di Alain Goussot*
Negli ultimi ventitré anni, dalla riforma Berlinguer che fu l’anticamera del processo di smantellamento della scuola democratica, si è assistito a una formazione sempre più segmentata, orientata all’acquisizione di abilità tecniche, di competenze funzionali alle esigenze dell’impresa e dell’economia finanziaria. Il passaggio dalla scuola delle conoscenze a quella delle competenze ha significato meno conoscenze trasversali e sapere e più abilità tecnicistiche settoriali.
Purtroppo questo è avvenuto perché si è arresa la pedagogia come scienza dello sviluppo umano globale e degli apprendimenti, la pedagogia come filosofia dell’educazione che mira a formare l’uomo e il cittadino consapevole, critico, in grado di pensare con la propria testa e di collegare il particolare con il globale. Conoscenze e sapere sono potere reale nella misura in cui rendono i cittadini liberi, capaci di pensare il mondo e le sue condizioni, capaci di analizzare le loro vicende individuali all’interno di un quadro più generale che è quello della comunità e della società nel suo insieme.
La scuola delle competenze ha portato con sé una idea sempre procedurale della didattica una ulteriore accentuazione della separazione tra dimensione scientifica (ridotta a tecniche di calcolo quantitativo e numerico) e dimensione umanistica, a una svalorizzazione delle scienze umane, una scomparsa della storia come conoscenza e a un progressivo arretramento delle discipline filosofiche e letterarie. Le stesse materie scientifiche non sono più collegate a un modo razionale critico e rigoroso di pensare ma a una tecnica di misurazione che riduce la complessità di processi umani estremanente complicati a unità di misura (accade anche nell’ambito pedagogico e psicologico con il cosiddetto modello dell’Evidence based).
La stessa valutazione tramite modelli standardizzati come le prove Invalsi, la cultura diffusa del quiz, la marginalizzazione della dimensione pedagogica nella formazione del personale docente a favore di un didatticismo povero e ripetitivo (la pedagogia della pillola magica), il dominio di una psicologia di tipo comportamentale e cognitivistica a scapito di una pedagogia dello sviluppo umano che sappia prendere in considerazione relazioni sociali, affettive, storie, identità culturali e vissuti, e ancora la deprivazione pedagogica del corpo docente colonizzato culturalmente dal tecnicismo didattico standardizzato, dalla cultura della valutazione stereotipata della performance, dallo sguardo clinico-diagnostico con la moltiplicazione delle categorie diagnostiche in ambito scolastico (Disturbi specifici di apprendimento-Dsa, e Bisogni educativi speciali-Bes) con degli effetti iatrogeni nella gestione delle classi e del processo di insegnamento e apprendimento, l’assenza di una autentica preparazione psicopedagogica transculturale in una scuola diventata meticcia. A questo aggiungiamo la ossessione italiana per la lingua inglese che non vuol dire apertura al mondo, per questo bisognerebbe imparare le lingue, ma semplicemente subalternità all’imperialismo culturale anglosassone e quindi al modello Nord Americano con una contemporanea svalorizzazione della stessa lingua italiana nonché del latino (e qui stiamo parlando di un elemento fondamentale dell’identità storico-culturale di questo paese). Senza parlare dei discorsi sulla scuola digitale che sembrano ignorare le serie ricerche sull’impatto dell’uso del digitale selvaggio sullo sviluppo dei nostri figli (si dovrebbe parlare di ‘massacro degli innocenti’). Non ultimo la privatizzazione e aziendalizzazione strisciante della scuola pubblica che amplificherà le diseguaglianze tra scuole dei quartieri alti e quelle dei quartieri periferici (l’autonomia degli istituti è solo di natura economica e ne conosciamo le conseguenze drammatiche sul piano della qualità progettuale, inoltre s’introduce la competitività tra scuole in nome della valutazione del merito). Purtroppo occorre dirlo: i pedagogisti accademici in questi anni sono stati silenziosi e molti sono stati anche complici di questo processo antidemocratico e neoliberale.
Tuttavia cambiare questa deriva non è impossibile, le forze, le capacità, le coscienze del bene comune esistono nel mondo della scuola per ricostruirla in senso davvero qualitativo, solidale, inclusivo e democratico.
Il dibattito pluridecennale sulle competenze è interessante.
Ripenso sempre a quando il termine ‘competenza’ non si usava, ma accadeva che la didattica per competenze di alcuni miei docenti della secondaria, alcuni decenni fa, mi consentiva di avere le conoscenze e le abilità giuste, scolasticamente parlando, per potere continuare a costruirmele elevandole in complessità nella relazione con la conoscenza da acquisire e da sapere utilizzare. Con altri docenti, i più, non accadde ed oggi, come risulta dagli studi sui risultati P.I.S.A., posso affermare che in competenza come quella matematica il mio indice è pari a quello di uno studente della scuola media: perdita dunque secca di 5 anni.
