Al tempo del virus chiamato capitalismo, che insegna a trattare i corpi delle persone che se ne vanno come fossero rifiuti, soprattutto se vecchie e malate, è nella vita di ogni giorno che possiamo cercare qualche via d’uscita: nei gesti di una “badante”, nelle attenzioni di qualche vicino di casa, tra i compagni di viaggio su un autobus della periferia romana, perfino nelle parole di una fioraia che si difende dall’ossessione del profitto. Un meraviglioso racconto di Ascanio Celestini. «“Ciao bella, che te do? I crisantemi?” chiede. “No. Mamma è morta in aprile, compro le margherite!” jé fa. “Non le vendo, bella mia” fa la fioraia, dice che le usa solo come guarnizione. “Non posso vendere un fiore che vado a raccogliere gratis in mezzo al campo” e indicando la strada di terra che corre accanto al cimitero gira attorno alla bancarella s’incammina…»

Penso che il fioraio dovrebbe restare aperto. Non faccio polemica. Se danno il permesso di aprire al tabaccaro, perché dovrebbero vietarlo alla bancarella dei fiori davanti al cimitero? Infatti apre lo stesso pure se arrivano le guardie a intimargli la chiusura.
L’ho vista io.
Ci sono stato insieme alla rumena. Abbiamo accompagnato la figlia della signora Ventisini. Morta dopo cinque giorni di febbre, curata a casa dal medico di famiglia che dava istruzioni per telefono.
“Se il medico non viene a casa è una buona notizia – la tranquillizzavo io – vuol dire che non è Coronavirus. È ancora stagione di influenza, no? Se sale la febbre basta prendere la tachipirina. Lo vede che c’hanno ragione in televisione quando dicono che ci dobbiamo vaccinare? Il prossimo anno lo faccio pure io. La fermata del 507 sta qua all’angolo dell’Anagnina. Ci mettiamo seduti con l’anima in pace e portiamo pazienza perché l’autobus fa il giro lungo per le strade strette dei lotti. Ci mette un secolo, ma è sempre vuoto. Andiamo tutti e tre insieme al Policlinico per farci l’iniezione”.
E lei “è una puntura sul sedere? Perché io c’ho sempre avuto l’ansia per quelle. Perfino quando me faccio l’analisi del sangue mi devo stendere sul lettino sennò me sturbo”.
“No, è una puncicatina sul braccio – gli ho detto per sminuire – non se sente niente, ma non è obbligatorio farla”.
E visto che gli davo chiacchiera solo per distrarla e prenderla a ridere gli ho fatto “Sa che le dico, invece? Niente vaccino! Speriamo che il prossimo inverno ci prende una bella influenza. Con la scusa della costipazione ce ne restiamo a letto per un po’ di giorni a vederci le serie televisive del canale a pagamento”. Ho detto proprio così.
E invece c’aveva ragione lei, tanto che mo’ mi sento in colpa. La stanchezza che si sentiva addosso la signora Ventisini, la madre, non era l’influenza. Però sminuivo la faccenda perché si cerca sempre di non pensare a male. In fondo vedevo che il dottore nostro non veniva manco a visitarla di persona e questo mi tranquillizzava.
Io lo conosco da parecchio quel medico. La so bene la serietà che porta. Nessuno la nega. Serve tutti lui al condominio. È uno che se lo chiami pure alle tre di notte scende dal letto per venirti a misurare la febbre. C’ha ancora il termometro che si sgrulla sbattendo la mano, quello di vetro che quando si scoccia scappano fuori tutte le pallette di mercurio. Viene a fare la visita pure se lo sa che è più che altro un servizio di compagnia. Ti batte sulla schiena, ti fa tossire, jé dici 33, poi si fa offrire il grappino e dice sempre la stessa premura “questa vecchia ci seppellisce a tutti”. Dice proprio così.
Dunque se un bravo cristiano come lui non è andato a visitare la signora Ventisini significa che non serviva. Così ho pensato dentro di me.
