di Stefano Simoncini
L’inquietudine che si prova è simile a quella che generano le atmosfere dei film di Hitchcock, Welles o Polanski, dove non esistono i buoni, e non è contemplato il lieto fine. Soltanto che in questo caso la vittima è un’intera città, e ci sono plotoni di colpevoli… Il discredito gettato da Mafia Capitale su amministrazione e partiti, la defenestrazione autoritaria del Sindaco, le periferie abbandonate alla criminalità e al razzismo, il perdurare dello stato di degrado e ingovernabilità della città, il combinato di giubileo e minaccia terroristica, l’emergenza climatica che diventa questione di salute pubblica, sono solo alcuni dei fattori endogeni ed esogeni di una situazione al limite, che un commissariamento prefettizio, privo di relazioni e competenze territoriali consolidate, non può e non deve risollevare. Si ha la netta sensazione che questa crisi somigli sempre di più al collasso di un intero sistema urbano, visto che la città è stritolata dalla morsa di una crisi duplice, quella economica strutturale, e una crisi politica se possibile ancor più profonda.
Al di là delle questioni elettorali, per un cambiamento profondo della città c’è bisogno sicuramente di analisi e narrazioni condivise delle radici della crisi romana, non per tracciare una continuità assolutoria verso le responsabilità attuali, ma per mettere in campo risposte che siano altrettanto profonde e strutturali delle analisi.
Secondo una felice definizione Roma è un arcipelago di “isole urbane”, un territorio vastissimo e da sempre frammentato sia dal punto di vista territoriale che sociale. La mancata industrializzazione, e la conseguente assenza di una classe operaia forte e di una borghesia imprenditoriale diffusa hanno giocato a favore di una rendita e di una concentrazione di ricchezza che sono riuscite per lunghi anni a imporre un patto perverso tra politica ed economia, fondate entrambe sull’espansione incontrollata dell’edilizia, delle burocrazie e dell’assistenzialismo, che a loro volta hanno perpetuato le disuguaglianze. Questa è la matrice dei mali di Roma, il nesso tra disuguaglianza, clientele e corruzione, che ha prodotto una politica espressione e sintesi di poteri più che di partecipazione e interessi collettivi, e un accumulo di deficit colossali e non casuali, compreso quello della mancata infrastrutturazione di un sistema efficace della mobilità, che ha perpetuato la separazione spaziale delle isole urbane, e perciò di nuovo la disuguaglianza.
Le radici storiche del collasso romano
In questo senso Mafia Capitale è da attribuirsi da un lato alla crisi dei partiti e alla loro ridotta capacità di contrattazione con i poteri leciti e di arginamento di quelli illeciti, dall’altro alla penetrazione più avanzata della criminalità nell’economia e nella politica, legata al modello di sviluppo e alla connessa crisi economica. Questa saldatura tra criminalità, politica ed economia, è la degenerazione terminale di un sistema che a Roma viene da lontano. La politica nella capitale si è sempre nutrita illecitamente di edilizia e assistenzialismo, e basta tornare anche corsivamente alle vicende della prima Dc per comprenderlo, quando il patto tra Dc e i ramificati poteri ecclesiastici produceva scandali scellerati, come quelli famigerati dell’Hotel Hilton e dell’ente assistenziale Onmi (Opera Nazionale Madri e Infanzia). Lo scandalo per la concessione edilizia dell’Hilton a Monte Mario compromise la rielezione del sindaco Rebecchini ma favorì quella di Cioccetti, il quale proprio sul patto per l’edificazione dell’Hilton ottenne i voti dei neofascisti del Msi nel 1958, precedendo così l’avventura autoritaria di Tambroni del luglio 1960. E così l’nmi, trampolino di lancio dei notabili Dc, ai cui vertici si alternarono i sindaci Cioccetti, Petrucci e Signorello, era un ente pubblico assistenziale che alimentava asili privati religiosi per madri svantaggiate, i quali in alcuni casi non esistevano proprio, in altri semplicemente gonfiavano le spese per finanziare campagne elettorali, tra cui quella del sindaco Darida. Finì per questo in carcere nel 1968 un ex sindaco, Petrucci. Senza fare la cronistoria degli scandali romani, e saltando a pie’ pari l’ingresso della criminalità organizzata nella sfera di governo, con la Banda della Magliana innestata a Servizi, Mafia e Massoneria, basterà citare il caso più recente dell’ex Pantanella, la prima crisi umanitaria legata all’immigrazione nel 1993, quando in piena Tangentopoli lo scandalo delle spese di accoglienza gonfiate coinvolse sia cooperative bianche che cooperative rosse, oltre che l’assessore Dc al sociale Giovanni Azzaro, poi passato a Forza Italia.
