Nell’antica Cina, l’arrivo di una nuova dinastia era accompagnato dalla «correzione dei nomi», una cerimonia in cui la sciatteria e l’erosione dei significati che avevano avuto luogo nella dinastia precedente venivano corrette e il linguaggio e i suoi oggetti messi nuovamente in rapporto. Era come un giubileo di cancellazione dei debiti, solo che riguardava il significato, piuttosto che il denaro.
Questa è stata la parte che ha reso la prima campagna presidenziale di Barack Obama così elettrizzante: sembra un uomo che parlava la nostra lingua e chiamava molte cose, anche se non tutte, con il loro nome. Quale che sia stata la causa di quella stagione di chiarezza, una volta eletto Obama è prontamente sprofondato nell’obsoleto, felpato linguaggio da universo parallelo utilizzato dalla maggior parte dei politici e da allora vi è rimasto. Nel frattempo la destra estrema si è spinta fin dove sappiamo cambiando il nome praticamente a ogni cosa nel nostro mondo, un fenomeno che è esploso come una supernova in quest’anno (…).
Cominciamo a rettificare qualche termine anche noi. Spesso parliamo come se l’origine di così tanti dei nostri problemi fosse complessa e addirittura misteriosa. Non sono certa che lo sia. Si può attribuire tutto all’avidità: il rifiuto di fare qualcosa a proposito del cambiamento climatico, i tentativi dell’1 per cento di distruggere la nostra democrazia, la costante rapina dei poveri, la conseguente morte per fame dei bambini, la guerra contro la maggior parte di ciò che è bello su questa Terra.
Chiamare bugie le bugie e furto il furto e violenza la violenza, a voce alta, chiaramente e costantemente, fino a quando la verità diventi qualcosa di più di un tonfo nella strada, è un aspetto potente dell’attivismo politico. Gran parte del lavoro riguardo ai diritti umani comincia con la riformulazione accurata e aggressiva dello status quo come oltraggio, che si tratti di misoginia o razzismo o di avvelenamento dell’ambiente. Quelli che proteggono un oltraggio sono i mascheramenti, le circonlocuzioni e gli eufemismi: «tecniche potenziate d’interrogatorio» al posto di torture, «danni collaterali» al posto di uccisioni di civili, «guerra al terrore» al posto di guerra contro voi e me e contro la nostra Carta dei Diritti.
Cambiate il linguaggio e avrete cominciato a cambiare la realtà o almeno a esporre lo status quo alla contestazione. (….) Cominciamo allora a chiamare le manifestazioni di avidità con il loro vero nome. Per avidità intendo il tentativo di quelli che hanno moltissimo di avere ancora di più, non il tentativo del resto di noi di sopravvivere o di condurre una vita decente. Guardate ai Walton del famoso Wal-Mart; i quattro eredi principali sono tra la dozzina di uomini più ricchi del pianeta, ciascuno con proprietà per circa 24 miliardi di dollari. Questa ricchezza equivale a quella del 40% degli statunitensi che stanno più in basso. La società fondata da Sam Walton ora impiega 2,2 milioni di lavoratori, due terzi dei quali negli Stati uniti, e la grande maggioranza è pagata miseramente, intimidita, spesso costituita da persone sotto-occupate che dipendono normalmente dai sussidi governativi per sopravvivere. Questo si può chiamare assistenza alla Famiglia Walton, un sussidio dei contribuenti al loro sistema. Gli scioperi organizzati contro la Wal-Mart quest’estate e in questo autunno hanno denunciato condizioni di lavoro di una barbarie incredibile, magazzini che sfiorano i 50 gradi, una donna incinta di otto mesi costretta a lavorare a un ritmo brutale, scontata esposizione a inquinanti e intimidazione di quelli che hanno tentato di organizzarsi o di iscriversi a un sindacato. (….)
Dove ciò ha l’impatto maggiore è sul cambiamento climatico. Perché non abbiamo fatto quasi nulla negli ultimi venticinque anni a proposito di quella che allora era una minaccia terrificante e ora è una catastrofe attuale? Perché non andava bene per gli utili trimestrali e per portafogli dei combustibili fossili. (….) Questi tre decenni di rifiuto di reagire hanno sprecato tempo cruciale. E’ come se si fosse impedito di spegnere un incendio fino a quando non fosse divampato: ora la tundra si sta sgelando e il ghiaccio perenne della Groenlandia si sta sciogliendo e quasi ogni sistema naturale è devastato, dagli oceani che diventano acidi all’erraticità delle stagioni, alle siccità, inondazioni, ondate di calore, incendi e ai mancati raccolti. Possiamo ancora reagire, ma il clima è cambiato; il danno di cui parlavamo solo pochi anni fa come qualcosa di appartenente al futuro è qui, ora.
Potete guardare ai massimi dirigenti esecutivi delle compagnie petrolifere – John Watson della Chevron, per esempio, che ha incassato quasi 25 milioni di dollari (1,57 milioni di stipendio e il resto in «indennizzi») nel 2011 – o ai loro maggiori azionisti. Non possono mancare di nulla. Sono così ricchi che potrebbero ritirarsi dal gioco in qualsiasi momento. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, alcuni tra i più ricchi del mondo hanno soppesato il destino della Terra e di ogni essere vivente su di essa per incalcolabili generazioni a venire, delle stagioni e dei raccolti, di questo intero squisito pianeta su cui ci siamo evoluti e si sono schierati dalla parte di un maggior profitto per sé stessi, le persone meno bisognose che il mondo abbia mai conosciuto. (….)
