Con l’esplosione dell’emergenza sanitaria è tornato imperioso il tema della casa, della città, delle “aree interne”, in una parola, dell’abitare. Per affrontarlo in modo diverso, dovremmo prima di tutto riconsiderare la molteplicità di significati che la casa rende espliciti. Dovremmo ricordarci che prima della rivoluzione industriale conoscevamo i luoghi, gli agenti naturali, i cicli stagionali; conoscevamo i materiali e le tecniche; sapevamo quando e come dare il tempo agli ecosistemi di rigenerarsi per esserne rigenerati. Dovremmo anche guardare ai saperi di altre comunità del mondo, per toccare con mano visioni spesso ribaltate sul significato di dimora, sui processi costruttivi e sull’utilizzo dei materiali, sul rapporto dentro/fuori e sulla condivisione degli spazi. E dovremmo, infine, anche riscoprire l’importanza dell’autocostruzione. Si tratta, ricorda Andrea Staid in La casa vivente, di “immettere futuro nelle cose che si fanno…”
Inoltrarsi nel nuovo libro di Andrea Staid (*), La casa vivente [1], è un po’ come aprire la porta della cucina ed essere investiti dal profumo di pane appena sfornato. E allora ti blocchi un attimo, perché quello che stai sperimentando ha radici ancestrali, sta risvegliando memorie non già del passato, ma del tuo essere profondo. Quell’essere bipede e arguto che ha camminato sul pianeta con competenza di specie, con immaginazione e abilità, occhieggia sulla soglia. Dov’è finito quell’uomo? E che senso ha parlarne ora?
Allo scoppio dell’emergenza sanitaria è ritornato imperioso il tema della casa, della città, delle “aree interne”, in una parola: dell’abitare. In effetti, le crepe sistemiche intorno al disagio abitativo si sono aperte in voragini. Tutti ne parlano dalle rispettive posizioni. Raramente, tuttavia, prima di porsi domande sul “come/dove abitare”, ci si interroga sul “chi abita”. L’auspicata attitudine maieutica che, secondo Louis Kahn, dovrebbe accompagnare la riflessione sull’architettura (e il suo farsi) appare diffusamente ingessata: incapace di porsi domande sull’uomo, artefice e destinatario dell’architettura stessa, sulla sua ontogenesi e il suo posto ecologico, prima che sulle soluzioni tecniche e tecnologiche.
Per questo, anche nel campo delle trasformazioni antropiche dell’ambiente (domestico, urbano, rurale) trovo fondamentale lo sguardo etnoantropologico. Il testo di Staid – il cui titolo indica il compimento di un lungo percorso intellettuale e personale che lo conduce all’autocostruzione della propria casa – è denso di argomenti e riferimenti, non mancando mai di scorrevolezza e chiarezza.
Il punto di partenza è il suo lavoro sul campo come antropologo, che lo porta in giro per il globo – dall’Europa al Medioriente, dal Laos al Perù, dal Vietnam alla Mongolia – a contatto con culture native e modi diversi di stare nel mondo e di relazionarsi ad esso [2]. Da qui l’incontro con quelle che (noi) chiamiamo architetture vernacolari, o meglio spontanee. Da qui la comprensione che fare casa (non avere casa) è un’azione naturale, come ogni altra capacità umana di rispondere a un bisogno primario.
Ma qual è questo “bisogno primario”? Certo, la necessità di un riparo, di un luogo protetto. Ma dovremmo riconsiderare la molteplicità di significati che la casa rende espliciti: la casa come cellula base situata di organizzazione sociale; la casa come luogo di relazione e autopercezione; la casa come camera di condensazione di funzioni simboliche ed esistenziali, come “dispositivo cognitivo” (citando Matteo Meschiari, p. 73), espressione della capacità di “dare coesione spirituale ai bisogni materiali e psicologici di chi la abita” (p. 44) [3].
Lo sguardo etnoantropologico (dell’altro-altrove) ed evoluzionistico (del tempo profondo) funge da specchio: “serve a ripercorrere le origini degli edifici contemporanei, così come a comprendere perché spesso non rispondono più ai nostri bisogni” (p.51). Allo stesso modo, rispecchiarci in altre culture (le più altre possibili, come quelle indigene) serve a “spaesarci”, a guardarci con i loro occhi, a decolonizzare il nostro immaginario, lasciandolo libero di creare possibilità, e a relativizzare la nostra postura monodimensionale antropocentrica.
