i processi di dominazione, espropriazione e immobilizzazione che già stava promuovendo. Per questo è così importante l’incontro delle ribellioni avviato il 3 maggio scorso con il viaggio dell’imbarcazione la Montagna verso l’Europa. Domani 13 agosto, a 500 anni dalla caduta di Tenochtitlan, gli zapatisti e il vecchio continente insumiso grideranno insieme a Madrid che la resistenza e la ribellione sono vive e non hanno affatto perso la voglia e la determinazione per costruire mondi nuovi
In diverse occasioni abbiamo citato la tormenta sistemica e il collasso di civiltà a cui si sta per affacciare l’umanità nel prossimo futuro. È stato uno dei nuclei della discussione promossa dall’EZLN nel 2015, nel seminario “Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista“.
In un testo di quello stesso anno, “La tempesta, la sentinella e la sindrome della vedetta“, il subcomandante Galeano ci chiedeva: “Cosa stiamo guardando? Perché? Verso dove? Da dove? A quale scopo?”. Poi aggiungeva: “A chi lavora con il pensiero analitico tocca il turno di guardia al posto di vedetta”. E si soffermava sulla cosiddetta “sindrome della vedetta”, coè sulla stanchezza che porta la sentinella a credere che non ci siano cambiamenti o che le continuità siano più importanti delle novità.
Quel testo assicura che “sta arrivando una catastrofe in ogni senso“, nonostante molti assicurino che tutto rimanga uguale o che ci siano solo piccole variazioni. E continua: “Vediamo che arriva qualcosa di terribile, ancora più distruttivo, se possibile”.
Tra le perplessità dello zapatismo, e di quelli di noi che continuano ad essere anticapitalisti, la maggior parte della sinistra e dei movimenti “continua a far ricorso alle stesse forme di lotta”. Come se nulla fosse cambiato, si continua con cortei, elezioni, con strategie e tattiche che, tutt’al più, potrebbero essere state utili in altri periodi.
Questa breve citazione di un testo che è consigliabile leggere tutto serve a guardare la realtà in cui viviamo, in piena pandemia, ma partendo dall’esatta previsione zapatista di sei anni fa nell’anticipare una tormenta distruttiva contro i popoli.
È esattamente questo il primo punto. Va riconosciuto che molto pochi furono in grado di comprendere cosa bisognasse guardare, come e da dove guardare, per capire cosa stesse arrivando. La pandemia è solo un’anteprima di ciò che può accadere. Guardiamo ancora: incendi e inondazioni, cambiamenti drammatici perfino nella Corrente del Golfo, che si sta indebolendo e potrebbe collassare conducendo il pianeta a una crisi molto grave, lo scioglimento del permafrost e della banchisa polare, tra le altre distruzioni in corso, come quella della foresta amazzonica.
Uno dei problemi centrali posti dallo zapatismo è da dove guardare. Se lo facciamo dal basso, dai settori popolari del continente (americano, ndt), dalla zona del “non-essere” di cui parla Fanon, appaiono tendenze temibili alle quali dobbiamo prestare la massima attenzione, perché non colpiranno allo stesso modo l’intera società.
Nell’affrontare la crisi ambientale in corso, dobbiamo capire che le conseguenze non saranno paritarie. Oggi i quartieri che devono essere riforniti di acqua dalle cisterne pagano quel liquido più caro di chiunque altro, oltre alla portata della vulnerabilità che quella dipendenza rappresenta.
Il secondo problema è che non ci sarà alcun ritorno alla normalità. La normalità d’ora in poi sarà quella che abbiamo vissuto nei mesi peggiori della pandemia. Qui la “sindrome della vedetta” si manifesta nel considerare la pandemia come una parentesi dopo la quale tutto torna di nuovo uguale. Se consideriamo la pandemia come un problema della salute, non capiremo le ragioni per le quali le classi dominanti impongono certe misure che limitano solo la mobilità di chi sta in basso, perché chi sta in alto non ha mai cessato di muoversi liberamente.
Coloro che hanno studiato la cosiddetta “guerra al narcotraffico” e il paramilitarismo, strettamente correlati tra loro, assicurano che uno degli obiettivi centrali è proprio quello di ridurre la mobilità dei settori popolari. Durante la pandemia, questa è stata una delle politiche centrali degli Stati: confinare, impedire la libera mobilità, come un modo per affermare il dominio.
Si potrebbe riscrivere la celebre affermazione di Michel Foucault sul potere del sovrano, che si esercita attraverso il “lasciar vivere” e il “far morire”: permettere di muoversi o impedire di muoversi. Perché su quel punto si fonda, in buona misura, quello che è successo in questi mesi. Adesso si comincia a restringere anche l’accesso alle attività pubbliche a chi non possiede determinati requisiti.
Il terzo problema è che la pandemia accelera non solo il collasso/tormenta, ma in particolare l’offensiva dell’1 per cento della popolazione contro l’umanità. Non è che la classe dirigente abbia pianificato la pandemia, ma ne approfitta per accelerare i processi di dominazione, espropriazione e immobilizzazione che già stava promuovendo.
