Il concetto di popolo ai giorni nostri e il populismo. La demagogia di Trump e la coniugazione delle due forme dell’identità statunitense. La politica non è la gestione del potere, la comunità non si può fondare sulla disuguaglianza. La destra vince con l’evocazione di simboli identitari molto primitivi. Il comunismo in ogni relazione. L’invenzione di una nuova temporalità. La performance politica e quella artistica. Una conversazione molto densa e molto libera tra Federico Galende e Jacques Rancière uscita su The Clinic

di Federico Galende*
Jacques Rancière (76 anni) è stato in Cile (nel dicembre scorso, ndt), invitato dal rettore dell’Università di Valparaíso, che gli ha conferito la Laurea Honoris Causa. Nel pomeriggio, quando era già sul punto di partire, gli ho fatto visita, inviato da questo giornale (The Clinic) e abbiamo avuto una conversazione ondivaga, senza linee guida né punti precisi, che il filosofo ha colto per spaziare su un gran numero di temi: l’impulso dei movimenti democratici con cui è iniziato il secolo e il minaccioso contraccolpo dovuto al trionfo di Trump, le differenti configurazioni del popolo, le lotte per l’uguaglianza e i confini sempre imprecisi tra le performance dell’arte e quelle della politica. Rancière è un filosofo atipico: lontano dalla prevedibile pausa di riflessione che siamo soliti riconoscere nell’oratore esitante, parla a tutta velocità, proferendo manciate di frasi che prorompono una dietro l’altra, dominato da una prosa inquieta, travolgente, che impiega addentrandosi con passione nella materia che tratta. Il suo stile è tanto acuto quanto semplice, proprio di chi rivela nella filosofia una lunga e curata amicizia con l’uguaglianza come presupposto di ogni politica.
Possiamo partire dal “popolo” , un concetto che la moda politico-filosofica degli anni Novanta aveva rimosso e che diversi dei tuoi libri hanno recuperato. Stava andando bene, il secolo iniziava con movimenti, marce, primavere e Intifada, le democrazie neoliberali cadevano a pezzi e, all’improvviso, appaiono l’impeachement, Macri, il Brexit, Le Pen, Donald Trump.
Penso che il secolo, come dici tu, sia iniziato con l’irruzione sempre più grande di movimenti democratici, movimenti che in qualche modo hanno cercato di creare una nuova idea di “popolo”. Questo è il mio punto di vista. Ma la mia opinione è anche che il popolo non esiste di per sé, non è qualcosa in sé stesso, quanto piuttosto l’effetto di una costruzione: noi siamo il popolo quando ci riuniamo in una piazza, quando portiamo avanti le nostre rivendicazioni, ma anche la Costituzione crea un popolo, i media creano un popolo, e per questo la domanda che bisogna porsi, quella che almeno a me interessa, è quale popolo c’è adesso.
E che popolo c’è adesso?
Bene, risponderei alla domanda partendo dall’altro lato. Penso che in paesi come la Francia o gli Stati Uniti c’è stata una monopolizzazione di questo assunto da parte di una classe politica molto ridotta. All’interno di questa classe politica la destra e la sinistra parlamentari si sono indifferenziate sempre di più, hanno perso la specificità e oggi tendono a essere più o meno la stessa cosa. Allo stesso tempo continuano a esistere questi movimenti più piccoli che propongono un’altra idea del popolare, movimenti che generano lo spazio per l’affermazione di un “noi”. Questa affermazione cerca di correre al di fuori della crescente integrazione al potere politico e al potere finanziario, cosicché quello che abbiamo è di nuovo una divisione tra l’élite politica e tutto ciò che è escluso dal sistema.
Tuttavia Trump, per quanto non ci piaccia, parla a una buona parte di questi esclusi
Trump occupa demagogicamente un posto vuoto: il posto di un popolo che non può rappresentarsi da sé. E per questo finge di tornare all’América profonda, come fa Marine Le Pen, evocando la Francia profonda, quando ciò che in realtà stanno facendo è produrre dall’alto una sorta di identificazione immaginaria. Non bisogna dimenticare che la materia della politica è il simbolico.
Nei tuoi scritti, però, la materia della politica è piuttosto l’esperienza sensibile, la relazione tra i corpi, la vita in comune. Qui in Cile c’è un programma alla radio che si chiama La comunidad de los iguales [La comunità degli uguali] e allo stesso tempo i nostri storici oggi si dividono tra quelli che continuano a fare appello alla voce di quelli che non hanno voce e quelli che, come Miguel Valderrama, propongono una specie di post-storia nella quale non c’è nessun centro, nessun fulcro, nessun orizzonte che può essere promesso, un po’ come lo prospetti tu nel bel libro su Béla Tarr.
