Ricordate lo slogan caro a Margaret Thatcher? «Non ci sono alternative» sembra pensarlo oggi, tra gli altri, anche il cantautore romano, stizzito da chi guarda con attenzione ai No Tav e a chi va in bici ogni giorno. L’ultima intervista a De Gregori sembra lo stato d’animo di chi ha ingoiato qualsiasi rospo pur di vedere la sinistra istituzionale governare. Qualsiasi cosa significasse governare. E’ solo l’effetto e non la causa di un ventennio di monocultura nella sinistra istituzionale che tramite giornali come Repubblica o «intuizioni» come la terza via blairiana più o meno declinata anche da noi, ha abdicato all’idea di costruire ora una società diversa. De Gregori, ovvero la necessità di non avere artisti omologati
di Marco Trotta
L’intervista di Francesco De Gregori al Corsera ha creato il dibattito che chi lo ha intervistato si aspettava. Un simbolo da sempre della sinistra istituzionale che se la prende con il suo (ex?) partito di riferimento e la sinistra “tout court” per le strizzate d’occhio ai grillini, ai No tav, allo Slow food e a quelli che vanno in bici per poi annunciare che alla camera ha votato Monti e Bersani al senato era un boccone troppo ghiotto per uno dei giornali più schierati con il governo di larghe intese. Basta leggere il commento di uno come Antonio Polito. E tuttavia ha almeno un merito: fotografa, probabilmente, lo stato d’animo di una fetta consistente di elettori di centrosinistra che in questi anni hanno ingoiato qualsiasi rospo pur di vedere la sinistra istituzionale governare. Qualsiasi cosa significasse governare.
Dal «sogno di un’intera generazione» come definì D’Alema il suo incarico da premier nel ‘99, poco prima di bombardare il Kosovo, alle interviste di Bersani, prima delle elezioni politiche di quest’anno, a giornali come il Financial Times, dove giurava e spergiurava che non sarebbero venuti meno ad accordi internazionali come il fiscal compact. Ed ora che la crisi è conclamata tanto quanto l’accordo di larghe intese al quale «non ci sono alternative» (ipse dixit Giorgio Napolitano), però la colpa è dei ciclisti e dei No tav. E ancora: questa estate, mentre tutti i riflettori mediatici stavano soffiando sull’ansia in un pezzo del paese che pensa che il problema Berlusconi si possa risolvere con una soluzione giudiziaria, il governo continuava a lavorare ad una «riforma» presidenziale che faccia a meno dei residui delle social democrazie nella nostra costituzione. Come ci suggerisce, d’altra parte, J.P. Morgan. Però la colpa di un paese recessione è di chi va in bici.
Di tutto questo le dichiarazioni di De Gregori sono soprattutto una spia. Sono l’effetto e non la causa di un ventennio di monocultura nella sinistra istituzionale che tramite giornali come Repubblica o «intuizioni» come la terza via blairiana più o meno declinata anche da noi, ha abdicato prima all’idea di costruire una società alternativa e poi a quella che si potesse dissentire dai dogmi di quella attuale. E in questo, sì, De Gregori e la sua generazione (che guarda caso è quella dei Bersani e dei D’Alema) hanno qualche colpa. Perché da tempo hanno smesso di essere crooner del paese, delle sue condizioni sociali, delle sue contraddizioni. Hanno smesso di fare i cantautori che intessono rabbia e poesia, cultura e riscatto sociale. Che fanno circolare idee e raccontano le istanze di una società in movimento e senza voce. Una condizione così palese che hanno buon gioco autori di destra a scrivere libri dove poter dire che per gente come lui, Dylan o altri è sempre stata solo una questione di soldi. Le istanze di allora vanno seppellite, con qualsiasi mezzo necessario. E per questo bici e No tav danno fastidio, perché sono elementi non omologabili.
Anche per questo è piuttosto fastidioso il riferimento di De Gregori ai sindacati in un paese dopo la disoccupazione viaggia sul 12 per cento per non parlare dei precari. Soprattutto se fatta nella condizione di chi ha un portafoglio di diritti Siae foraggiato da un sistema che oggi premia le posizioni di rendita e rende difficile a chi fa lo stesso mestiere di sbarcare il lunario se non proprio diventare famosi fuori dai circuiti dei talent show. Questo, però, non impedisce ad altri come – per esempio – Dente, Colapesce, Dimartino, Alessio Lega di essere cronisti in musica di storie private e universali, o pubbliche ed arrabbiate di un’Italia che da tempo sembra mancarare tra le tracce degli ultimi lavori di De Gregori. Un impegno che, invece, non ha mai smesso di portare avanti senza interviste in tv o su giornali blasonati un altro artista come ad esempio Massimo Bubola, che è quasi coetaneo di De Gregori e che recentemente ha inaugurato il suo progetto «Instant Songs» con una canzone su Federico Aldrovandi. Perché, certo, come ha cantato qualcuno magari è solo rock&roll e non ci si fanno rivoluzione, ma qui in ballo c’è qualcosa si più: ovvero la capacità di promuovere un pensiero libero e alternativo. Qualcosa che ha molto a che fare con le parole di Fabrizio De André quando nel 1998, in piena euforia social-liberista, disse: «Gli artisti maledizione, un intellettuale integrato io l’ho capisco, l’intellettuale, poverino è uno che legge dentro le righe, legge dentro le righe e capisce quello che succede molto più degli altri; Capisco che se non è artista, se non riesce a trasformare quello che capisce in qualche cosa di altro che arriva ancora meglio, deve integrarsi perché altrimenti muore di fame; Ma l’artista non ha bisogno d’integrarsi, l’artista non deve integrarsi! L’artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere, se si integrano gli artisti c’è l’abbiamo nel culo! io sono convinto di questo.. mpf scusa… ». E di artisti che la società si crea contro il potere ne abbiamo sempre più bisogno.
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