Come ha scritto l’Irish Times in un editoriale di quest’estate: «In tutta l’Africa, l’Asia e l’America latina, centinaia di persone stanno lottando per adattarsi al proprio cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni abbiamo visto 10 milioni di persone cacciate da inondazioni in Pakistan, 13 milioni affrontano la fame nell’Africa orientale, e più di 10 milioni nella regione africana del Sahel rischiano di morire di fame. Anche cifre come queste non fanno che sfiorare la superficie. Secondo il Forum Umanitario Globale, diretto dall’ex Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan, il cambiamento climatico è responsabile di 300.000 morti ogni anno e colpisce trecento milioni di persone ogni anno. Entro il 2030 il pedaggio annuo dei morti collegati al cambiamento climatico è atteso salire a 500.000 e il costo economico salire alle stelle a 600 miliardi di dollari».
L’anno prossimo assisteremo a un drammatico aumento della fame dovuto ai prezzi crescenti del cibo e ai mancati raccolti, compresi quelli di quest’estate nel Midwest statunitense dopo una siccità torrida in cui il fiume Mississippi si è quasi prosciugato e i raccolti sono avvizziti. Dobbiamo parlare del cambiamento climatico come di una lotta contro la natura, contro i poveri (specialmente i poveri dell’Africa) e contro il resto di noi. Ci sono vittime, ci sono morti, e c’è distruzione, e tutte queste cose stanno aumentando. Correggiamo il nome, chiamiamola guerra. (…) Ma qual è il maggior ostacolo con il quale si scontrano invariabilmente quelli che hanno già cercato di farlo? Le compagnie petrolifere, l’industria del carbone, le industrie energetiche, la loro incredibile influenza finanziaria, il loro sciame di lobbisti, e i politici nelle loro grinfie. Quelli che traggono maggior vantaggio dallo status quo, ho imparato nello studiare disastri, sono sempre i meno disponibili al cambiamento. (….)
Nonostante decenni di tagli fino all’osso, la destra continua a promuovere tagli fiscali come dovessero ancora essere effettuati. Il ritornello costante è che siamo troppo poveri per dar da mangiare ai poveri o per dare un’istruzione ai giovani o per curare i malati, ma la povertà non è monetaria: è morale ed emotiva. Correggiamo ancora un po’ il linguaggio: anche in questo momento gli Stati uniti restano la nazione più ricca che il mondo abbia mai visto e la California – con le regioni agricole più ricche del pianeta e un boom colossale dell’alta tecnologia che ancora prosegue a Silicon Valley – è anch’essa ricca sfondata. Quali che siano i loro problemi, gli Stati uniti nuotano ancora nell’abbondanza, anche se tale abbondanza è divisa in modo sempre più disuguale. In realtà c’è più che abbastanza per dar da mangiare bene a ogni bambino, per curare ogni malato, per istruire bene tutti senza caricarli di debiti odiosi, per sostenere le arti, per proteggere l’ambiente, per produrre, in breve, una società magnifica. L’ostacolo è l’avidità. (….)
Uno dei grandi risultati di Occupy Wall Street è stato la correzione delle parole. Quelli che si sono uniti sotto quella bandiera hanno chiamato l’avidità disuguaglianza e ingiustizia del nostro sistema; hanno reso visibile la brutalità del debito e l’asservimento dei debitori; hanno contestato i crimini di Wall Street; hanno etichettato i più ricchi tra noi come l’«uno per cento», quelli che hanno fatto una professione del pompare verso l’alto grandi somme della nostra ricchezza (un genere molto diverso di tassazione). E’ stata un’etichetta che ha avuto senso per gran parte dello spettro politico. E’ stato un buon inizio. Ma c’è ancora così tanto da fare. I nomi sono solo una parte del lavoro, ma si tratta di un primo passo cruciale. Un medico comincia con la diagnosi e poi cura; un attivista o cittadino deve cominciare descrivendo ciò che è sbagliato, prima di agire. Farlo bene significa chiamare le cose con il loro nome. Semplicemente pronunciare tali nomi è un raggio di luce potente abbastanza da mandare i distruttori che illumina a precipitarsi in cerca di riparo come scarafaggi. Dopo di ciò è ancora necessario dare un nome alla propria visione, al proprio piano, alla propria speranza, al proprio sogno di qualcosa di migliore.
I nomi contano; il linguaggio conta; la verità conta. In quest’era in cui i media convenzionali sono al servizio dell’offuscamento e dei pretesti più che di ogni altra cosa (esclusa la distrazione), i media alternativi, i media sociali, le dimostrazioni nelle strade e le conversazioni tra amici sono i rifugi della verità, gli spazi in cui possiamo cominciare a correggere i nomi. Perciò cominciamo a parlare.
Rebecca Solnit è autrice di tredici libri, collaboratrice regolare di TomDispatch (vorrebbe che il Partito Repubblicano fosse chiamato, fino a nuovo avviso, il Partito Filo-Stupro). Quelli che avete letto sono ampi stralci di un articolo tradotto (Giuseppe Volpe) e pubblicato da ZNetitaly.org (fonte originale TomDispatch.com)
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