Domenica 9 è tornata la Marcia della pace Perugia-Assisi, fondata da Aldo Capitini. Una Marcia segnata dalla mancata partecipazione di alcuni movimenti che criticano l’eccesso di istituzionalizzazione, la genericità degli obiettivi e la ritualizzazione della Marcia, gestita esclusivamente da alcuni Enti locali umbri e da un comitato promotore decisamente permanente. Di certo, in tempi di guerra diffusa abbiamo sempre più bisogno di gesti, parole, orizzonti con cui ribaltare il mondo. Ci viene in aiuto un volume (edito da Del Vecchio) che ha raccolto per la prima volta diverse poesie di Aldo Capitini. Antifascista, teorico della omnicrazia (il mondo non si cambia prendendo il potere dall’alto ma diffondendolo ogni giorno in basso) e della nonviolenza, pedagogista critico, Capitini ha scelto la poesia, impegnata e civile, non solo per gridare il suo No alla guerra ma soprattutto per mostrare come qualsiasi percorso di pace comincia sempre dalla costruzione di nuove relazioni sociali, comincia da noi, da me e da te. Adesso
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Venerdì 7 ottobre si è svolta a Perugia, nella Biblioteca di San Matteo degli Armeni una presentazione in anteprima del volume di Aldo Capitini Poesie, che raccoglie la produzione lirica di Capitini introdotta da un eccezionale saggio narrativo-autobiografico di Capitini stesso: Attraverso due terzi del secolo. Una presentazione che precedeva di soli due giorni l’importante evento della Marcia della Pace Perugia-Assisi, fondata dallo stesso Capitini.
Maggiormente conosciuto in Italia per la sua attività politica e di filosofo e pedagogista, Aldo Capitini fu poeta e letterato fine e rivoluzionario. Nella poesia vede “un atto di apertura illimitata, di contro alle chiusure, alle forzature, agli irrigidimenti”, fino all’incontro con la religione, che per lui è crogiuolo di un’anima infinitamente aperta. Quella di Capitini è dunque un’esperienza poetica di certo singolare: appassionato lettore di poesia, lesse anche autori che avrebbe poi rifiutato nelle scelte politiche, come ad esempio i futuristi, molti autori stranieri, soprattutto i classici, ma anche poeti come Luzi e Sereni. I testi sono di carattere decisamente autonomo, tanto che Goffredo Fofi ricorda che è necessario “insistere su ciò che caratterizza il Colloquio: la sua assoluta eccezionalità nel quadro della poesia italiana del Novecento; versi lunghi e autonomi; pensieri e immagini fittamente legati; il visibile e l’invisibile; il chiaro e l’oscuro; l’umiltà del disporsi e l’esigenza di profondità; la simpatia per i vivi e per i morti, e la sintonia con il vivente, con tutte le creature; il senso della musica e della struttura, della composizione; la vastità degli argomenti e del “messaggio”; una sensazione di perfetta felicità nell’umiltà”.
Nell’introduzione al volume, Daniele Piccini, curatore e attento lettore della poesia di Capitini, segnala: “Credo che l’interesse di Aldo Capitini per la poesia sia da considerare come un fenomeno di profondità, meditato e necessitato: è vero che solo due libri nella sua vasta produzione hanno forma di meditazioni poetiche; tuttavia la poesia fu per lui un termine non eludibile di confronto, tanto che esperimenti in versi precedono la sua matura riflessione etica e filosofica. E soprattutto egli fece propria una concezione del discorso poetico impegnativa e solenne, come un tentativo di conoscenza non sostituibile da altre forme, capace di una sintesi e di una singolarità fortemente rilevate”.
Fondamentale, nell’esperienza poetica di Capitini e in questo corposo volume, la chiave di lettura del dialogo, della incondizionata apertura ad un “tu” poetico e insieme destinatario e parlante nei versi. Continua Daniele Piccini: “La scrittura poetica di Capitini emana un alone di solitudine, di irreparabile distanza, che chiede al lettore un’immersione fiduciosa e una sospensione di consuetudini e aspettative consolidate”. Si tratta di una poesia che, proprio nello sfumare l’eccezionalità, si apre al desiderio comune, di una poesia che vuole includere e non escludere, e resta l’espressione di una voce poetica ancora oggi originale nelle scelte e significativa nel messaggio.
