di Paolo Cacciari*
Le formichine dell’economia solidale hanno fatto irruzione nel parlamento europeo. Promosso dal Gue (il gruppo delle sinistre confederate) e fortemente voluto da Podemos, si è svolto a Bruxelles a fine gennaio, il primo Forum sulle economie sociali e solidali. In quattro conferenze e nove workshop sono stati accreditati duecentocinquanta attivisti dei movimenti sociali, delle reti dei beni comuni, delle cooperative, delle imprese eticamente orientate assieme ai massimi studiosi del settore, tra cui: Jean-Luise Laville, Euclide Mance, Jason Nardi, Guido Viale. Ad ascoltarli molti deputati di vari partiti e alcuni autorevoli membri della Commissione europea.
Come documentano i report del Ciriec International (l’istituto che si è posto il compito di classificare e monitorare il settore) il 6,5 per cento dell’occupazione nei paesi dell’Unione europea (che sale al 40 per cento se si considera il solo settore privato), pari a 14 milioni di lavoratori e il 10 per cento delle imprese, sono attribuibili all’economia sociale e solidale. Volontari esclusi. Otto nazioni hanno già legiferato in materia (Gran Bretagna, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Romania, Lussemburgo), alcune regioni come la Catalogna e, in Italia, in attesa che il senato sblocchi la legge delega per la riforma del Terzo settore, l’Emilia Romagna, il Trentino, la Puglia e il Lazio. L’Ue ha elaborato un Libro bianco e le Nazioni Unite hanno costituito una task force che ha prodotto un position paper: Social and Soplidarity Economy and the Challenge of Sustainable Development.
Un grande fermento, quindi, a cui però corrisponde una certa confusione semantica e concettuale. Alcuni adoperano senza distinzioni le formule Economia sociale ed Economia sociale e solidale. Ma, nel primo caso, si tratta spesso di imprese e cooperative che praticano un modello di business dentro le logiche del libero mercato. Nel caso degli attori più orientati alla produzione di beni e servizi condivisi, l’economia solidale ambisce a costruire un’alternativa di sistema alle società di tipo capitalistico. La rete internazionale Ripess (Global Vision for a Social Solidarity Economy: Convergences and Differences in Concepta, Definitions and Frameworks. ripess.org) e anche Laville mettono in guardia i rischi di una doppia sussunzione delle attività di economia solidale dentro gli schemi della filantropia delle grandi fondazioni delle imprese e delle banche, ovvero nella subfornitura di sottoservizi a basso costo per conto delle amministrazioni pubbliche sempre più in crisi da debiti. Al contrario, l’economia solidale dovrebbe essere concepita come il centro portante di tutte le forme possibili di economia, perché capace di generare relazioni umane fondate sugli scambi non monetari, sulla mutualità e l’auto-aiuto, sulla preservazione e sulla equa utilizzazione dei beni comuni naturali.
* Paolo Cacciari è autore di articoli e saggi sulla decrescita e sui temi dei beni comuni (l’articolo di questa pagina è stato inviato anche a Left). Il suo nuovo libro, Vie di fuga (Marotta&Cafiero) – un saggio splendido su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita – è leggibile qui nella versione completa pdf (chiediamo un contributo di 1 euro).
DA LEGGERE
La trasformazione profonda della società non si nutre di qualche verniciatura di verde, di sociale o di equo all’economia. Si tratta invece, né più e né meno, di uscire dall’economia, cioè dal capitalismo. Slogan come decrescita e concetti come bio-economia possono aiutarci
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