La decolonizzazione riguarda anche l’immaginario del progetto e la postura del progettista, comunemente inteso. Esiste un approccio al processo progettuale e costruttivo condiviso e aperto alle variabili, che segue il naturale evolvere e divenire delle relazioni: giacché progettare è prima di tutto un fatto relazionale e nelle relazioni serve empatia. Nel caso di altre culture, tocchiamo con mano visioni spesso ribaltate sul significato di dimora e pratiche abitative, sui processi costruttivi e l’utilizzo dei materiali, sul rapporto dentro/fuori e di condivisione di spazio e tempo, sul confluire di domestico e sociale.
Queste prospettive – nel loro concepirsi in termini di compartecipazione di comunità multispecifiche, in termini di condivisione dei luoghi e dei gesti quotidiani – non pongono a critica soltanto il concetto di casa-macchina di Le Corbusier, ma anche quello di terza pelle di Karl Ernst Lotz, se lo intendiamo come ulteriore strato di separazione/esclusione, anziché come la “meta-persona che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti” (p. 46), come la membrana osmotica che comunica e interagisce con l’esterno. Ecco che, allora, si possono risignificare anche il paesaggio e le regole diplomatiche di un territorio densamente condiviso: il giardino, l’orto, il fuori dell’alterità non è che un’altra “stanza” della casa, dice Staid, con cui entrare in dialogo, nel rispetto del suo essere non-domestica, e in cui sperimentare dialetticamente “l’abitare e l’andare” (citando Franco Remotti, p. 22) [4].
Bello, ma cosa fare in pratica? Staid ci spiega che risignificare, sulla base di queste visuali, ha proprio lo scopo di suggerire applicazioni pratiche: non si tratta di riproporre tout court qui, oggi, sistemi costruttivi a noi alieni nel tempo o nelle geografie, bensì di “ibridare” le conoscenze attuali recuperando quelle tradizionali (che sono ancora molto vive in altre culture). Ma soprattutto mutare l’approccio da muscolare a cooperativo, dove la cooperazione non attiene solo alla comunità umana ma a tutto il vivente da cui attingiamo le risorse. E, in quest’ottica, ri-sperimentare competenze che ci appartengono da sempre: l’autocostruzione familiare è “innata”, un tratto adattivo di specie, abbiamo sempre costruito fino a soli due secoli fa.
L’autore ci ricorda che prima della Rivoluzione industriale conoscevamo i luoghi, gli agenti naturali, i cicli vitali e quelli stagionali; conoscevamo i materiali e le tecniche; sapevamo quando e come dare il tempo agli ecosistemi di rigenerarsi; sapevamo che la casa è un “organismo” che può essere sano e può ammalarsi, che pertanto è in un processo costante di mutamenti. Si tratta di ricomporre la frattura tra costruire e abitare prodotta dal neoliberismo, dal suo rendere la casa una merce di scambio anziché un bene d’uso, dalla sua invenzione di “esperti” e di gabbie burocratico-normative che inibiscono il nostro saper fare. Per Franco La Cecla (citato a p. 94) [5], quando ci viene impedito di modellare i nostri spazi, si parla addirittura di “lobotomizzazione”, laddove veniamo deprivati di una parte cognitiva della nostra “mente locale” che, nel suo compenetrare l’ambiente, ci garantisce competenze essenziali.
Il testo propone esempi molto concreti in questa direzione, sia all’estero che in Italia. Qui, le esperienze nate in centro Italia dopo il sisma del 2016, sono particolarmente significative: come il caso dell’associazione A.R.I.A. Familiare che ha avviato cantieri in autocostruzione dove “(…) architetti, ingegneri, progettisti, artigiani, donne e uomini che insieme hanno pensato di dare una risposta reale” (p. 75). Soluzioni ecologiche e rigenerative, fuori dalle logiche della disaster economy, che diventano pratiche sociali costruite dal basso e che si radicano nel mutuo appoggio e nella condivisione, “come terza logica da affiancare al dono e all’interesse individuale” (p. 131). Tra le faglie divaricate dalla pandemia c’è, infatti, anche quella della socialità, della dimensione collettiva. Nella concezione dell’autore la casa è proprio questo: un nodo attorno cui costruire il collettivo. Ecco un altro punto cruciale del saggio: slegare l’ecologia dal sociale è “uno specchio per le allodole esattamente come la green economy” (p. 99).