Lontani dagli ideali di condivisione e dialogo tipici dell’atteggiamento nonviolento capitiniano, molti stimoli odierni sono più vicini all’antico motto “mors tua vita mea” e decostruiscono l’idea della possibilità di confronto e arricchimento nella relazione con l’altro, della luminosità del compromesso, della crescita nell’ascolto, annullando anche il riconoscimento degli egoismi: siamo in crisi, siamo in guerra tra di noi, la sopravvivenza prima di tutto. La violenza a cui porta questo individualismo giustificato e in parte stimolato dai media e dalla politica purtroppo si perde nelle nebbie degli infiniti input negativi a cui siamo ogni giorno sottoposti, con conseguenze disastrose: adolescenti spaventati dal diventare adulti, adulti tristi e scoraggiati, intellettuali e artisti concentrati su se stessi e sul guadagno, che non riescono ad offrire al pubblico una vera possibilità di crescita.
Il volume, dunque concilia istanze filosofiche e politiche necessarie e importanti, e sceglie l’espressione nella parola poetica come una vera possibilità di superamento e conciliazione. La poesia è in sé parola di profeti, che porta al dialogo gli inconciliabili e permette la riflessione oltre le dicotomie delle impostazioni filosofiche occidentali. Capitini ci ricorda che nasciamo a noi stessi quando riusciamo a dire un “tu”, quando riusciamo a riconoscere l’altro e la necessità della relazione come unica possibilità della realizzazione della nostra umanità più profonda.
Il volume è pubblicato da Del Vecchio Editore (Roma, 2016, pp. 288) una casa editrice che, alle soglie dei dieci anni di attività, conferma in questo modo l’attenzione alle forme di espressione letteraria trasversali, ricche di spunti e lontane dall’appiattimento culturale che tanto ha a che fare con la violenza insita nella società contemporanea.
Di seguito, su concessione dell’editore, un rilevante estratto da Attraverso due terzi del secolo e due componimenti scelti da uno dei cicli più significativi del volume, Colloquio corale.
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Aldo Capitini, da Attraverso due terzi del secolo
Subito, dopo la liberazione di Perugia, nel luglio 1944 costituii il Centro di orientamento sociale (C.O.S.) per periodiche discussioni aperte a tutti, su tutti i problemi amministrativi e sociali. Fu un’iniziativa felice, che convocava molta gente e le autorità. (tra cui il prefetto e il sindaco), molto desiderata da tutti per l’interesse ai temi e per la possibilità. di “ascoltare e parlare”; e si diffuse nei rioni della città, in piccole città. dell’Umbria, e in città come Firenze e Ferrara. Nessuna istituzione la diffuse e la moltiplicò, e il mio sogno che sorgesse un C.O.S. per ogni parrocchia, era molto in contrasto con il disinteresse e l’avversione che, dopo pochi anni, sorse in molti contro un’istituzione cos. indipendente, aperta, critica; né si poteva dire che l’organizzazione ne fosse difficile; ci sarebbe voluta tuttavia voluta una virtù: la costanza. Quella fu la prima iniziativa che presi per valermi della libertà, e per preparare la “riforma” come la vedevo e la vedo. Tanto è vero che, dopo le difficoltà. che portarono nel 1948 alla fine dei C.O.S., anche dopo una breve loro ripresa nel 1957, ho svolto e svolgo lo stesso tema mediante un foglio mensile Il potere di tutti, che propugna la democrazia diretta (o omnicrazia, come la chiamo), il controllo dal basso in ogni località e in ogni ente, i consigli di quartiere e i centri sociali, i comitati e le assemblee, la libertà Di informazione e di critica, permanente e per tutti. Il tema si riconduce, come dirò poi, a quella riforma che io propugno in nome dello sviluppo della “realtà di tutti”. Non lo Stato antifascista, ma molto meno quello che seguì al 1948, erano in grado di valersi dei C.O.S. ed inserirli nella struttura pubblica italiana, ad integrazione della limitata democrazia rappresentativa del parlamento e dei consigli comunali e provinciali. N. le forze dell’opposizione di sinistra, tese nella speranza di una presa del potere, si curarono di apprestare uno strumento cos. elementare per la convocazione della popolazione e dell’opinione pubblica, anche in considerazione della insufficiente diffusione dei giornali. Si apr. invece il periodo in cui le ricche destre avrebbero rovesciato sugli italiani, e specialmente sugli strati meno politicizzati come quello delle donne, tonnellate di periodici illustrati, sostanzialmente di gusto antirivoluzionario ed evasivo.