Mó per inquadrarti il tipo ti racconto ‘sta roba. Una volta che è venuto per nostra madre ha fatto la solita cerimonia, ma al momento che se ne stava andando s’è fermato sulla porta. Io me sono pensato che s’era scordato qualcosa tipo le chiavi della macchina o il ricettario. E invece è ritornato dietro. C’ha detto “permettete?” s’è messo a ginocchioni, ha attaccato a pregare e noi gli siamo andati appresso.
Gli ho detto “ma che è? Ce credete pure voi ar Padreterno anche se siete scienziato?”. S’è fatto ‘na risata di cuore che me pareva che jé stava a prendere un infarto. “Se ve pija er coccolone a voi, chi chiamamo?” gli ho detto. E lui “Chiamate er cassamortaro. C’ho il numero segnato sul cellulare”. Non me so’ fatto mai tante risate durante un rosario come quel giorno.
Insomma, per fartela breve, il medico di famiglia per la signora Ventisini non è passato a visitarla. No. Forse ha sottovalutato la questione. O forse, poveraccio, era strapieno di appuntamenti. Con questo parassita che contagia tanta gente non si ferma un attimo, corre a destra e a sinistra e gli squillano tre telefoni. Il suo privato, quello di lavoro e l’altro della segretaria che prende le telefonata solo in studio. Poi lei stacca alle cinque e gli tocca farlo a lui. Ma tutti lo sappiamo che se non ti risponde puoi stare tranquillo che è impicciato per una cosa urgente e richiama lui appena possibile. E infatti l’ho detto e lo ripeto: la signora Ventisini è stata curata per telefono.
In più lei, la figlia, lo cercava poco e niente per non dare disturbo.
“Se non viene a visitare mia madre! – lo giustificava con me – è perché c’ha da curare pazienti più critici. Anche se a mamma sarebbe di sollievo che si presenta per dargli una benedizione”. “La benedizione? Ma non è mica un prete che gli porta l’olio santo” facevo io. Anche se il medico nostro, dopo che l’ho visto recitare il rosario, forse si presta pure a fare ‘sto sacramento dell’estrema unzione.
“Noi siamo praticanti – diceva mezza vergognosa – Davanti all’eventualità della morte ci viene di conforto sapere se è un’ischemia, se è la recidiva del tumore al seno di vent’anni fa o questo contagio cinese che è scoppiato pure in Italia. Le avvisaglie del Covid ormai le abbiamo imparate tutti a memoria dalla televisione. Gliel’ho detto per telefono ar dottore che mamma c’ha i brividi, la febbre, respira male. Ma lui sta tranquillo che se non è l’influenza, forse può essere una setticemia curabile, tanto sono i stessi sintomi”.

Gli ha prescritto le intramuscolo di Migracin. E quella poveretta della figlia della Ventisini che sviene solo a pensà de prendere ‘na siringa in mano s’è rivolta alla straniera che pulisce le scale. Giustamente quella è rumena e come può racimolare due lire ci si butta a pesce. Ma non so’ servite. Anzi, secondo me hanno pure fatto peggio. E in tutta verità devo dire che è stata proprio la straniera a constatare l’aggravamento e chiamare l’autombulanza.
Ci ha detto “signori, io ci ho bisogno di guadagnare, ma non ve voglio rubbà i soldi co’ ste punture. Tanto non jé fanno niente. Questa deve annà al policlinico!”.
Sono arrivati l’infermieri bardati come astronauti. Facevano paura. La figlia l’ha visti e s’è impietrita schiacciata sul muro. Mani sul petto, occhi sbarrati, pareva ‘na fotografia appiccicata sulla parete. Così la rumena s’è occupata di tutto lei. Te lo giuro! E mentre portavano via la vecchia ha staccato la figlia dal muro e se l’è presa sotto braccio. Gli ha detto “saluta mamma, digli qualcosa”. Ha fermato l’infermieri per un attimo “guardatela bene! Salutala!” ha ripetuto perché lo sapeva che poteva essere l’ultima volta che la vedeva.