Gentile Professore, tutto questo per dirle che il sapere, la conoscenza, è sempre dentro la competenza, mai fuori, altrimenti non la genera, lei me lo insegna. La caduta del sapere umanistico è un naturale, purtroppo, effetto collaterale di un’epoca, la nostra, segnata dalla tecnologia, avanzatissima e da una crescita così veloce che non c’è il tempo per interrogarsi sulle sue conseguenze. Ma di certo, come diceva la Montalcini, non si possono mettere lacciuoli ai cervelli.
Alla scuola del nostro tempo, che sta affrontando questo scenario mai prima sperimentato, come bene sostiene Bauman, agendo dentro un sistema arcaico, statico, che andava bene solo quando si trattava di alfabettizzare le masse, tocca il compito molto arduo di promuovere le competenze e di farne strumenti di un’orchestra che ogni soggetto sappia gestire al meglio, pena l’esclusione, la marginalizzazione, il vivere da sopravvissuti.
E i docenti questo lo sanno, consapevolmente o inconsapevolmente lo avvertono ogni giorno, allorché progettano, pianificano, sperimentano, chiedono aiuto, valutano, non da addestratori di polli da batteria, ma per aiutare ogni studente a guadagnare in competenza. E quando la valutazione esterna diventa un supporto ulteriore per riflettere, capire, riorientare la didattica sempre nel rispetto dei principi epistemoogici che ogni disciplina possiede, allora ben venga e non venga vissuta come un’ingerenza indebita, ma solo come un servizio ulteriore fatto ad ogni scuola, che, le assicuro, ne ha bisogno. E questo perché anche così può porsi nel mondo e confrontarsi con gli altri soggetti che lo popolano, per imparare dai migliori.
Mia madre mi insegnava questo: devi frequentare i migliori di te, coloro che sanno di più, coloro che sanno fare cose che tu non sai fare; solo così imparerai a crescere.
Come dire, impariamo da chi sa fare meglio: ci sarà una spiegazione, o no?
Ripenso sempre a quando il termine ‘competenza’ non si usava, ma accadeva che la didattica per competenze di alcuni miei docenti della secondaria, alcuni decenni fa, mi consentiva di avere le conoscenze e le abilità giuste, scolasticamente parlando, per potere continuare a costruirmele elevandole in complessità nella relazione con la conoscenza da acquisire e da sapere utilizzare. Con altri docenti, i più, non accadde ed oggi, come risulta dagli studi sui risultati P.I.S.A., posso affermare che in competenza come quella matematica il mio indice è pari a quello di uno studente della scuola media: perdita dunque secca di 5 anni.
Gentile Professore, tutto questo per dirle che il sapere, la conoscenza, è sempre dentro la competenza, mai fuori, altrimenti non la genera, lei me lo insegna. La caduta del sapere umanistico è un naturale, purtroppo, effetto collaterale di un’epoca, la nostra, segnata dalla tecnologia, avanzatissima e da una crescita così veloce che non c’è il tempo per interrogarsi sulle sue conseguenze. Ma di certo, come diceva la Montalcini, non si possono mettere lacciuoli ai cervelli.
Alla scuola del nostro tempo, che sta affrontando questo scenario mai prima sperimentato, come bene sostiene Bauman, agendo dentro un sistema arcaico, statico, che andava bene solo quando si trattava di alfabetizzare le masse, tocca il compito molto arduo di promuovere le competenze e di farne strumenti di un’orchestra che ogni soggetto sappia gestire al meglio, pena l’esclusione, la marginalizzazione, il vivere da sopravvissuti.
E i docenti questo lo sanno, consapevolmente o inconsapevolmente lo avvertono ogni giorno, allorché progettano, pianificano, sperimentano, chiedono aiuto, valutano, non da addestratori di polli da batteria, ma per aiutare ogni studente a guadagnare in competenza. E quando la valutazione esterna diventa un supporto ulteriore per riflettere, capire, riorientare la didattica sempre nel rispetto dei principi epistemologici che ogni disciplina possiede, allora ben venga e non venga vissuta come un’ingerenza indebita, ma solo come un servizio ulteriore fatto ad ogni scuola, che, le assicuro, ne ha bisogno. E questo perché anche così può porsi nel mondo e confrontarsi con gli altri soggetti che lo popolano, per imparare dai migliori.
Mia madre mi insegnava questo: devi frequentare i migliori di te, coloro che sanno di più, coloro che sanno fare cose che tu non sai fare; solo così imparerai a crescere.
Come dire, impariamo da chi sa fare meglio: ci sarà una spiegazione,
Considerazioni che mettono in chiaro le regressioni pedagogiche e delle finalità educative operate dalla riforma sedicente della “Buona Scuola”.