Nelle famiglie di origine migrante bambini e ragazzi sono spesso interpreti ai propri genitori, sono dunque i primi costruttori di una cittadinanza diversa. Vivono in mezzo al guado, tra culture e comportamenti sociali talvolta distanti e sono loro, spesso insieme a tanti insegnanti, a fare di tutto perché la diversità non diventi discriminazione. Eppure a molti di quei bambini e ragazzi non viene riconosciuta la cittadinanza e oggi pagano anche il conto di alcune leggi che favoriscono incertezza, isolamento, solitudine. La battaglia per lo ius culturae serve a ricordarci che i diritti, o sono universali, o si chiamano privilegi
Venerdì 29 a Roma alle 14,30, davanti a Montecitorio, ci sarà una manifestazione convocata dal Comitato promotore del “Presidio ius culturae, italiani per cultura” per sostenere l’urgenza di approvare una legge che dia piena cittadinanza al milione di bambini e ragazzi nati qui o arrivati qui da piccoli.
Attualmente ci sono tre proposte di riforma sulla cittadinanza che stanno riprendendo faticosamente il loro iter in commissione Affari costituzionali della Camera e credo sia particolarmente importante sostenere gli italiani senza cittadinanza che scelgono di scendere in piazza.
Molte sono le ragioni per rivendicare il diritto di tutti i minori alla cittadinanza per il particolare significato culturale e sociale che riveste questa rivendicazione, in questo momento.
Ho scritto di recente che nelle famiglie immigrate accade spesso che bambine e bambini, per la plasticità del loro cervello e la capacità di stabilire relazioni vivaci ed aperte con i coetanei a scuola e nel gioco, apprendano la lingua più rapidamente e meglio dei loro genitori. Nell’imparare a parlare una lingua diversa da quella materna, superando difficoltà iniziali, entrano talvolta in alcune sfumature di significato della lingua italiana o dei dialetti parlati nelle città in cui abitano, con sottigliezza sorprendente e inventiva inusuale, dovuta alla ricchezza di sguardo sulla realtà offerta da un bilinguismo potenzialmente perfetto. Questa frequentazione e immersione totale e precoce in una seconda lingua, che per la maggioranza dei figli di immigrati si trasforma rapidamente in prima lingua privilegiata, li porta sovente a fare da interpreti ai propri genitori, arrivando a comportarsi, in casa, come veri e propri ambasciatori del nuovo paese di residenza. Alla lingua, com’è naturale, segue il rapido apprendimento dei costumi e dei modi di leggere e vivere la realtà propria dei nativi, con i pregi e difetti del caso.
Per alcuni, trovarsi a vivere in mezzo al guado, tra culture e comportamenti sociali talvolta distanti, spiazza e avvilisce. Nella maggioranza dei casi aumenta la determinazione a essere, vestirsi e comportarsi come i loro coetanei, perché avvertono, con quella particolare apprensione e sensibilità che hanno i bambini e gli adolescenti, quanto il confine tra l’essere percepiti come diversi e il venire discriminati sia pericolosamente sottile.
Ora, una società che abbia il desiderio di costruire un futuro di convivenza non distruttiva tra persone provenienti da diverse culture, dovrebbe avere a cuore il pieno riconoscimento del ruolo essenziale incarnato da bambini e ragazzi in quel contraddittorio e dunque delicato processo di integrazione, che non può non essere reciproco.
Dare priorità al diritto di cittadinanza ai minori assume dunque un significato politico e culturale particolarmente rilevante oggi perché scommette sulla pacificazione e incentiva il dialogo sociale tra culture, riconoscendo il grande sforzo di traduzione, mediazione e necessario adattamento compiuto dal milione di bambini e ragazzi che, pur abitando le nostre città, avvertono più o meno consapevolmente di essere relegati in un limbo, con uno “statuto giuridico da fantasmi”, come denuncia un recente video realizzato dal movimento degli “Italiani senza cittadinanza”.
L’Italia, paese in cui l’immigrazione è fenomeno recente, in trent’anni non ha ancora saputo costruire un’elaborazione culturale e un immaginario sociale relativo alla trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città. Potrebbe essere un vantaggio, visti gli evidenti limiti dell’assimilazionismo francese e del multicuturalismo inglese, ma dobbiamo creare le condizioni perché a dettare legge non sia la signora di Alessandria che ha fatto alzare in autobus dal posto accanto al suo una bambina di sette anni perché nera, e tutti coloro che hanno creato le condizioni culturali di quel gesto.