Il giorno appresso la rumena è venuta presto a bussarmi alla porta insieme alla figlia e c’ha portati alla fermata del 507 pe’ andare al Policlinico, ma era già tardi. La signora Ventisini non era scesa viva dall’ambulanza.
Non ti immagini che ha combinato ‘sta rumena! È una femmina matta, in senso positivo. È proprio ‘no schiacciasassi. Ha fatto il diavolo a quattro. Ha preso pe’ l’orecchie quelli che c’hanno l’associazione dei diritti del malato, ha fatto chiamare una giornalista. Intanto urlava che “una figlia c’ha diritto di sapere come gli è morta la madre. Quella era la donna che l’ha partorita. Non è mica l’ultimo gatto che te svegli la mattina e lo trovi morto nella lettiera de sabbia co’ la bava alla bocca e le zampe all’aria”. Ha detto proprio così con una rabbia tutta confusa anche perché con la foga che c’aveva gli uscivano fuori parole che non erano sempre italiane. E indicando a tutti la poveretta imbambolata ha parlato sbattendo l’indice destro sulla mano sinistra. Ha fatto come una specie d’elenco. Come se ce l’aveva scritto.
“Quella povera donna c’ha il sacrosanto diritto di vedere la mamma sistemata per bene, pulita, truccata, vestita carina. Col velluto nella bara e le corone di fiori. C’ha il diritto di aspettarla arrivare in chiesa dentro alla macchina lunga. Il diritto di accarezzargli la testa, magari dargli pure un bacio, dirgli un’ultima parola anche se non ti sente. È una consolazione starsene li a guardarla mentre arriva qualcuno che ti abbraccia pure se lo fa senza tanto sentimento. Prima o poi riconosci un cugino che ti dice “ci vediamo solo ai funerali e invece dovremmo sentirci per stare un po’ insieme, in allegria”. Tu gli rispondi che è una bellissima idea e che lo farete presto anche se lo sapete tutt’e due che non è vero. Lo sapete che è già un miracolo se vi rivedete al prossimo funerale. Poi finisce la messa, il prete dice Amen, saluti tu’ madre per l’ultima volta, e le pompe funebri se la portano via. Così si fa. Così s’è sempre fatto.
“È disumano non vedere i morti”. Ha detto proprio così.
Io volevo abbracciare la figlia della Ventisini, ma non potevo. Mi tornava di continuo in mente che gli abbracci so’ vietati per arginare il contagio. Manco la mano gli potevo dare. Eppure quella poveretta era talmente consumata e svuotata dal dolore che l’avresti potuta sollevare con la punta di un dito. Una parola qualunque, pure detta male, gli avrebbe asciugata almeno una lacrima. Ma quella parola io non ce l’avevo e l’ho lasciata sola a piangersele tutte fino all’ultima.
In quel mentre so’ arrivate le guardie per trattenere ‘sta rumena perché voleva entrare nella camera mortuaria e portarci dentro a noi e alla giornalista, ma era contro la regola. I medici non sapevano la causa precisa della morte, ma non escludevano che era il Covid. E in questo caso la scienza se la comanda e impone alle forze dell’ordine che non si può avvicinare nessuno.
E li m’è venuto da dire a un poliziotto “manco alla distanza di un metro come quando annamo a fa’ la spesa al supermercato? Manco se poi dopo se lavamo le mani? Se ‘sta regola vale per i vivi, perché non dovrebbe valere anche pei morti?”
Allora la figlia della Ventisini ha trovato un po’ di coraggio, s’è mossa piano piano in direzione della rumena e ha detto a bassa voce “Anna” che poi sarebbe il nome de quella donna straniera, che io non lo conoscevo il nome. Gli ha messo la mano su una spalla. Una guardia ha detto “signora, rispetti la distanza”.
Lei ha tolto la mano, “Anna, portami via” gli ha fatto.