Purtroppo i due grandi cicli della sinistra non sono bastati a sanare il composito male comune di Roma, quello a monte della corruzione: il male di una pessima distribuzione della ricchezza, e di una società segmentata, il male di un modello di sviluppo sbagliato, il male di un territorio frammentato e vasto, che sono le ragioni vere della mancanza di senso civico dei romani e di decoro della città. Mentre il ciclo Petroselli-Argan-Vetere ha “accorciato le distanze” e modernizzato solo parzialmente la capitale, prevalentemente attraverso riqualificazione fisica e cultura di massa, a monte dei disastri di Alemanno e delle supposte incapacità di Marino, il secondo ciclo della sinistra al governo di Roma, tra 1993 e 2008, con il pretesto della regolazione e del decentramento, ha prodotto una nuova fase di forte espansione della città, del tutto ingiustificata dai trend demografici, che ne ha aggravato costi di gestione e deficit infrastrutturali.
Il fallimento delle cosiddette centralità, localizzate e realizzate in base alla geografia e agli interessi della rendita più che su una base razionale legata a risorse e processi programmati, ha prodotto quartieri senza volto e senza vita, incardinati soltanto a un’unica trama produttiva, quella di un sistema urbano di ipercommercio che ha fatto terra bruciata del già povero tessuto economico diffuso esistente. D’altro canto questo ciclo aprì a un nuovo modello negoziale di potere, più avanzato di quello democristiano, ma non esente dalle clientele, che concedeva spazi di protagonismo e sperimentazione politica a blocchi sociali e movimenti fino a quel momento esclusi da ogni gioco. Ma questo approccio negoziale e distributivo, sostenuto da trasferimenti di risorse dallo Stato e da economie effimere, tra grandi opere e grandi eventi, non ha permesso di mettere mano ai problemi strutturali del territorio e della società, e di rigenerarne il tessuto economico e diffuso. In buona sostanza Roma è rimasta un “arcipelago di isole urbane”, frammentato territorialmente e socialmente, dove le distanze non sono state realmente “accorciate”, e l’informalità delle relazioni di potere, le sacche di arretratezza hanno favorito la saldatura, sul cardine delle disuguaglianze, di corruzione, crisi e criminalità.
Le cinque città disconnesse
L’arcipelago lo conosciamo tutti, è fatto di cinque città disconnesse: la città ecclesiastica, borghese e mercificata del centro storico e delle estensioni piemontesi, con il complemento delle ricche enclave esterne, dai Parioli a Casal Palocco; la città autocostruita e abusiva dei ceti attivi nei servizi, tra piccola imprenditoria e commercianti, diffusa nell’agro interno al raccordo; la “città dolente” del proletariato e sottoproletariato, con le isole di classe operaia, popolo minuto romano espulso dal centro e i “nuovi barbari” attratti come falene dalla capitale “confinati” in borgate, borghetti e falansteri della Legge 167; la città privatistica e anonima del raccordo, quella prodotta dal pianificar facendo delle finte “centralità” e delle “compensazioni” truffaldine. Una descriptio urbis catastrofica, che conduce a una prima fondamentale conclusione: Roma come la vediamo oggi non è il prodotto del caso o della semplice assenza di pianificazione, ma di scelte precise in risposta a precisi interessi. La sua forma attuale è specchio dell’articolazione degli interessi privatistici che l’hanno edificata, come un guanto prende la sua forma dalle cinque dita della mano.
