di Marco Geronimi Stoll*
Teatro per l’infanzia, cosa non è
Partiamo da queste apparenti ovvietà: il pubblico infantile non va considerato:
– né un target commerciale,
– né 100 mocciosi casinisti da non fare urlare,
– né un insieme di pre-uomini da Educare al Bello,
– né 100 figli di elettori con cui fare bella figura,
– né 100 allievi il cui apprendimento va verificato con schede e test.
Se sul “cosa non è” siamo tutti d’accordo, passiamo al “cos’è”.
Cos’è
Premessa
Teatrante e bambino sono in due punti diversi dell’albero delle scelte.
Ciascun teatrante ha la propria ricerca, il proprio stile, la propria vocazione.
Nel corso della propria carriera, attraverso la propria disciplina e la propria motivazione, all’interno dei propri generi e del propri modelli, si manifesta in qualcosa che per brevità chiamiamo teatro, un insieme che contiene infinite varietà di forme, stili, linee evolutive ed antropologie.
Ciascun bambino ha una propria genialità e vocazione che è assai meno differenziata, è più onnivoro, deve ancora trovare il proprio gusto, il proprio stile. La sua strada è ancora all’inizio dei mille bivi, somiglia al teatrante quand’era bambino.
Il mio contributo vuole elencare alcuni aspetti del bambino di oggi che tutti dovrebbero tenere in attenzione, genitori, insegnanti, parenti, amici di età diverse.
Non ho nessuna intenzione di dire “il teatrante deve fare questo o quello”; sarebbe presuntuoso, moralistico e pure parecchio inutile.
Voglio invece illustrare alcuni bisogni di teatro dei bambini di oggi a cui il teatrante, meglio di molti altri adulti, può corrispondere; le esigenze dei bambini di oggi sono numerose, mutevoli e variegate, quindi ciascun teatrante con la forza della propria arte può lasciarsi ispirare da alcune di esse e creare un flusso di emozioni e cognizioni formidabili, che lasceranno una densa traccia evolutiva nell’esperienza dei bambini.
Playing in the stage
Comincio ricordando a tutti voi, che già le sapete, due ovvietà semantiche; la prima che recitare in molte lingue si dice con la stessa parola (play, spielen, jouer…) di giocare e di suonare. La seconda è che “teatro” è un luogo dove ci sono gli attori intesi come coloro che agiscono: c’è il teatro di guerra, il teatro operatorio… in senso antropologico è teatro anche una partita, una messa, una manifestazione, un funerale, …
10 bisogni di teatro
1. La separazione scenica.
Il bambino oggi ha poche occasioni di permeare lo spazio esplorandolo: la città postmoderna è meno ospitale ed esplorabile, spesso le strade e le vie sono off limits, comandano le auto, raramente c’è l’esperienza della natura e l’interazione degli animali, quindi il bambino vede il mondo dalla finestra, dai finestrini della macchina, che sanciscono una separazione tra osservatore ed oggetto osservato; quel pezzo di vetro luminescente che è la televisione diventa un ulteriore separazione tra i mortali e l’Olimpo dei deucoli televisivi. Il teatro non è solo quello degli ultimi secoli, che separa spettatori e palcoscenico; può essere utile esplorare qualcuna delle mille forme che mescolano attori e pubblico, invertono i ruoli, permeano gli spazi.
2. La presenza del corpo in carne ed ossa
Assistiamo ad una progressiva smaterializzazione del corpo, ad esempio pensate a tutti i giochi antichi disimparati così fisici e legati all’abilità, che oggi paradossalmente si devono insegnare a scuola.
Mediante la stereotipia con cui la tv colonizza l’immaginario, ci inculcano l’idea che i corpi abbiano solo i due contatti estremi: picchiarsi e fare sesso. Tra i due estremi, niente.
I bambini incorporano precocemente questa banalizzazione e con essa una banalizzazione delle emozioni, eppure col loro corpo sono prontissimi a essere vivi e comunicanti nell’immensa danza delle relazioni quotidiane. Il corpo dell’attore è una presenza meravigliosa perché decondiziona e riequilibra l’immagine del proprio corpo; sperimentare il teatro permette di ri-imparare l’enterocezione, il respiro, l’equilibrio, la gesticolazione, il contatto amichevole, non ambiguo e non aggressivo.
3. I minimi tecnologici
Il bambino appartiene ad una generazione dove le potenzialità delle tecnologie digitali saranno formidabili. Per noi adulti, che ci illudiamo di essere già tecnologici, sarà un mondo inedito, di cui oggi stiamo assaggiando solo gli antipasti.
Riusciremo, noi uomini del secondo millennio, a consentire ai nostri figli e nipoti del terzo millennio di godere in modo evoluto e critico di queste opportunità?
