Il parlamento Ue ha dunque approvato a larga maggioranza il gigantesco piano di riarmo dell’Europa. Non si tratta soltanto di un passo verso il baratro di nuovi conflitti armati, è anche un tentativo di calpestare le tante forme di lotta nonviolenta che hanno segnato la storia dell’Europa, dalle scelte delle donne di Rosenstrasse che sfidarono in nazismo agli straordinari boicottaggi e scioperi in Danimarca contro i nazisti, passando per la resistenza contro i regimi dell’est dopo la guerra. Oggi non basta il no al riarmo, abbiamo bisogno di indicare quali forme di lotta possiamo praticare, sia in tempi di pace sia in guerra, contro la brutalità della forza armata. Abbiamo bisogno di mettere in discussione l’ambiguità di chi sostiene che, in fondo, il ricorso alla guerra può essere possibile in qualche circostanza. No, uccidere indiscriminatamente non può essere mai più un’opzione

In Europa la strada che ha raccolto nel modo più significativo l’eredità profonda della lotta al nazifascismo, è stata la scelta nonviolenta, sin dal cuore nero di Berlino, con la lotta vincente delle donne di Rosenstrasse; nell’Università di Monaco, con i fratelli Scholl; con la poderosa azione di noncollaborazione, scioperi e boicottaggi messa in atto contro i nazisti dal popolo danese, unico a salvare l’intera comunità ebraica dalla deportazione e dalla morte nel lager; con azioni e scelte nonviolente diffuse in tutto il continente dalla Norvegia all’Italia. Ma la strada della nonviolenza è stata anche l’unica prospettiva di successo contro le brutali tirannie che hanno tenuto sotto scacco e soggiogato per anni, Germania dell’Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria, paesi più d’una volta invasi anche dalle truppe di Mosca ai tempi dell’Unione Sovietica. Popoli che hanno riconquistato libertà e democrazia senza mai richiedere bombe, guerre, azioni armate.
Sulla strada del riarmo, della guerra – addirittura della minaccia nucleare – si tenta invece di cancellare questi percorsi fondativi dell’Europa che hanno contribuito in maniera determinante alla caduta del muro di Berlino. Si vuole rimuovere la resistenza polacca, ceca, slovacca, gettare nell’oblio Vaclav Havel, gli scioperi di Danzica, gli studenti di Praga. Una strada che vuole fare piazza pulita di quel “potere dei senza potere” che è stato il lascito più significativo di quella stagione e che ha fatto cadere quei regimi senza bisogno della forza militare.
Solo una cecità politica e intellettuale, e una irresponsabilità senza limiti, può dare spiegazione, e accettare l’adesione, a questa nefasta prospettiva.
In molte prese di posizione di settori certamente democratici è chiaro il no al riarmo, la contrarietà netta alla scelta della guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti e la spinta decisa per intraprendere la strada del dialogo, della diplomazia e della mediazione tra punti di vista e interessi divergenti. Tuttavia spessissimo manca l’elemento fondamentale per dare a quelle prese di posizione una prospettiva credibile, e praticabile: la forma di lotta attraverso cui opporsi, sia in pace sia in guerra, alla brutalità della forza armata e acquisire il più ampio consenso per raggiungere quegli obbiettivi.
Quel “potere dei senza potere” attorno al quale Havel costruì la sua visione del mondo e la sua scelta politica, a cui Arendt dedicò parte significativa dei suoi studi, ha una storia lunga, nata dalle importanti intuizioni di Tolstoj, sistematizzate da Gandhi in una lotta clamorosa al colonialismo inglese e arrivate fino a noi attraverso centinaia di avvenimenti che hanno cambiato il mondo, dall’America Latina, all’Asia, dall’Europa all’Africa: la lotta nonviolenta.
Non scegliere chiaramente e definitivamente questa strada significa oscillare pericolosamente nell’ambiguità. Ammettere che, in fondo, il ricorso alla guerra può sempre essere possibile in qualche circostanza, che uccidere indiscriminatamente è pur sempre un’opzione praticabile. In questo modo non solo si manifesta l’evanescenza, l’inconsistenza, di quelle prese di posizione, ma si mette a nudo anche la scarsa credibilità e la solidità dei soggetti politici che le sostengono nello spazio pubblico.
In tutte le guerre scatenatesi dal ‘45 ad oggi, offensive o difensive che si definissero, sono morti, a seconda delle diverse stime, tra i 20 e i 30 milioni di uomini e donne, nella stragrande maggioranza civili, lasciando sul campo feriti per un numero almeno triplicato. Nella situazione “migliore” sono restati in essere risentimenti profondi e situazioni di tensione spesso gestite, sempre sull’orlo della ripresa delle ostilità (come nei Balcani), da decennali operazioni militari di peacekeeping, in moltissimi casi hanno dato luogo a situazioni di conflitti militari pressoché cronici (come nella R. D. Congo), in altre, oltre alle immense distruzioni materiali e ambientali, le condizioni per milioni di uomini e donne si sono addirittura aggravate (come ad esempio in Afghanistan).