Risulta evidente allora che un cambiamento incisivo per Roma deve andare al di là delle parole d’ordine sconnesse, come rigenerazione, o resilienza, o riconversione, e richiede fondamentalmente la capacità di attivare ex novo un circolo virtuoso tra politica, società, economia e territorio. Servono per questo investimenti massicci, dovuti a Roma in termini di risarcimento dei guasti prodotti dal suo malgoverno fino ad oggi, e non di semplici extracosti attuali legati alla funzione di capitale. Ma serve soprattutto l’autonomia politica necessaria a mettere in moto i pistoni complementari della lotta alle disuguaglianze (da condurre mediante sviluppo locale, politiche abitative, mobilità e cultura accessibile e diffusa) e della riforma della governance democratica (da agire mediante trasparenza e capacità di attivare nessi tra amministrazione e cittadini, con la partecipazione, la coprogettazione, la collaborazione).
E qui si inserisce il secondo pessaggio necessario per un cambiamento profondo che consiste nell’individuazione delle leve della ricostruzione e delle forze vive con cui costruire e su cui fondare la risposta alla crisi, sia in termini socio-economici sia in termini di governance. Perché il presupposto da cui partire è che quello che gli informatici chiamerebbero il defrag di Roma, la deframmentazione sociale e territoriale, è un problema di ricostituzione insieme economica e democratica del tessuto urbano. Non manca certo chi stia riflettendo su un approccio strutturale alla riforma del sistema di governance territoriale, sia in relazione al fallimento generale del federalismo regionalista prodotto dalla riforma del Titolo V della Costituzione, con la sua moltiplicazione opaca di centri di spesa priva di reale coordinamento tra i livelli di governo, sia in relazione al caso di Roma capitale, una città metropolitana dal territorio complesso e vasto ma priva degli adeguati strumenti, competenze e risorse per governarlo. Il Pd sta lavorando, a quanto pare, a un decreto che prima delle elezioni avvii lo scioglimento del Comune e trasformi l’area metropolitana, corrispondente al perimetro dell’ex provincia di Roma, dapprima in ente di primo livello, cioè con un governo e una rappresentanza a elezione diretta, e in un secondo momento in città-regione con poteri legislativi. Il problema serissimo di questa proposta, che in un primo momento faceva temere che il Pd stesse ricorrendo a questo espediente per rinviare le elezioni, è duplice. Da un lato cambiare le regole elettorali a ridosso delle elezioni sembra impraticabile e piuttosto scorretto. Dall’altro, quando a favore di questa riforma si chiamano in causa le altre capitali europee, si dovrebbe anche spiegare che quelle capitali, e in particolare Parigi, Londra e Berlino, insieme al ridisegno istituzionale hanno pianificato un processo lungo e graduale, stanziando risorse ingenti e interventi di infrastrutturazione pesante, tra cui nuovi anelli ferroviari (Grand-Paris) o ciclopici attraversamenti sotterranei (London Crossrail). Quindi il Pd si astenga, in una fase di clamorosa instabilità politica da lui stesso provocata, di dallo stravolgere assetti istituzionali, ingigantendo il territorio, e quindi i problemi della città, senza pianificare in modo partecipato risorse, strumenti e processi.
Governi di prossimità partecipati e comunità di comunità
Quindi il problema non è, come si è anche detto, che si tratterebbe di una rivoluzione dall’alto che non coinvolgerebbe le diverse anime della società romana. Anzitutto perché non si tratterebbe di una rivoluzione ma di un salto nel buio, e poi perché nel ridisegno istituzionale è prevista anche un’esca per la sinistra, che è quella della trasformazione dei municipi in comuni metropolitani. Questo aspetto della riforma della governance romana indubbiamente rappresenta il perno di un rinnovamento della rappresentanza attraverso un riavvicinamento tra istituzioni e territori nel perimetro di un governo di prossimità maggiormente partecipato. Tuttavia il modello partecipativo municipalista come leva di rinnovamento della rappresentanza è stato messo in crisi dall’evoluzione dei territori in chiave proprio di contrazione della spesa pubblica, impoverimento generale, polarizzazione sociale e riduzione dello spazio pubblico.