Silenziosamente e spesso solitariamente da anni nidi, scuole dell’infanzia e primarie sono sempre più un laboratorio di convivenza che ha dato, pur tra luci e ombre, risultati importanti, visto che gli alunni stranieri che accolgono superano il 10 per cento e sono riuscite a mantenere fino agli undici anni buoni livelli di apprendimento, stando alle comparazioni statistiche internazionali. Nonostante questo, il fenomeno della fuga bianca dalle scuole ad alta percentuale di figli di immigrati continua ad accrescersi e cominciano a sorgere in alcune periferie urbane prime scuole coraniche.
Penso che nessun italiano dotato di buon senso possa augurarsi lo sviluppo di una sorta di apartheid educativo nelle nostre città, con bambine e bambini che frequentano scuole separate per etnia e per censo. Al contrario, dobbiamo investire di più e meglio perché si riduca la dispersione scolastica che, nelle scuole secondarie, vede il 35 per cento dei figli di immigrati abbandonare precocemente l’istruzione, in una percentuale doppia rispetto ai figli di famiglie italiane”.
Il motivo per cui in tante e tanti insegnanti siamo così sensibili alla questione della cittadinanza deriva dal fatto che constatiamo ogni giorno quanto il vivere in una situazione di precarietà riguardo al proprio futuro ostacoli l’apprendimento.
Ascoltando recentemente Paula Baudet Vivanco, tra le fondatrice del movimento Italiani senza cittadinanza, mi ha colpito il modo puntuale con cui descrive la condizione psicologica in cui si trovano i bambini e ragazzi senza cittadinanza.
“L’incertezza continua ad essere la costante della nostra vita perché, fin da piccoli, abbiamo dovuto affrontare i continui ostacoli che incontravano i nostri genitori riguardo al rinnovo del permesso di soggiorno. Compiuti i diciotto anni l’accesso alla cittadinanza si attende troppo a lungo e non è mai certa. Io ad esempio, fuggita a sette anni con la mia famiglia dal Cile di Pinochet, solo a trentatre anni sono riuscita a divenire a pieno titolo italiana, ottenendo una cittadinanza che mi fu rifiutata alla prima richiesta. Il paradosso è che noi da piccoli ci troviamo a soffrire di una situazione non scelta, che ci costringe a guardare con inquietudine al nostro futuro, perché è come se ci venisse continuamente erosa la tranquillità necessaria a crescere serenamente, la possibilità di stare sicuri con i piedi per terra nella nostra casa. Varchiamo incerti i confini perché non abbiamo sempre garanzia di ritorno, le nostre chiavi di rientro sono momentanee e soggette a permessi e rinnovi lunghi, quando ad esempio andiamo a trovare parenti, partecipiamo a gare sportive o a gite scolastiche. Le leggi sull’immigrazione e sulla cittadinanza sono peggiorate continuamente e gli ultimi due decreti voluti dall’ex ministro Matteo Salvini hanno rovesciato i faticosi e complessi processi di accoglienza e di permanenza che, pur tra luci e ombre, avevano attivato in diversi luoghi interessanti processi di integrazione, rovesciandoli in una disintegrazione che porta a un maggiore isolamento e solitudine, gettando noi e le nostre famiglie in una precarietà e insicurezza costanti” (leggi Cittadini senza cittadinanza, ndr)
C’è un’ampia discussione da aprire tra noi su quali siano le formulazioni più giuste ed efficaci da rivendicare riguardo allo Ius culturae, così come riguardo allo Ius soli, oggi abbandonato dalle forze politiche presenti in Parlamento. Rivendicare lo Ius culturae solo per chi abbia terminato con successo un ciclo di studi potrebbe discriminare coloro che arrivano qui a dodici anni e trovano difficoltà ad inserirsi nelle scuole superiori e anche a quelle bambine e bambini a cui la scuola non riesce a fornire percorsi e strumenti sufficienti per non essere bocciati, anche alle elementari, come purtroppo continua ad accadere. Si pone dunque una questione educativa di rilievo che impone un’analisi attenta su ciò che realmente accada nelle scuole riguardo alla capacità di offrire a tutti strumenti culturali adeguati, perché la realtà ci mostra situazioni e contesti molto diversi tra loro nelle diverse regioni e città.
Resta la grande verità, sottolineata più volte dal Tavolo Saltamuri, che i diritti, o sono universali, o si chiamano privilegi.
Credo dunque sia nostro compito sostenere con convinzione la battaglia per la cittadinanza ai minori in tutte le forme in cui si manifesta, in particolar modo quando è portata avanti dai diretti interessati, la cui voce troppe volte rimane inascoltata.
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* Maestro, tra i fondatori Cenci Casa-Laboratorio, straordinario punto di riferimento per scuole, insegnanti ed educatori. Il suo ultimo libro è I bambini ci guardano. Una esperienza educativa controvento (Sellerio 2019). Ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme. Altri suoi articoli sono leggibili qui
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