[…]
Nel 1955 l’uscita del mio libro Religione aperta, messo all’Indice da Pio xii, segnò il punto di arrivo della Riforma religiosa da me impostata, riassumendone i temi e affidandola ormai alle posizioni del tutto personali di ciascuno. Nello stesso tempo, anzi fin dal 1952, la costituzione a Perugia, in via dei Filosofi, di un Centro di orientamento religioso (C.O.R.) per periodiche conversazioni e di un Centro per la nonviolenza aveva a poco a poco sostituito la convocazione di convegni romani con la sollecitazione a costituire centri, come a Perugia, il che poi nessuno ha fatto in modo continuato e aperto come a Perugia. Se si pensa che da sedici anni fino ad oggi una volta la settimana si è discusso un tema solitamente di carattere religioso, si ha un’idea di quale stimolo e addestramento abbiano potuto beneficiare gli organizzatori, gli amici, i frequentatori spesso mutevoli. Io mi sento gratissimo a quel lavoro settimanale fatto non al livello dell’erudizione, ma della formazione di un orientamento di vita. Le ragioni della critica storica neotestamentaria, l’utilizzazione di apertura anche nelle religioni istituzionali, il nesso della religione da un lato con la nonviolenza, dall’altro con la riforma della società, l’esigenza costante della libertà anche nella vita religiosa, sono stati temi ed esigenze ritornanti spontaneamente tante volte nelle nostre conversazioni, e creanti qualche cosa di comune tra noi di diverse posizioni, libero religioso io, altri evangelici cattolici, bahai, ebrei, laici, marxisti. Abbiamo toccato temi ed argomenti, anche del giorno, di ogni genere. Fino al momento di oggi, nel quale potrebbero avvenire cambiamenti, il mio lavoro religioso di decenni ha avuto, nella sua fedeltà, questi periodi e questi aspetti: Dal 1931 al 1944 ha costituito il nucleo di una riforma, di limitata diffusione anche per le condizioni della dittatura, ispirata da una libera articolazione del gandhismo, in sintesi con elementi occidentali, da uno sviluppo dell’apertura anche nel campo di una nuova società. Dal 1944 al 1968 ha fatto il più che ha potuto per creare strumenti di collaborazione sulla base dell’interesse religioso (Movimento di religione, Movimento per una riforma religiosa in Italia, religione aperta, Centro di orientamento religioso); ha delineato meglio gli aspetti teorici dal tema dell’apertura al tema della compresenza, in libri, articoli e “lettere di religione”; ha diffuso anche opere di polemica religiosa (con Pio xii, sul battesimo, sul Concordato). Se la mia tensione in questo campo è stata ed è continua e posso dire di avere aiutato molti a chiarirsi problemi particolari, e di avere sparso idee e termini, è bene riconoscere che il mio scrupolo di non forzare e di non istituzionalizzare, crescente negli anni, è stato tale da non tenere conto delle “adesioni”, e di portare avanti piuttosto l’enunciazione di una vita religiosa come “centro” e non altro. Dopo i movimenti degli anni dopo la Liberazione, sono arrivato negli ultimi anni, e fino a questo punto, ad un proposito di tenace approfondimento per me, per capire ed essere sempre più un ricercatore–costruttore e un fedele libero religioso, ma lasciando ogni incontro collaborativo al tempo e agli altri. Se la mia vita religiosa risolutrice e utile, altri la rifaranno, e meglio di me. Io non chiedo che di condurla bene, con autenticità. Una prova di questo aver diffuso temi e stimoli senza averne raccolto precise e fedeli risposte, sta non solo nel vedere come si svolge la problematica religiosa oggi, ma specialmente nel fatto che per la “religione” non posso citare quei contatti e quelle influenze, che posso indicare per altri tre campi: la nonviolenza, la scuola, le idee sociali. Nel campo della nonviolenza, dal 1944 ad oggi, posso dire di aver fatto più di ogni altro in Italia. Ho approfondito in più libri gli aspetti teorici, ho organizzato convegni e conversazioni quasi ininterrottamente, ho lavorato per l’obiezione di coscienza, ho promosso, attraverso il Centro di Perugia per la nonviolenza, convegni Oriente– Occidente, la