Molti esempi riguardano anche le nostre abitudini quotidiane di consapevolezza e gestione dei consumi, degli spostamenti, dei rifiuti, dell’autoproduzione del nostro cibo e beni di necessità; prevedendo anche la possibilità di mettere in comune disponibilità (banche del tempo) oppure oggetti e strumenti ad uso collettivo (banche degli oggetti). Come ci insegna la Permacultura: ogni nostro gesto è un processo di cura reciproca, di coesione sociale tra comunità differenti (umane e non). Ma sono parimenti gesti di emancipazione: l’autogestione, l’autoproduzione e l’autocostruzione della propria casa (che non implica rinunciare all’affiancamento di professionisti) ci mettono nella condizione di reimparare a immaginare e a realizzare. Importanti, in questo senso, i riferimenti a Tim Ingold sul potere dell’immaginazione e sull’agency dei materiali e degli oggetti [6].
Soprattutto, Andrea Staid racconta di come ha messo in pratica il suo pensiero e ciò che ha imparato, come ha fatto esperienza in prima persona del suo “fare luogo” sulle colline liguri, in cui autocostruisce e autoproduce, in cui ha scelto di darsi il ritmo e il passo della propria vita: perché la casa “non è solo stare ma anzitutto esserci” (p. 97) e “produrla non è tanto un assemblaggio, quanto una processione” (p.31) un flusso, potremmo dire, di apprendimento continuo e costruzione incessante.
Ripensare l’abitare, come metonimia e pratica del vivere nel vivente – con lo sguardo al passato di specie, con la conoscenza cosmogonica di altre culture, con l’esperienza di altri modi di stare nel mondo (e ripensando criticamente al ruolo spesso connivente degli operatori del costruito) – ci apre alla possibilità di riequilibrare l’impatto antropico sul pianeta, di alleggerire il nostro modo di viverlo e reimmaginare come abitare una casa, una comunità, la terra stessa.
Sin qui, potrebbe essere il racconto di interessanti ricerche e di belle e singolari esperienze. Vorrei sottolineare che non è così: il valore de La casa vivente va in una direzione precisa.
Innanzi tutto perché, spronandoci a ripristinare competenze (almeno) di sussistenza, ci stimola a uscire dall’infantilismo adulto (di cui parla Paul Shepard nel suo Natura e Follia) e dall’assistenzialismo atomizzato cui ci hanno abituati, cronicamente incapaci di provvedere a noi stessi senza un centro commerciale o un “esperto” a portata di mano; incapaci di gratuità e di dono, di riconoscerci parte di una comunità multispecifica in cui praticare cura.
Ma è soprattutto il suo valore di antidoto al catastrofismo, che non è, come molti credono, l’attitudine a guardare in faccia e testimoniare dello stato di collasso in cui siamo entrati: catastrofismo è la cecità nell’immaginare e ricercare possibilità alternative; catastrofismo è rassegnarsi al pessimismo e all’inerzia; è l’ostinato aggrapparsi a un modello di crescita infinita che sta mostrando il suo fallimento; è il rifiuto di praticare modi ecologicamente compatibili di stare al mondo.
Sgombrato il campo dalla visione cinica, nichilista o negazionista, dobbiamo ragionare in termini di sopravvivenza collettiva, perché il pianeta se la cava da solo, in un modo o nell’altro, noi no. Assieme al collasso ecosistemico, sta crollando la sbornia neoliberista con i suoi miti, tra cui quello del primato della turbo-finanza e dell’iper-tecnologia come uniche risposte ai disastri. Ma non è che un’altra bolla illusoria, un escapismo deresponsabilizzante.
Dobbiamo immaginare in che modo renderci antifragili per affrontare adattamenti inevitabili. Più dipendiamo e più aumenta la nostra vulnerabilità. Siamo una specie estremamente plastica: ci serve ritrovare competenze diffuse, capacità di attivare comunità attraverso modelli di mutualità non gerarchici, di ravvivare il desiderio di ripristinare quella speranza attiva che apre a domani possibili col respiro delle generazioni. Per fortuna c’è chi, come Andrea Staid, pensa e spiega come compiere passi concreti su questo cammino, come “immettere futuro nelle cose che si fanno nel presente”.