Sì, tuttavia non confonderei questo assunto su quanto ho scritto a proposito di Béla Tarr, sul tempo dell’attesa o su un tempo lontano dalle promesse della storia, con questo immaginario post-storico o post-politico che in qualche modo finisce per essere funzionale alla politica del consenso. Per me, questa è l’ideologia di quelli che oggi monopolizzano il potere e i difensori di questa ideologia, a prescindere da quello che si dice sulla post-storia, sanno molto bene come mascherare il neoliberalismo con questa falsa politica delle intese. Con questo finiamo per credere nella fine della politica o, peggio ancora, che la politica può essere ridotta, in ultima analisi, alla gestione del potere, quando ciò che accade è piuttosto la combinazione tra i due fenomeni: da un lato l’estrema destra simula di incarnare il popolo situandosi strategicamente al di fuori dell’establishment della classe politica; dall’altro lato questo ci ricorda che in tal caso la politica non è morta, che necessita di simboli, che necessita di determinati dispositivi di simbolizzazione collettiva. Questo, in primo luogo.
E in secondo luogo?
In secondo luogo, mi sembra importante considerare che il neoliberalismo, oggi non è solamente un credo economico, ma anche una forma di pensiero globale. Questo pensiero globale ha a che vedere con la fede in una società che possa fondarsi sulla disuguaglianza. C’è odio verso l’uguaglianza, c’è disprezzo, come se l’uguaglianza fosse qualcosa di infame. In questo, però, c’è anche un paradosso, dal momento che a titolo del neoliberalismo si vuole fingere che la politica sia morta, mentre, al contempo, si rende necessaria proprio per dare un aspetto politico a questo stesso neoliberalismo. Ciò che queste élite prospettano è qualcosa che non mi pare sia verità: che la politica possa essere ridotta alla gestione del potere e che la comunità possa fondarsi sulla disuguaglianza.
Bene, ma è sempre stato un po’ così…
La novità, però, è che questa volta l’estrema destra sta tornando a essere vincente nella sua evocazione di simboli identitari molto primitivi, molto elementari, in modo che ciò che si produce è una fusione tra i simboli identitari proposti dall’estrema destra e la fede politica in una disuguaglianza programmata. Pensa che fino a poco tempo fa in Francia e negli stessi Stati Uniti, la destra di rifiutava di chiamarsi in questo modo.
Qua ancora si rifiuta.
(Risate) Si rifiuta? Bene, si scopriranno, come lo hanno fatto là, dove fino a poco tempo fa dicevano cose del tipo “noi siamo il centro” e dicevano anche, per quanto non fosse vero, che credevano nell’uguaglianza. La novità è che oggi tutta questa gente si autoproclama di destra e proclama apertamente che vuole la disuguaglianza.

Trump dice in realtà qualsiasi cosa, dice quasi tutto ciò che gli passa per la testa, che non smette di avere determinati sgradevoli retrogusti sperimentali, nel senso che produce a caduta libera grovigli imprevedibili: si situa al di fuori dell’establishment, spara contro i media più potenti, denuncia l’improduttività del sistema finanziario, confessa la sua devozione a Putin, eccetera. E al contempo è vero: si richiama a un’identità abbastanza convenzionale che è lontana da qualsiasi forma di sperimentazione.
È vero quello che dici. Trump annoda due forme discorsive che normalmente sono antitetiche: da un alto si esibisce come un trionfatore, un campione, un uomo d’affari che rappresenta l’América di quelli che vincono contro l’América dei perdenti, e dall’altro si rivolge agli esclusi, a quelli che sono stati lasciati da parte dalla classe politica. Con questo genera una confluenza molto rara tra l’América che trionfa e l’América di quelli che soffrono. Perché soffrono? Soffrono a causa dei messicani, dei latinos, degli immigrati? Trump ha saputo coniugare con molta astuzia le due forme dell’identità americana.
Allo stesso tempo, però, capisco che per te la politica non ha molto a che vedere con questo. Non ha a che fare con la gestione né con la vita, probabilmente nemmeno con il potere. Nel tuo lavoro, la politica si gioca piuttosto nella perpetua lotta tra ricchi e poveri.