Nessuno di noi ha detto più una parola.
Io ho pensato “questo è il funerale più breve che ho mai visto”.
Tornati al condominio col solito 507 ho fatto le scale con le chiavi pronte in mano. Volevo rientrare a casa il prima possibile. Dico io che se non ci hai la forza di consolare una persona che soffre è meglio che giri i tacchi. Arriverà il momento che la incrocerò per caso e mi verrà in bocca una parola sincera. Spero.

La rumena invece è rimasta a dormire con lei. Per un po’ gli ha fatto proprio da badante perché da un giorno all’altro quella poveretta non era più bona di organizzarsi da sola. Era tanto riservata e non aveva mai chiesto aiuto a nessuno. Si era fatta in quattro fino a che ha campato la madre. Ed era pure ‘na donna che si curava tanto. Badava alla vecchia e pure a se stessa co’ uno scrupolo rigorosissimo. Magari non c’aveva i soldi per il parrucchiere e la tinta se la faceva da sola, ma non gli s’è mai visto un capello bianco. Mai un’ombra de ricrescita.
Poi gli so’ andate via tutte le forze.
La gente parlava alle spalle, insinuava che la straniera ci stava lucrando. Ma invece io so di certo che non ha mai preso un soldo. Ancora oggi dorme nel letto che fu della morta e mangia quello che c’è, ma non si approfitta. Anzi mette la quota sua tanto per la spesa che per l’affitto e le bollette. Vivono come sorelle anche se Anna jé se rivolge sempre dandogli del lei come se stasse a servizio.
Un pomeriggio mi bussa la rumena.
Non mi ricordo che giorno era della settimana perché di questi tempi con la quarantena non distinguo un mercoledì da una domenica, ma ti dico per certo che era l’8 aprile. A casa mia è un giorno facile da ricordare perché era il compleanno di mio padre, ma pure del mitico capitano della Roma, Agostino Di Bartolomei.
Io stavo a sentire la conferenza stampa di Borrelli in televisione, quello della Protezione Civile.
“Pare che i morti sono arrivati a 17669” faccio.
“Nel mondo siamo quelli che stanno pagando più caro” commenta lei, poi dice sbrigativa “Andiamo al camposanto a prelevare le ceneri”.
“Prendo la mascherina” faccio.
E lei “no, non serve a niente”.
“Ma come?” dico io “è obbligatorio”.
“La signora è scesa già con l’ascensore. Va di prescia. Si dia ‘na mossa” dice e mi tira giù per le scale.
Non c’è nessuno per strada. Nessuno. Manco una macchina, un autobus, un motorino. Nemmanco un vecchio o uno straniero in bicicletta.
Ci sta un frustone. Da regazzini li chiamavamo così per via della coda che frustava l’erba. Che infatti li vedevi solo in mezzo all’erbaccia alta. Era la prima volta che lo vedevo disinvolto in mezzo alla strada. Fanno impressione perché so’ tutti verdi e neri, lunghi un metro e mezzo, ma so’ serpenti innocui. Bisce. Mangiano gli insetti.
Arrivati al camposanto la figlia della Ventisini si siede su un muretto.
“Mi gira un po’ la testa” fa, poi se la copre con un fazzoletto perché gli scotta il sole. Dice. Fa un bel respiro e si rialza.
Davanti al cancello ci sta il tizio delle pompe funebri con le ceneri nell’urna, vestito tutto di nero che pare James Bond. Ma lei, invece de andargli incontro “Andiamo a prende’ i fiori” dice. E noi “Va bene”.
Arrivati alla bancarella c’è una donna grossa con le braccia corte. C’ha tante cordicelle appese al collo. Ci tiene le cesoie, le forbici, un rotolo di fil di ferro, la pinzatrice, i nastri colorati. Con un aggeggio in mano che pare un apriscatole leva le spine alle rose. Le gratta via come squame di pesce.
“Ciao bella, che te do? I crisantemi?” chiede.