A mio avviso sì, ma a un patto: solo se riusciamo a conservare l’equilibrio tra le diverse esperienze: tanto più i bambini sono esposti ai “massimi tecnologici”, quanto più il nostro compito diventa quello di equilibrarli con altrettanti stimoli a bassa tecnologia: primitivi, materici, concreti, analogici. Low tech. Il teatro che usa il corpo, la voce, gli oggetti più elementari, è una miniera di minimi tecnologici molto pregnanti ed evolutivi, che sono indispensabili al cucciolo umano per andare verso la pienezza emotiva e culturale.
4. La decelerazione
Il consumismo ci costa non solo in materia ed energia, ma anche in tempo.
Non vale solo per l’agenda “ingolfata di mille niente” di noi adulti, anche il tempo del bambino è innaturalmente accelerato e ingolfato di affannose ridondanze ripetitive.
Il termine stress, che popolarmente usiamo in modo generico per indicare la fatica o il nervosismo, in realtà significa un concetto molto preciso: un soggetto prova stress quando ci sono delle operazioni mentali che vengono interrotte da altre operazioni più urgenti; questo crea dolore psichico perché ci rende operativamente “in sospeso”, in tensione, senza la risoluzione appagante delle azioni portate a termine.
In un mondo sovraeccitato e sovrastimolante, per non essere pavlovianamente puniti dallo stress, impariamo a fare ragionamenti più brevi, elementari, superficiali.
La dilatazione dei ritmi porta spesso i bambini (e anche gli adulti) ad una certa “paura del silenzio” perché quando si apre la voragine di un pensiero più profondo, più intimo, di maggiore spessore umano, non siamo pronti, non siamo abituati; ciò che era la normalità fino a mezzo secolo fa, oggi è ansiogeno; subito sfuggiamo da questa vertigine verso qualcosa di più superficiale, effimero.
Così le grandi domande filosofeggianti che hanno caratterizzato gli adolescenti da millenni, oggi non si fanno più. L’esperienza del teatro permette l’operazione opposta; riempie il tempo di qualità, carica le pause di attesa, riporta l’orologio biologico sul respiro, sul cuore che batte, sui passi che procedono.
5. La decolonizzazione dell’immaginario.
Nonostante la crescita del computer e di internet, la dieta mediatica dei bambini è ancora in grandissima parte televisiva.
La televisione, e specialmente la pubblicità, usa i bambini come una “macchina banale”, cioè come un dispositivo che reagisce agli stimoli in modo prevedibile. Con una facile alchimia sentimentale (che l’adulto facilmente decodifica) il bambino può essere programmato dagli spot.
Uno dei sistemi più ovvi per reagire è quello di portare il bambino dall’altra parte di una telecamera, di rompere il cristallo maledetto che separa noi mortali invisibili dai deucoli dell’Olimpo catodico.
È un’ottima strada, certo non è l’unica: il teatro lavora sui simboli, la TV di massa sull’immaginario; quindi il teatro è psichicamente più fondante e più evolutivo.
6. Diventare emittenti
Come ho già spesso ripetuto, un bambino riceve oggi qualcosa come 250.000 volte più stimoli (suoni, colori, movimenti…) di un coetaneo dell’800 o del ‘700. Riceve moltissimi input, ma dei suoi output non frega niente a nessuno. Lo sbilanciamento tra il suo ruolo di ricevente e la sua capacità di essere emittente è enorme, totalitario.
Qualsiasi manuale di psicologia vi dice che chi non è ascoltato, non ascolta.
Il risultato è la sindrome del bambino trasparente, cioè del bambino che si inventa qualsiasi diavoleria, ricatto, provocazione pur di riuscire a farsi vedere. Lo sanno bene le maestre che si trovano spesso davanti una ventina di figli unici di genitori teledipendenti, che cercano disperatamente uno sguardo singolare per sfuggire a questa trasparenza.
Il teatro offre un metodo ed una disciplina a questa esigenza di performance e visibilità. Offre anche migliori risultati e migliore riflessione sul proprio agito.
7. La voce
Cantare, urlare, declamare, e anche tornare ai suoni primigeni che oggi appaiono così poco educati.
Dal primo vagito all’ultimo rantolo noi siamo la nostra voce, che è sempre in scena, eppure la conosciamo poco; anche gli insegnanti, a dire la verità, raramente sanno usarla, nonostante sia il loro strumento di lavoro; usarla bene sarebbe formidabile, per la relazione educativa.
8. L’applauso
Tutti noi abbiamo un bisogno enorme di un riconoscimento collettivo e gratificante; abbiamo un’immagine di noi stessi quasi sempre pessima, mortificante.
L’applauso è un’onda corale. Bisogna saperlo ricevere, a volte lo desideriamo talmente che temiamo di riceverlo, specie da adulti, perché l’adulto, più del bambino, ha terrore di ciò che più desidera. Non attacchiamo ai bambini questa nostra malattia.