Procedere al gigantesco piano di riarmo dei singoli stati dell’Unione Europea vuol dire fare un passo avanti verso l’abisso di nuovi conflitti armati anche in ambito continentale. Una scelta, allo stesso tempo potentemente simbolica e concreta, di rinuncia definitiva a quella forza enorme – sul piano del legame profondo tra i popoli europei, fondato sulla solidarietà, l’uguaglianza e la libertà di ogni uomo e ogni donna, sul rispetto della dignità e della inviolabilità di ognuno e di ognuna e su una formidabile capacità di resistenza e di lotta, a partire dalla noncollaborazione con autocrati, antidemocratici, violenti e tiranni – che è il più autentico e significativo fondamento, e lascito, dell’Europa nata sulle ceneri della seconda guerra mondiale.
Dobbiamo opporci in tutti a modi a questa scelta, condivisa incredibilmente da tutte le cancellerie europee, assunta addirittura con un provvedimento d’urgenza, sigillata da queste sconcertanti parole di Von der Leyen “è il momento della pace attraverso la forza (armata)”, che ha chiosato, lasciandoci attoniti, con un irridente e surreale “tutto ciò avrà ricadute positive anche per la nostra economia e la nostra competitività“. Da tempo sono attive reti e organizzazioni, principalmente la Rete italiana pace e disarmo (RIPD) – che raccoglie associazioni come l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e il Movimento nonviolento, assieme a moltissimi altri soggetti locali e nazionali attivi nello spazio pubblico – che stanno lavorando incessantemente per dare forza e credibilità ad un movimento per la pace fondato sull’azione nonviolenta. In uno dei documenti fondativi di RIPD si legge “la nostra sicurezza non dipende dalle armi ma dall’accesso alla salute, all’educazione, alla qualità dello sviluppo, alla distribuzione della ricchezza prodotta, al rispetto della biosfera, (…) i nemici da sconfiggere sono le povertà, la corruzione, l’illegalità, lo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta, la violenza, l’inquinamento dell’atmosfera e degli oceani“, richiamando quella “continua lotta” evocata da Aldo Capitini, per raccogliere il più ampio consenso in vista del raggiungimento di quegli obbiettivi.
Dobbiamo cercare, in questo momento cruciale, di dare una spinta ulteriore a questo importante lavoro. Individuare credibili percorsi di noncollaborazione indirizzati verso quei soggetti (politici, economici, sociali, culturali) che direttamente o indirettamente appoggiano e sostengono politiche di guerra e di riarmo, percorsi che progressivamente possano ampliarsi fino a iniziative di boicottaggio, disobbedienza e resistenza a mani nude. Dobbiamo ampliare il consenso, attorno a questo percorso, al numero più ampio formazioni e associazioni partitiche e sindacali (lo sciopero è una delle forme più importanti di lotta nonviolenta), di organizzazioni non profit e del terzo settore, di centri educativi, di cura, di assistenza sociale e solidale. Parallelamente tenere sempre aperti tutti i canali di dialogo con i soggetti che invece sostengono politiche di guerra e riarmo. Il lavoro di convincimento dell’avversario è altrettanto fondamentale quanto quello della lotta, sia per spostare concretamente il consenso popolare e democratico verso posizioni pacifiste e nonviolente, sia per non trasformare – mai, nemmeno se fosse il peggiore criminale di guerra – chi ci sta di fronte in un feticcio extraumano, accogliendo l’insuperabile lezione di Leonardo Sciascia nel suo capolavoro “Porte aperte”.
L’Italia ha un ruolo cruciale in questo momento storico. Consentire a queste irresponsabili scelte guerrafondaie significherebbe il definitivo seppellimento dell’eredità antifascista e della resistenza al nazismo, l’accartocciamento e lo strappo efferato della Carta Costituzionale e di quell’articolo 11 nato proprio dalla consapevolezza, profonda e lacerante, di chi aveva imbracciato le armi tra il ’43 e il ’45, che non sarebbe mai più stato possibile rivivere l’incubo e l’orrore della guerra, ripercorrere la strada di liberarsi uccidendo, accettando l’assassinio indiscriminato di bombe, droni e cannoneggiamenti, brutalizzando vite di uomini e donne. Violentando il prossimo, nel corpo e nel respiro.
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La parola DIPLOMAZIA è caduta in disuso?
Mi chiedo se l’arte del trattare, a cui io credo, non possa essere utilizzata.
Voi che dite? 🌸
La Von der Leyen, signora della guerra, è anche il “prodotto” delle democratiche elezioni europee del 2024. Un fatto da non dimenticare.