L’ultimo rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, presentato a Glasgow, parla di oltre 30 milioni di persone costrette alla fuga da cause ambientali, il 98% da attribuire ai cambiamenti climatici: desertificazioni, tempeste, alluvioni, ecc. Sono i cosiddetti “migranti climatici”, ma definire questa categoria per inquadrarla in un sistema di tutele è un’operazione scivolosa. Quando arrivano da qualche parte, quei migranti sono soggetti solo al consenso dei singoli paesi che li ricevono e non risultano protetti da nessun segmento del diritto internazionale. Il clima non può “perseguitare” qualcuno, secondo la Convenzione di Ginevra. Pertanto, salvo eccezioni rarissime, dopo un’attenta analisi, quelle persone vengono rimpatriate in territori ostili alla sopravvivenza; oppure rimangono, per esempio in Europa, senza identità, condannate a lavori in nero, sfruttamento, impossibilità di rivendicare diritti. Sotto l’articolo di Rossella Marvulli, uscito su Melting Pot, che dal 13 dicembre avrà un sito ancora più bello, si può scaricare l’intero rapporto e leggere l’articolo di Anna Brambilla che chiede l’istituzione di un nuovo diritto
Alla ventiseiesima Conferenza delle Parti dello scorso novembre, complice il coinvolgimento attivo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, il tema della mobilità dovuta alla crisi climatica ha occupato un posto centrale.
L’11 novembre, penultimo giorno della Conferenza, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha pubblicato Mid-Year Trends, l’annuale rapporto [1] che monitora le tendenze delle migrazioni avvenute nella prima metà dell’anno. Il rapporto ha mostrato un aumento dei migranti rispetto al 2020: sempre più persone fuggono dalla violenza, dall’insicurezza e dagli effetti del cambiamento climatico.
Stando ai dati dell’IDMC’s Global Report on Internal Displacement del 2020 [2], se guerre e conflitti hanno generato 9.8 milioni di migranti all’interno dei singoli paesi, le cause ambientali ne hanno generati 30.7 milioni: i tre quarti della totalità. Più del 98% di queste sono dovute a rischi relativi ai cambiamenti climatici, come tempeste e alluvioni, e si concentrano in Cina, Filippine, Bangladesh, India e Stati Uniti (quella piccola parte restante si deve a cause geofisiche, come eruzioni vulcaniche, terremoti e simili).
Aree con il maggior numero di nuove migrazioni nel 2020 © Internal Displacement Monitoring Centre
I disastri climatici degli ultimi anni riscrivono l’emergenza umanitaria; nella nuova equazione, il clima diventa un fattore di fuga sempre più preponderante, dagli uragani abbattutisi in Sud America alla progressiva desertificazione del Sahel alla salinizzazione del Bangladesh. Un numero crescente di popolazioni è forzato a varcare i confini dei propri paesi d’origine: persone cui il cambiamento climatico ha strappato via la terra.
Spesso le conseguenze sono a lenta insorgenza, su territori già economicamente e politicamente fragili: quando queste persone si affacciano in Europa, la loro fuga è un guazzabuglio di concause difficile da districare.
Definire questa categoria per inquadrarla in un sistema di tutele è un’operazione scivolosa; il linguaggio della giurisprudenza, nella pretesa di circoscrivere, resta inchiodato dalla complessità: chi sono i migranti climatici?
Che si muovano per disastri naturali istantanei o a lenta insorgenza, i “migranti climatici” che giungono ai nostri confini sono attualmente soggetti solo al consenso dei singoli paesi che li ricevono – i quali mettono in atto misure provvisorie e disomogenee per accoglierli o rimpatriarli – ma non risultano protetti da nessun segmento del diritto internazionale. Nella Convenzione di Ginevra del 1951, trattato fondamentale per la definizione giuridica dei rifugiati nelle Nazioni Unite, un rifugiato è tale se corre il rischio di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a determinati gruppi sociali o politici.
Dato che le ragioni ambientali non rientrano tra questi criteri, i “migranti climatici” – pur fuggendo dagli stessi mostri: conflitti scatenati da risorse insufficienti, lotta per la sopravvivenza – non rientrano nei circuiti dei rifugiati. Forse qualcuno ce la fa: grazie a una corrente gentile riesce a ottenere qualche forma di protezione statale aggrappandosi a deboli ganci giuridici. Ma i più, dopo un’attenta analisi, vengono rimpatriati in territori ostili alla sopravvivenza; oppure rimangono in Europa senza identità, condannandosi in quella zona grigia ai recessi della società: lavori a nero, sfruttamento, impossibilità di rivendicare dei diritti.
Dotati come siamo di passaporti e carte d’identità, noi cittadini europei non facciamo caso alle implicazioni sostanziali dell’identità legale. L’identità legale riconosce le persone come portatrici di diritti e degne di tutele statali: l’accesso ai servizi essenziali e alle cure, il permesso di permanere in un certo territorio dell’Unione. Chi ne è privo, agli occhi dello Stato non c’è. La sua esistenza si perde come un’impronta sulla sabbia. È questa la contraddizione che grava sui migranti climatici: le istituzioni non li riconoscono, eppure sono lì. Con il loro corpo, un’identità personale, una memoria storica, un universo di significati privati.
Che la questione sia centrata sul riconoscimento giuridico lo ha ribadito di recente Anna Brambilla, membro dell’Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione. “I migranti climatici”, osserva l’avvocata, “hanno bisogno di un nuovo diritto”. [3]
Nei prossimi anni le migrazioni sono destinate ad aumentare, e la causa ambientale inciderà sempre di più. A meno di costruire muri senza buchi intorno a tutta l’Unione Europea, una regolarizzazione giuridica che normalizzi questa categoria diventerà essenziale.
NOTE
[2] IDMC | GRID 2021 | 2021 Global Report on Internal Displacement
[3] Chi migra per i disastri climatici ha bisogno di un nuovo diritto casacomunelaudatoqui.org
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