La politica, per me, risiede effettivamente in questa lotta, in questa opposizione, solo che i ricchi e i poveri non rispondono a categorie sociologiche specifiche o a gruppi sociali determinati: funzionano meglio nella struttura simbolica di questa opposizione. Movimenti come Occupy Wall Street, per fare un esempio, risultano dalla combinazione di molti gruppi, di molte identità, di molte forme di soggettività. In questo senso, il posto degli oppressi è eterogeneo, è molteplice, come suggerisci tu, ma allo stesso tempo questi oppressi costruiscono sé stessi in opposizione alla gestione neoliberale del potere.
È quello che è successo a noi con il movimento studentesco del 2011: ha lasciato conseguenze, ha lasciato segni interessanti, ha lasciato una sensibilità trasformata…
Sicuramente, perché si tratta di una configurazione che genera un nuovo tipo di popolo come simbolo collettivo, persone che provengono da orizzonti molto diversi e che, tuttavia, occupano lo stesso spazio, lo stesso posto. Quello che così costruiscono è una sorta di opposizione al mondo ufficiale, contro la politica intesa come gestione del potere.
Ma, non ci sarà un certo conformismo nel pensare alla questione in questo modo? Alcuni sono arrivati a considerarti una specie di socialdemocratico sofisticato.
(Risate) Socialdemocratico? No, questo proprio no, niente di più distante dalla mia posizione!
Certo, lo so; te lo chiedo perché essendo qui mi piacerebbe sapere di prima mano come tu ti definisci. Come un comunista non avanguardista, come un anarchico, come un populista di sinistra?
Mi definisco come un democratico radicale. Ora, se il comunismo di cui parli, compreso il comunismo dell’uomo solo, significasse qualcosa, sarebbe un tipo di democrazia radicale, così come sarebbe un tipo di democrazia radicale l’anarchismo. Voglio dire che quello che difendo è in realtà uno sviluppo radicale dell’uguaglianza, che di sicuro non ha nulla a che vedere con la socialdemocrazia, che come sappiamo fa parte della politica parlamentare. Per quanto riguarda il populismo, credo che sia un concetto molto ambiguo, in parte perché da un lato fa riferimento al popolo come un importantissimo simbolo della politica mentre, dall’altro, stabilisce una forma di relazione molto specifica tra il popolo e il leader.
E come lo colleghi con gli Stati Uniti?
Penso che quello che è avvenuto negli Stati Uniti (e non solo negli Stati Uniti) è che i politici hanno pensato che fosse vantaggioso creare questo tipo di nemici: il populismo è il nemico, il populismo è ciò che c’è dall’altra parte e tutti quelli che non sono d’accordo con chi esercita attualmente il potere sono in realtà dei populisti. Il problema è che gli si è ritorto contro: hanno pensato che fare questo fosse intelligente ed è finita nientemeno che con l’apparizione di Trump.

Vale a dire che per Rancière, il populismo di sinistra non è un’opportunità.
Come militanti di sinistra non possiamo parlare di “populismo”, visto che quello che si indica con questo nome è la concentrazione di forze democratiche nella figura di un leader carismatico, come nel caso di Cristina Kirchner, il cui evidente intento era di governare incarnando il popolo. Il piccolo problema è che il popolo non si può incarnare.
No, certo, ma io non mi riferivo al collegamento o all’incarnazione, ma alla proliferazione spontanea di reti collaborative che operano lontano dalle grandi città finanziarie e dall’establishment politico. Il filosofo Rodrigo Karmy parla di Intifada senza pastori né avanguardie e Kaurismaki chiama tutto questo “comunismo idilliaco”, un comunismo che è immanente alle pratiche dei corpi e che non risponde ad alcun orizzonte utopico. Tu stesso lo dici nel prologo al libro di Blanqui: “Il comunismo è l’uguaglianza di tutti gli uomini che condividono uno stesso sapere sul cielo”. È una definizione molto interessante, che postula per inciso il carattere indivisibile dell’intelligenza: l’intelligenza come qualcosa che è sempre stata in comune e di cui chiunque può far uso subordinandola alla volontà.
Sì, certo, una Intifada senza avanguardia presuppone che l’uguaglianza delle intelligenze sia la base del comunismo, e questo significa che quello che sta alla base del comunismo è questo tipo di credo, di fede, in un’intelligenza che è condivisa da tutti. Questa base è per me la fiducia nella capacità di chiunque e non ha niente a che vedere, in tal caso, con l’idea del general intellect di Negri e di Hardt o con le abilità apparentemente comuni che suscitano le nuove tecnologie. Non penso in questo modo, non è a questo che mi riferisco, ma al fatto che il comunismo è qualcosa che si costruisce o si tesse in ogni momento, in ogni relazione. Il punto che mi interessa è che in ognuno di questi momenti, in ogni tipo di relazione, in ogni istante si può presupporre l’uguaglianza o si può riprodurre la disuguaglianza. E quindi o costruiamo un mondo comunista oppure stiamo riproducendo la logica della disuguaglianza.