Societ. vegetariana italiana, la Marcia della pace da Perugia ad Assisi del 24 settembre 1961, e poi il Movimento nonviolento per la pace e il periodico “Azione nonviolenta” che dirigo. Della Consulta italiana per la pace, una federazione di organizzazioni italiane per la pace sorta dopo la Marcia di Assisi, sono ancora il presidente. Sono, insomma, riuscito a far dare ampia cittadinanza, nel largo interesse per la pace, alla tematica nonviolenta. Come teoria e come proposte di lavoro, la nonviolenza in Italia ha una certa maturità. E qui, come dicevo, ho avuto più occasioni d’incontro che con la pura e semplice religione. In fondo, quando sono andato due volte a Barbiana, a parlare con don Lorenzo Milani e la sua scuola, la discussione e l’esposizione non . stata altro che sulla nonviolenza, per la quale egli mi disse di convenire con me. Per Danilo Dolci la cosa è stata più complessa. Sapevo di lui e gli scrissi quando egli fece il suo primo digiuno a Trappeto, per la morte di una bambina di stenti. Gli dissi che non aveva il diritto di morire, prima che egli avesse informato sufficientemente noi tutti della situazione, e lo pregai perciò di sospendere il digiuno. Così siamo diventati amici e ho sempre seguito il suo lavoro; ho fatto conoscere a Danilo tutti i miei amici laici da Calamandrei a Bobbio, e tanti altri (egli era in partenza cattolico), l’articolazione dell’apertura religiosa e della nonviolenza, i miei articoli sul piano sociale e sul lavoro dal basso, mediante centri di educazione degli adulti e di sviluppo sociale. Vi sono anche due campi nei quali ho lavorato con continuità, e che qui accenno senza illustrare: quello della libertà religiosa in Italia, stabilendo collaborazioni con laici, dal mio punto di vista di libero religioso per cui la libertà. indispensabile per tutti; e quello della difesa della scuola pubblica dalla pressione e dall’invasione confessionale, un campo nel quale promossi un’associazione che ha avuto anni di buona efficienza, l’A.D.E.S.S.P.I. (Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica italiana). Né intendo qui illustrare il lavoro per i problemi educativi, pedagogici (con una mia pedagogia diversa da quella umanistico–empirista), scolastici (con l’iniziativa di una Consulta dei professori universitari di pedagogia), ai quali ho dedicato l’attività dell’insegnamento, e libri, tra cui i due recenti volumi di Educazione aperta.
Ma un campo, ancor più strettamente connesso con la profezia e l’apostolato religioso, è quello della trasformazione della società, per cui, rifiutando ogni carica offertami nel campo politico, ho piegato la politica, e l’interesse in me fortissimo per essa, alla fondazione di un lavoro per la democrazia diretta, per il potere di tutti o omnicrazia (come lo chiamo). Per me è intrinsecamente connesso con la religione, che, per me, è più della compresenza che di Dio; e perciò la compresenza di tutti (religiosamente dei viventi e dei morti) deve continuamente realizzarsi, come ho già detto, nell’omnicrazia, e chi è centro della compresenza, è centro anche di omnicrazia; ed è intrinsecamente connesso con la nonviolenza, di cui . l’idea politico–sociale. Il lavoro per i C.O.S., per il pacifismo integrale, per la proprietà pubblica aperta a tutti e creante continue eguaglianze, non sono che effettuazioni dell’interesse per l’omnicrazia. Se dovessi indicare i punti dove ho espresso la tensione fondamentale, da cui tutte le altre, del mio animo per l’interesse inesauribile agli esseri e al loro animo, e perché ad essi sia apprestata una realtà in cui siano tutti più insieme e tutti più liberati, segnalerei alcune righe di un mio libro poetico, Colloquio corale (sulla festa), nel quale ho ripreso, accentuando la compresenza, un modo di esprimermi lirico, già presentato negli Atti della presenza aperta. Il Colloquio corale (1955) è così poco noto (il libro di cui ho più copie nel mio magazzino di carte!), ed è invece così espressivo, che non mi oppongo alla tentazione di citare qualche cosa da esso piuttosto che da altri libri.