Il dominio totale della finanza e delle banche sulla vita, che porta all’eliminazione del denaro fisico, è solo una delle tendenze in atto, esso tende a rompere l’autonomia del tianguis e di altre forme di economia popolare. Tutto mira a strangolare la vita quotidiana di chi sta abajo, in basso, in modo che il capitale possa colonizzare tutti gli aspetti della società.
Sta a noi impedirlo. Sapendo che non ci sono vie d’uscita individuali e, soprattutto, che sarà sempre più arduo impedire l’avanzata dei potenti, che giorno dopo giorno mostrano un profilo più aggressivo e sono pronti a tutto pur di continuare a restare arriba, in alto.
Fonte in spagnolo: Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Paolo Moscogiuri dice
Proprio ieri sera scrivevo e pubblicavo su fb questa ridlessione che, a mio avviso, può essere un contributo a quanto già evidenziato nell’articolo.
Perché quando ci si confronta su temi sociali, politici o scientifici, quasi sempre si creano due fazioni opposte che tendono solo a dimostrare le proprie ragioni e criminalizzare quelle dell’altra?
Dobbiamo subito fare una distinzione importante fra due diverse modalità di utilizzo del nostro ragionamento, difronte ad argomenti che non dominiamo totalmente, e che si prestano ad una lettura interpretativa. In questi casi, dato che l’argomento non passa sempre per la propria esperienza personale, per forza di cose o ci si aiuta con l’analisi del contesto e dei risultati reali dei termini, oltre a verificare possibili alternative, o ci si affida ciecamente all’esperto e al volere del potere più forte: la Stato, l’Ente preposto, i mezzi di informazione. La prima modalità di approccio passa per il cosiddetto “pensiero critico”, la seconda per il “pensiero riduzionista”. Il pensiero riduzionista è così chiamato perché analizza un valore alla volta, estrapolandolo dall’insieme del contesto al quale appartiene. Facendo un esempio pratico, se il tema trattato è il cibo ogm, il pensiero riduzionista ci dirà che è una buona cosa perché il raccolto in questo caso sarà quattro volte tanto e si potranno così sfamare intere popolazioni mondiali. Colui che invece utilizzerà il “pensiero critico”, pur non smentendo le caratteristiche prime enunciate, si porrà anche il problema del brevetto dei semi e la conseguente dipendenza dell’agricoltore dalle industrie produttrici, se non addirittura potentati economici e politici, oltre quello dello sfuttamento dei suoli, e si farà poi domande sulla salute e sulla possibile diminuzione delle biodiversità. E chiaro allora che un potere politico che non voglia porsi difronte a tante questioni che rallenterebbero le decisioni in merito, e con esse eventuali interessi economici e finanziari, si affiderà più alla prima modalità che alla seconda, magari ridicolizzandola se non criminalizzandola, come avviene oggi con le persone che mettono in dubbio la validità dei va((ini, costringendo anche me, in questo scritto, a trovare un modo di scrittura per sfuggire al controllo e alla coercizione. Purtroppo però il cosiddetto “pensiero critico” non è una modalità che si decide solo con la propria volontà, ma si acquisisce dall’infanzia, attraverso l’educazione famigliare e scolastica. E qui stiamo messi proprio male, perché negli ultimi decenni, proprio quell’educazione di Stato che dovrebbe formare il cittadino critico, ha invece virato il timone verso l’annichilimento di ogni prospettiva critico-culturale, esasperando la cosiddetta “meritocrazia”, che altro non è che competizione che porta divisione ed emarginazione, e la sottovalutazione delle materie umanistiche, formative della coscienza e della consapevolezza del diritto.
Insomma se nel passato i cittadini avevano meno cultura nozionistica, ma più capacità critica, mancandogli però gli strumenti e i mezzi per far rispettare i propri diritti, oggi paradossalmente, con una cultura media liceale, e mezzi economici e sociali per rivendicare i propri diritti, non lo si fa in mancanza di coscienza critica. Tutto questo ha portato inoltre ad una sproporzione nelle modalità di ragionamento, riducendo al minimo i “critici”, che per sminuirne la forza, non vengono più indeboliti con la violenza fisica, come nelle dittature militari, ma saranno gli stessi “riduzionisti” a farlo, perché questi, non essendo in grado di seguire se non un ragionamento alla volta, si sentiranno attaccati e messi in pericolo dagli altri. Questa tecnica del “dividi et impera”, era nota già dall’antichità e nulla ci lascia sperare a una sua decadenza, soprattutto in questo infausto momento storico, in cui la globalizzazione neoliberista impéra, penetrando fin dentro le maglie di quelle organizzazioni che storicamente erano a supporto del popolo: partiti di sinistra e sindacati.
Ettore Crocella dice
È un punto di vista da cui si potrebbe ripartire… Dal basso e senza la sinistra incapace semplicemente di ” vedere”…. quanto la pandemia sia stata utilizzata per accrescere il potere Arriba… Le lotte contro la disoccupazione anche se doverose non modificherànno di una virgola il potere delle multinazionali.. Bisogna rimboccarsi le maniche.
Zapatisti e Curdi del Royawa sono gli unici che possono indicarci un percorso comune.
gian dice
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