9. La bellezza
La colonizzazione dell’immaginario ci porta inevitabilmente a confrontarci con i corpi televisivi: di una bellezza e di una prestanza che, per quanto convenzionale e artefatta, tuttavia funziona quando li paragoniamo allo specchio.
Accade a chi è più vecchio, e accade anche a chi è più giovane. La differenza è che noi “vecchi” possiamo rimpiangere il passato ma difficilmente possiamo tornare a vent’anni; invece il bambino quell’età ce l’ha davanti, quindi non vede l’ora di crescere precocemente.
È evidente che si prepara all’omologazione ed al massacro dell’autostima.
Il teatro presenta un corpo che non serve ad apparire ma ad essere; grasso o magro, alto o basso, giovane o vecchio: è bello se passa emozioni, se rispecchia le sue storie con le nostre.
Questa è un’idea bella di bello. Sono gli anticorpi a questo simulare quotidiano, al scimmiottare ossessivo e stolto dei cliché di cui siamo tutti inconsapevolmente complici.
Ecco che si capovolge il noto paradosso scespiriano: tutto ciò che facciamo nella vita è una recita, (All the world’s a stage, And all the men and women merely players…), tranne quando recitiamo davvero, allora siamo noi stessi.
10. Individuo/gruppo
Vediamo da un paio di decenni che hanno esaltato l’individualismo e con esso la competizione singolare, un narcisismo solipsistico, dove le persone intorno sono (o dovrebbero essere) pubblico votato a ammirazione invidia o gelosia.
È fin banale ricordare che non c’è individuo senza gruppo e non ci sono gruppi senza individui, che una competenza. Due cervelli pensano mille volte di più di 1 + 1 cervelli, dieci cuori sentono molto di più di 1 x 10 cuori…
È la logica dell’informazione condivisa e del pensiero connettivo, che nel mondo digitale sta attuando una rivoluzione silenziosa ma sconvolgente, una delle poche cose belle che stanno succedendo in questi nel mondo, bella ma facile da pervertire, manteniamo la vigilanza perché il Potere cercherà di impossessarsene, ma questo è un’altra questione. Intanto cosa succede nel mondo analogico del reale: come facciamo sentire ai bambini che non si è sempre o soli o male accompagnati (da fratelli, amici, compagni di scuola tutti competitor nella concorrenza pseudo-marketing a chi si mostra più omologato)?
Anche per questo i bambini hanno un drammatico bisogno di teatro.
Il teatro unisce il singolo al proprio gruppo, permette un equilibrio tra vedere gli altri, mostrarsi agli altri ed agire insieme agli altri. È una palestra di disciplina e di frustrazioni, di miglioramento intrapsichico densissimo e molto personale, tuttavia è sempre insieme, è sempre corale. Per certi versi somiglia allo sport di squadra, ma in più ci mette la riflessione estetica e poetica, la densità umana, la profondità dei pensieri e delle sensazioni.
Morale:
Ho citato solo una parte dei possibili argomenti.
Dunque alla domanda “quali competenze deve avere un teatrante che interagisce coi bambini” la mia risposta (provvisoria, empirica e perfettibile) è questa: deve avere le proprie competenze, non è un pedagogista, non è un insegnante, non è un genitore, non è un terapeuta. Però deve sintonizzarsi, deve chiedere di più alla propria arte e andare a cercare quel di più, scoprire cosa può e vuole regalare alle nuovissime generazioni.
Ahi, l’ho fatto, l’errore che avevo promesso di non fare: ho usato il termine “deve”, che richiede un enorme pudore.
Intendo che se non cogliesse almeno una di queste opportunità, l’esperienza del teatro con l’infanzia potrebbe essere frustrante, uno spreco di tempo, di fatica e di soldi.
Sarebbe davvero un peccato.
* Studioso del pensiero creativo, autore di libri e cdrom sulla creatività dei gruppi e sul ruolo delle arti nell’educazione, coautore di trasmissioni televisive, Marco Geronimi Stoll ha insegnato e collaborato con diverse università occupandosi di comunicazione. Si definisce, tra le altre cose, pubblicitario disertore: negli ultimi anni ha sperimentato (con successo) varie soluzioni a basso costo per fare pubblicità etica al mondo non profit e alle aziende della decrescita (smarketing). Il suo sito è geronimi.it
L’articolo di questa pagina raccoglie gli appunti di una relazione preparata per una due giorni sul teatro per l’infanzia (organizzata dall’Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia nell’ottobre 2009 a Udine).
DA LEGGERE
Come ripensare il mondo a partire della scuola? Servono pensiero critico e spazi comuni. Occorre creare quelle che Ivan Illich chiama trame dell’apprendimento, dove imparare facendo. Uno spazio web con articoli, saggi, notizie, interviste, link, video sull’universo dell’apprendere, sulla scuola, sull’imparare ad imparare
Lascia un commento