[…]
Da Colloquio Corale
Episodio
1.
La mia nascita è quando dico un tu.
Mentre aspetto, l’animo già tende.
Andando verso un tu, ho pensato gli universi.
Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso
alle persone.
La casa, un mezzo ad ospitare.
Amo gli oggetti perché posso offrirli.
Importa meno soffrire da questo infinito.
Rientro dalle solitudini serali ad incontrare occhi
viventi.
Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.
Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.
Ardo perché non si credano solo nei limiti.
Dilagarono le inondazioni, ed io ho portato nel mio
intimo i bimbi travolti.
Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli.
Mentre il tempo taglia e squadra cose astratte, mi trovo
in ardenti secreti di anime.
Torno sempre a credere nell’intimo.
Se mi considerano un intruso, la musica mi parla.
Quando apro in buona fede l’animo, il mio volto mi
diviene accettabile.
Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente.
Do familiarità alla vita, se teme di essere sgradita ospite.
Quando tutto sembra chiuso, dalla mia fedeltà le
persone appaiono come figli.
A un attimo che mi umilio, succede l’eterno.
La mente, visti i limiti della vita, si stupisce della mia
costanza da innamorato.
Soltanto io so che resto, prevedendo le sofferenze.
Ritorno dalle tombe nel novembre, consapevole.
Non posso essere che con un infinito compenso a tutti.
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5.Da alta torre ho guardato ai quattro punti dell’orizzonte.
Andrò a raccogliere i morti sui campi di battaglia.
Distenderò le braccia e le gambe rattratte.
Chiuderò le palpebre fredde sui fissi occhi.
Non posso vedere uno sguardo se non odo la parola.
Invisibile la vita affida cómpiti tristi.
Riassumo i miei anni, non bastano i dolori sofferti.
Tra poco urti di uomini e spaventosi fragori.
E le persone sospinte inseguite strappate.
Dentro le mille pazzie della guerra anch’io mi troverò.
Aprirò parole pure, ordine di pensieri, atti fraterni.
Intanto prenderanno il condannato, gli diranno di scavare
una fossa.
Poi egli guarderà intorno i colli immobili, il cielo.
Qualche rumore lontano di vita gli giungerà.
Non avrà più il tempo di ripensare a tante giornate.
Alle voci di persone care, ai tu ricevuti.
Nemmeno di prevedere, di venire a un accordo con i fatti.
E resterà così, in una strana obbedienza.
E quando spareranno i fucili, in una vampa salirà un grido.
Il grido umano che è tardi, e si perde.
Liberare, liberare al più presto.
Mi diranno: perché non vieni a combattere con noi?
Non mi comprenderanno, eseguiranno la guerra.
Ho amato essere con altri, quanto la luce degli occhi.
Così bello è il lavoro unito, la fiducia, l’aiuto!
Mescolarsi agli altri modestamente vestito.
Nel cerchio di uguali ascoltare e parlare.
Ed ora nessuno vuol ascoltare, e pur sono tutte persone.
Son divenuto estraneo, gli altri non sentono che ci sono.
Le risposte secche, e l’amico che guarda dall’altra parte.
Sarebbe facile che mi unissi attivissimo a loro.
Obliando l’unità aperta, il di là dalla guerra?
Resto qui diviso da tutti, per la più profonda unità.
Tutto finora era una prova, la realtà deve ancora incominciare.
Ogni essere era anche altro, e non lo sapeva.
Ma ora viene questo altro, e importa ciò che si apre.
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