Da Benjamin a Bloch, passando per molti altri e altre, l’ottimismo, soprattutto dopo Auschwitz, non è più sinonimo di speranza. In tanti casi ne è il contrario, perché può associarsi a un’accettazione più o meno consapevole dello status quo. Tuttavia restiamo sempre aperti al cambiamento profondo: anche nei momenti più difficili siamo “ciò che non siamo ancora…”. Un testo tratto dal libro Speranza. Passione del possibile (di Guido Gili ed Emiliana Mangone), prova a rintracciare i caratteri propri della speranza – esplorando letteratura e storia dell’arte, scienze umane e sociali – e a rispondere alla domanda: in un tempo buio come quello che viviamo la speranza può essere la passione del possibile?


Nella riflessione filosofica la più famosa espressione di una visione ottimistica è rappresentata dalla filosofia di Leibniz, anche se un orientamento ottimistico è già presente per taluni aspetti nella filosofia platonica e aristotelica e soprattutto nel pensiero cristiano che, a partire da Agostino d’Ippona, si è posto il problema di conciliare la bontà e l’onnipotenza del Creatore con il male e la sofferenza presenti nel mondo (il cosiddetto problema della “teodicea”). Una delle più famose e influenti risposte a questo dilemma è proprio la visione di Leibniz per cui tra i tanti mondi possibili presenti nella mente di Dio, il mondo umano reale è il migliore, nel senso che presenta il migliore equilibrio possibile tra bene e male, visione diventata il bersaglio della satira di Voltaire nel Candide, che all’ottimismo di Leibniz contrappone la tragedia del devastante terremoto di Lisbona del 1755 che causò la morte di oltre centomila persone.
Dopo la complessa stagione dell’Illuminismo in cui, come abbiamo visto nel primo capitolo, prevale una visione ottimistica legata alle idee di perfettibilità umana e di progresso, una nuova potente, per quanto discutibile, immagine della teodicea è fornita dalla visione hegeliana della storia. Come annota ancora Ricoeur, l’«astuzia della ragione», di cui parla il filosofo tedesco nelle sue Lezioni di filosofia della storia, è forse «l’ultima astuzia della teodicea». Lo «spirito del mondo» (Weltgeist), che si incarna di volta in volta nello «spirito di un popolo» (Volkgeist) che fa da guida e da battistrada allo sviluppo della civilizzazione umana, si serve delle passioni e degli interessi dei grandi uomini che fanno la storia per perseguire i suoi fini, per poi abbandonarli sul ciglio della strada come gusci vuoti quando essi hanno svolto il loro compito. Ma l’astuzia della ragione si serve allo stesso modo, e ancor più impietosamente, degli innumerevoli uomini comuni che lavorano, costruiscono, lottano tra loro, si agitano sotto il sole perseguendo i loro obiettivi e le loro speranze. Il «particolare», cioè ogni persona o gruppo, ha il suo interesse nella storia del mondo, si spossa combattendo contro altri «particolari» e va in rovina, ma attraverso la lotta e il venire meno del particolare, avanza e si afferma l’«universale». Essenzialmente ottimistica è anche la filosofia dialettica di Marx, che si ripropone di «rimettere in piedi» la filosofia che in Hegel poggiava sulla testa, e quelle evoluzionistiche di Comte e Spencer.
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Questa visione essenzialmente ottimistica che ha caratterizzato i secoli XVIII e XIX ha dovuto però fare i conti con le tragedie del XX secolo. Come ha osservato in modo impietoso Theodor W. Adorno nella sezione sulle Meditazioni sulla metafisica nella Dialettica negativa, dopo Auschwitz il pensiero si ribella a ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo. Auschwitz rappresenta nel campo del sociale ciò che alcuni secoli prima il terremoto di Lisbona ha significato nel campo dei fenomeni naturali e dimostra in modo inconfutabile il fallimento dell’ottimismo dell’interpretazione illuministica e romantica della storia. Proprio nel pensiero dei filosofi testimoni degli eventi della prima parte del XX secolo emerge anche la consapevolezza del fatto che l’ottimismo possa sconfinare nella rassegnazione e nell’inerzia morale. Per questi autori infatti l’ottimismo non è sinonimo di speranza, ma in molti casi ne è l’esatto contrario, poiché esso può associarsi a un’accettazione più o meno consapevole dello status quo. A questo proposito, Walter Benjamin afferma che la confutazione di ogni «ottimismo dilettantistico e senza principi», che predichi acriticamente la riconciliazione tra individui, classi e nazioni, è un presupposto essenziale del cambiamento politico.
Una teoria filosofica del XX secolo che invece può essere inscritta tra le filosofie della storia ottimistiche nel senso indicato da James, è la filosofia della speranza del filosofo marxista Ernst Bloch, che abbiamo più volte richiamato nei capitoli precedenti. Per Bloch l’uomo è un ente essenzialmente aperto al futuro poiché per sua natura è «ciò che non è ancora». La speranza di cui l’uomo è costituito non può ottenere però una completa realizzazione. Ogni conquista personale e ogni conquista dell’umanità nel suo faticoso cammino non è mai un traguardo definitivo, ma è sempre una tappa parziale che induce a perseguire una nuova e ulteriore speranza. In tal senso, per Bloch, la speranza, anche quando, come nel suo caso, è una tensione verso una più giusta città secolare illuminata dal sole della razionalità umana, ha un carattere religioso ed escatologico, implica sempre un “oltre”.
Questo testo è tratto dal libro Speranza. Passione del possibile di Guido Gili ed Emiliana Mangone, per gentile concessione dell’editrice Vita e Pensiero, dal capitolo intitolato “La speranza generalizzata”.
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Eccomi!è la seconda volta che ci provo, ma il testo scompare quando invio. camminiamo insieme fin dall’inizio. Mi fermo qui. Da quando l’appello alla SPERANZA è arrivato così necessario e generoso di contributi e riferimenti biblio, sto costruendo un ” dossier” che oltre che indispensabile per me, porto nella mia vita di attivista e sto inviando alla rete delle mie amicizie nel mondo. insieme ancora!
un abbraccio europeo e planetario
Grazie Celeste.
Speranza, coscienza, comprensione del reale per costruire il nuovo… Ogni giorno cerco parole che contrastino la deriva violenta, arrabbiata e indifferente. Lo spazio e’ sempre piu’ risicato, ma mi rendo conto che non serve piangere e lamentarsi, ma e’ indispensabile tenere accesa una piccola luce ogni giorno, con le parole e i comportamenti, con le scelte quotidiane, quelle banali del fare la spesa, o quelle di dove informarsi e che cosa leggere.. e poi contenere il dolore dentro il cerchio della vita, e farsi guidare da esso a comprendere e sentire il dolore del mondo… vi scrivo a parte la mia adesione ed una riflessione ricordando anche Mario Palmieri, che e’ venuto a mancare l’8 agosto scorso.
Già, il dolore. Qualcosa che non si può condividere davvero. Ma il desiderio di condividere il dolore, ha scritto John Berger, sì che può essere condiviso. E da questa azione, inevitabilmente inadeguata, sorge una resistenza. Grazie Nicoletta.