Non posso essere più d’accordo. L’uguaglianza è in ogni caso per te un presupposto, non una promessa o qualcosa che aspiriamo di conquistare. È un punto di partenza, uno che quando si esercita dà l’impressione di avere un carattere molto efficace. Quando succede questo, la logica dello spettacolo cede il passo a quella del carnevale e un po’ questo si è verificato in Cile a partire dal 2011.
È vero, credo che bisogna pensare a tutte le forme di creatività, a tutte le intelligenze che sono attuate o vengono esercitate quando l’ordine normale delle cose è sovvertito. Noi siamo in qualche modo la testimonianza di tutti questi movimenti rivoluzionari, di tutti questi tempi rivoluzionari, di tutti questi giorni rivoluzionari in cui le persone fanno una molteplicità di cose: spettacoli, eventi o feste i cui disordini contrastano le forze della disuguaglianza. Sono dei momenti in cui gli uomini, le donne, i popoli possono dimostrare a loro stessi l’abilità nel fare cose per le quali si ipotizzava non avessero alcuna capacità. Questo però è solo un lato della questione: l’altro ha a che vedere con la temporalità che tu sintetizzi bene nella figura del carnevale.
Tuttavia, intuisco che il carnevale non ti piace.
No, non è che non mi piace; il problema con il carnevale è che si tratta di una forma di invenzione popolare o di sovversione popolare che risponde a una certa istituzionalizzazione. Ogni anno c’è un momento in cui gli uomini o le donne del popolo si trasformano in re o in regine e sovvertono il mondo, lo girano o lo rivoltano, ma lo fanno in un momento specifico. E questo per me è diverso da questa capacità della gente del popolo che è solita mostrarsi in momenti inattesi, priva di ogni programma, di qualsiasi agenda. Quello del carnevale è il tempo del popolo, ma dopo questo tempo ognuno ritorna al lavoro, ritorna alla sua casa, ritorna alla sua condizione. Penso che questi rituali non riescano a essere davvero sovversivi, in parte perché quello che secondo me è in gioco nella sospensione dell’incapacità che gli altri ci attribuiscono è qualcosa di ben diverso: è l’invenzione di una nuova temporalità.
Come in La noche de los proletarios [La Notte dei proletari].
Esatto, da dove si può trarre un esempio abbastanza aneddotico: quella notte dei proletari inizia all’inizio di marzo e normalmente si estende fino al trentuno, visto che, come tutti sappiamo, dopo comincia aprile. Curiosamente, però, lì non è esistito aprile, bensì il trentadue di marzo e poi il trentatré di marzo e così via. È solo un aneddoto, ma che permette di illustrare questa idea della sovversione del tempo o dell’invenzione di un tempo nuovo.
Nel carnevale, però, si nasconde quello che tutta la storia ha vissuto dimenticando: l’irruzione delle potenze egualitarie delle tradizioni popolari. Non c’è lì una sorta di performance collettiva che, allo stesso tempo, è proprio un tema dell’arte e della politica?
Naturalmente, perché quello che risulta interessante all’interno dei movimenti e delle pratiche dei popoli è proprio un’indeterminatezza tra la performance politica e la performance artistica. Quello che c’è lì è l’idea della politica come un modo di muoversi, un accordo tra i corpi, il taglio di un’unità temporale. Questo è presente tanto nei movimenti politici più recenti quanto nelle performance più recenti dell’arte. Per questo penso che si dovrebbe parlare di due intenti che sono molto diversi: il primo di questi intenti è quello di mettere sulla scena dell’arte tutti i significanti della politica, ricreare la politica dall’arte; il secondo, invece, si basa sui legami o sulle relazioni promiscue che già di per sé esistono tra le forme che provengono dalla protesta politica e quelle che derivano dalla performance o dalla creazione artistica. Quello che penso su queste pratiche è che tra di esse c’è un’indeterminatezza.
E anche un’interazione
E anche un’interazione, una demarcazione che è imprecisa. E questo lo oppongo alla pretesa artistica di ricreare la parola della politica attraverso i mezzi dell’arte.
Grazie, Rancière.
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Federico Galende è filosofo, scrittore e docente all’Università del Cile.
* Questa conversazione è stata pubblicata sulla versione online del settimanale cileno THE CLINIC (che ringraziamo) con il titolo “Jacques Rancière: La extrema derecha está volviendo a ser exitosa en su evocación de símbolos identitarios muy primitivos”.
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