* Andrea Staid è docente di antropologia culturale e visuale presso la NABA di Milano, direttore della biblioteca/antropologia Meltemi editore, co-direttore di Field work-travel writing Milieu edizioni (questo il suo blog, nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui)
[1] La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire, 2021, ADD editore.
[2] Esperienze di cui parla in un altro suo libro Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in occidente, 2017, Milieu edizioni.
[3] M. Meschiari, Disabitare. Antropologia dello spazio domestico, 2018, Meltemi editore.
[4] F. Remotti in AA.VV., Le case dell’uomo. Abitare il mondo, 2016, UTET
[5] F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 2020, Meltemi editore
[6] T. Ingold, Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, 2019, Raffaello Cortina editore.
Rebecca Rovoletto è attivista territoriale, architetta e ricercatrice indipendente. Co-fondatrice dell’associazione Ecotòno.
PIERA dice
Il vostro attualissimo e coinvolgente commento sull’abitare oggi, ha richiamato un documento che in tempi non sospetti ho potuto realizzare di cui, vi accludo copia :
MAGIONE di
LA MIA MAGIONE LACRIMA..TRASUDA UMIDITA’ INTRISA DI DOLORE ESSA ..M’ INTERPRETA…QUANDO SORRIDE STANCA
O PER OGNI CONTESA …POVERA IN QUALITA’ E RIPRESA .
E’ GESTITA AL SOLLIEVO ED AL TEPORE DA UN CONDIZIONATORE
CHE CLIMATIZZA ENTRAMBE…O DA SAPIENTI INIEZIONI…
NE CANALIZZANO LE IDRICHE ESCURSIONI .
RISPETTO ALL’ ALTRE ESSA E’ IN COSTANTE RIPRESA…VIRTUOSA, CIRCOSPETTA,COMPLICE MA… PROTETTA, NIDO E SEDE DI GIUSTE RIFLESSIONI, CULLA
E RITIRO PER INTIME EMOZIONI….
ALL’OCCASIONE S’ESTENDE…CON RISPETTOSA ATTENZIONE
D’OGNI MIO MUTO INTERCALARE, COSTRETTA TRA RIVALI APPARISCENTI,
PRIVI DI CONTENUTO E DI MOVENTI ….ed aggiungo analisi della mia banca del tempo attivata al comune di Napoli in sez. Avvocata nell’anno 2009 :
BANCA DEL TEMPO NAPOLETANA.UN PROGETTO DI
OSSIA: FUGA DA OGNI CONSUMISMO DI TIPO IMPOSITIVO .
LA BDT E’ UNA PROPOSTA RIVOLTA A TUTTI I CITTADINI SENZA DIFFERENZE DI SESSO, CLASSE, CULTURA O ETA’ PER CHE, ABBRACCIA PIU’ SETTORI DEL SAPERE E DEL FARE ALLA PORTATA DI OGNI INDIVIDUO CAPACE E VOLENTEROSO, IN GRADO DI OFFRIRE, APPRENDERE, OPERARE ED INSIEME COMUNICARE COI SUOI SIMILI .
CON LA BDT OGNI NOSTRA NECESSITA’ VIENE RICOMPENSATA DA UNA EQUIVALENTE, IN UN INFINITO QUANTO FATTIVO, ECONOMICO E PERPETUO SCAMBIO DI PRESTAZIONI CHE, NELL’ARCO DELL’ANNO SOLARE TROVANO LA LORO COMPIUTEZZA.
PER TRASPARENZA DI GESTIONE LA BDT PROVVEDE AD ARCHIVIARE COPIA DI TITOLI E DOCUMENTI PER L’IDENTIFICAZIONE DEI PARTECIPANTI AGLI SCAMBI A GARANTIRE, AGLI ASSOCIATI, TRANQUILLE E RISPETTOSE
TRATTATIVE.
POI CHE UN SIMILE TIPO DI BANCA SI DISTINGUE DALLE ALTRE PER CHE, PRIVA D’OGNI MOTIVO DI LUCRO, POTREBBE RAPPRESENTARE VALIDA RISORSA A LIVELLO CIRCOSCRIZIONALE E, RACCOGLIERE DOVE POSSIBILE, INCENTIVI ECONOMICI O, D’ALTRA NATURA, DALLE RELATIVE MUNICIPALITA’ CHE FOSSERO COINVOLTE NEL PROGETTO