In questo senso si è prodotta proprio su questo fronte l’impasse della sinistra a Roma, che pure era stata un laboratorio molto fecondo di partecipazione, sia sul terreno del welfare locale, sia su quello del bilancio partecipativo, e aveva sperimentato laboratori e strumenti di sviluppo locale partecipato basati sull’approccio integrato, sull’innovazione e sulla scala ridotta del quartiere e del municipio, ma anche alimentati da compagini sociali che nei generali squilibri avevano guadagnato spazi e diritti grazie a una forte capacità conflittuale. Si tratta perciò di capire su quali sono le forze sociali e attraverso quale tipo di relazione con le istituzioni, si debba fondare un nuovo modello di governance territoriale che vada oltre il modello partecipativo. Ma in questo senso occorre sgombrare il campo da un grosso malinteso. Esiste tutto un armamentario concettuale che è entrato a far parte di un’ormai trasversalissima retorica di rinnovamento civico della politica e del sistema di governance territoriale. Beni comuni, collaborazione, resilienza, comunitarismo e sussidiarietà sono concetti che a partire dalla Big society conservatrice di Cameron fanno da contrappeso per riforme che promuovono un avanzamento del protagonismo della società civile funzionale all’arretramento del pubblico e alla sostanziale privatizzazione dei servizi. Isole di autonomia e di collaborazione a fronte di un sistema socio-economico che viene risucchiato tutto intero nelle logiche privatistiche del valore.
Per riattivare questo circuito di forze innovative certamente i tempi delle scadenze elettorali sono molto stretti. Tuttavia invece di chiudersi in orgogliosi isolamenti o riproporre formule di alleanze politiche superate, si può aprire uno spazio simbolico di confronto e progetto, un cantiere aperto in cui i diversi percorsi, politici e sociali, nella loro autonomia s’incontrino per realizzare due opere fondamentali. La prima opera è quella descritta sopra. La ricostruzione di un’analisi condivisa delle radici della crisi romana.
La seconda opera del cantiere aperto, è soprattutto quella di definire funzione e missione di un nuovo protagonismo civico, sia nella relazione con una nuova forma partito, sia in relazione alle istituzioni per la costruzione della cosiddetta “terza via” tra pubblico e privato, quella dei beni comuni
Il problema allora che si deve porre la “terza via” della politica romana, la seconda opera del cantiere aperto, è soprattutto quella di definire funzione e missione di un nuovo protagonismo civico, sia nella relazione con una nuova forma partito, sia in relazione alle istituzioni per la costruzione della cosiddetta “terza via” tra pubblico e privato, quella dei beni comuni. Per evitare che i beni comuni diventino la stampella sbilenca di territori depauperati e privatizzati nel perimetro asfittico del volontariato, occorre che il protagonismo civico agisca sulla base di una progettualità locale definita in nuove articolazioni democratiche. E Roma in questo senso ha un vantaggio, dovuto proprio alla gravità dei suoi ritardi. Stanno crescendo a Roma importanti reti dell’innovazione, quelle “comunità di comunità” che cercano di mettere a sistema le buone pratiche esistenti per sperimentare un loro salto di scala in modelli alternativi di società ed economia urbani, incentrati su collaborazione, solidarietà, sostenibilità ambientale. Ed è in questa chiave espansiva e strutturale che vanno pensati i beni comuni urbani, come una matrice che trasferisca a tutto il sistema la logica della cooperazione e il principio territoriale della qualità della vita e della sostenibilità ecologica. E questa matrice ha bisogno di due cose essenzialmente per crescere e contrastare la duplice deterritorializzazione in corso, politica ed economica: che la politica non si sostituisca al sociale, né si riferisca a singole organizzazioni da favorire rispetto ad altre, ma alimenti le reti autonome che mettono al centro innovazione, sociale, economica e tecnologica incentrata sulla collaborazione; e cominci a creare spazi di interazione democratica come assemblee territoriali, piattaforme digitali di condivisione e collaborazione, laboratori di coprogettazione e pianificazione comunitaria.
In questa direzione deve andare perciò un programma condiviso e non negoziato: mobilità, distribuzione della ricchezza, promozione di sviluppo locale sostenibile e innovativo, rinnovamento della rappresentanza e della governance urbana, che metta al centro il protagonismo civico nella chiave delle reti dell’innovazione e della progettualità locale. Di certo occorre la convocazione di incontri pubblici, laboratori e assemblee comuni che mettano al centro della riflessione le reti sociali dell’innovazione.
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