“No. Mamma è morta in aprile, compro le margherite!” jé fa.
“Non le vendo, bella mia” fa la fioraia, dice che le usa solo come guarnizione. “Non posso vendere un fiore che vado a raccogliere gratis in mezzo al campo” e indicando la strada di terra che corre accanto al cimitero gira attorno alla bancarella e s’incammina. La figlia della Ventisini gli va appresso. E la rumena le segue a ruota. Io guardo James Bond con l’urna in mano, allargo le braccia come a dire “andiamogli appresso pure noi!”.
In fondo alla strada la fioraia sposta una plastica arancione piena di buchi. Quelle barriere provvisorie dei lavori in corso che restano definitive pure quando non ci lavora più nessuno.
Dopo una discesella di sassi, un po’ di muschio all’ombra e tante ortiche, cominciano i prati. L’erba non è manco tanto alta, e la fioraia ha detto bene. È fitto fitto di fiori, di quelli che non si vendono. Che servono di contorno a fiori più nobili. L’aggeggio spinarose se lo ripone nella tasca davanti del grembiale. Con le cesoie comincia a tagliare margherite.
“Metti giù quel vaso” dice la figlia della Ventisini a James Bond. E poi rivolta a tutti noi “datece una mano”.
Quello appoggia l’urna per terra e tutti insieme cominciamo a strappare fiori come ragazzini per la fidanzatina.
“E questi come si chiamano?” chiede ancora lei alla fioraia indicando altre piante fiorite.
“Viole, giaggioli, campanelle” fa la donna “facciamo un bel mazzo. Ce mettiamo pure i piscialletto pe’ mamma tua”
Col fatto che in giro non ci sta nessuno, la città s’è riempita di animali.
“A Roma nord hanno visto i cinghiali e l’istrici” mi dice la rumena.
“Nei canali di Venezia pare che ce stanno i delfini” rispondo io.
“I macachi hanno assaltato il palazzo presidenziale a Nuova Delhi” dice James Bond.
“Qui c’è un albero di nespole” fa la figlia della Ventisini “è pieno di frutti. Dobbiamo ricordarci di venire a raccoglierle ‘st’estate”.
“Avoglia!” risponde la rumena. “E quelli non so’ fichi?”.
E poi rughetta, porcacchia, borraggine e cicoria che la fioraia infila dentro a una busta di plastica che ha tirato fuori dal sinale.
Dalle finestre delle palazzine vicine si affaccia qualcuno. Ragazzini che strillano, qualche vecchia intontita dalle medicine. Si sente la sigla di un telegiornale in lontananza.
“Il comune dovrebbe tagliare tutta quell’erbaccia” dice una donna al marito mentre si smezzano una sigaretta sul balcone, “pare una giungla!”.
E guarda verso di noi, ma nella vastità della campagna dietro al cimitero vede soltanto un prato.
Un prato pieno di uccelli e margherite.
Testo tratto da da “I Parassiti – un diario nei giorni del Covid-19”. Qui la versione video.
straordinari rito civile che porta in primo piano il nostro essere umani.
Bravissimo Ascanio. Coniugare la natura (la primavera) con il rispetto dell’altro (la madre, la fioraia) è da sogno. Bravo.
Grazie. Mi ha commosso molto. Un testo molto autentico, umano, ironico e pieno di vita.
Eleonora
Grazie. La ritualità del lutto nonostante tutto. Celestini apre sempre la serratura dell’anima.
La meraviglia delle parole belle.
Questo racconto è bellissimo!
Brividi…
Grazie Ascanio.
le parole come margherite dei campi, del lutto , della semplice intensità. Grazie
Bello proprio ! E mi sono commossa tanto.
Grazie, Asca’.
Semplicemente bello, di quella bellezza che non offende la tristezza ma l’abbraccia e la consola.
Grazie Ascanio
Grande Celestino il tuo racconto mi riempito l’anima.
un grande poeta degli Ultimi
Una carezza sul cuore e una risata sincera , quanta umanita!