Chi il carcere lo vede, chi lo capisce, chi ci lavora ogni giorno, sa perfettamente che nella maggior parte dei casi la prigionia, cioè la punizione fine a se stessa, è inutile e quasi sempre dannosa. Chi il carcere lo vede, chi lo capisce, chi ci lavora ogni giorno – racconta Alessandra Ballerini su Repubblica di Genova – sa che quel non-luogo è prima di tutto un raccoglitore di storie in cui la “pena” comincia prima della detenzione (storie di povertà, migrazioni forzate, disagio sociale, dipendenza, disturbi mentali, tragedie o conflitti familiari…). Chi il carcere lo vede, chi lo capisce, chi ci lavora ogni giorno, sa anche che la pandemia dietro le sbarre ha accresciuto le angosce e ridotto gli spazi. Eppure si dovrebbe andare in carcere perché si è puniti, non per essere puniti…
Obbedendo inconsciamente all’imperativo morale di Piero Calamandrei “bisogna vedere” siamo tornati a “vedere” il carcere di Marassi di Genova con il consigliere Gianni Pastorino e il Riccardo Campus, medico. Bisogna “vedere“ e bisognerebbe capire. Per questo la lettura dell’ultima relazione al Parlamento del Garante dei diritti delle persone private della libertà é un ottimo strumento di comprensione anche per chi non ha la possibilità di visitare il carcere. Mauro Palma, il garante nazionale, durante la presentazione della relazione ha pronunciato una frase che è rimbombata nella testa di ogni ascoltatore, compresi i più distratti: si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti. Il carcere, la privazione della libertà e dunque la mortificazione della dignità scippata della responsabilità personale, è già la pena, di per sé terribile. Non occorre e soprattutto non è giusto né legittimo, aggiungerne altre.
Visitando le labirintiche sezioni del carcere genovese, scambiando gli sguardi con quelli attenti e angosciati delle persone ristrette, parlando con la direttrice e la vicecomandante, si ha la chiara sensazione che chi entra in carcere sia già stato punito e non solo dal giudice. Chi ci accompagna con pazienza e competenza in questo viaggio, ci racconta le storie di tutti questi volti nascosti dalle grate e di ciascuno ricorda i nomi. Sono storie in cui la “pena” è iniziata ben prima della carcerazione. Sono storie di povertà, migrazioni forzate, disagio sociale, dipendenza, disturbi mentali, tragedie o conflitti familiari. Sono storie di sfortune e inciampi nelle quali è mancata una mano tesa di aiuto e la caduta alla fine si è rivelata rovinosa e senza rete di protezione. Queste persone stanno rinchiuse qui dentro non solo e non tanto per gli errori commessi ma perché non si sa dove altro metterli e perché nessuno se ne è potuto o voluto prendere cura. Il carcere non è evidentemente la soluzione, ma solo un nascondiglio. Come mettere la polvere sotto il tappeto.
In assenza di un numero adeguato di assistenti sociali e psicologi, come lamenta la direttrice, queste creature non vedranno che accrescere i loro disagi e la loro rabbia. Chi il carcere lo vede, chi lo capisce, chi ci lavora, sa perfettamente che nella maggior parte dei casi la prigionia, cioè la punizione fine a se stessa, il dolore e l’emarginazione che comporta, non solo è totalmente inutile ma quasi sempre dannosa e talvolta fatale (il sito Ristretti orizzonti ci ricorda che nei primi otto mesi del 2020 nelle carceri italiane sono morte 108 persone e di queste 41 si sono suicidate, ritenendo la morte più accettabile della reclusione). A Marassi nello scorso ottobre due persone si sono impiccate.
Al momento della nostra visita a fronte di una capienza massima di 546 uomini, le persone detenute sono 689. Tra loro molti hanno meno di venticinque anni, a volte sono poco più che diciottenni, costretti condividere la pena con adulti. Oltre il 60 per cento delle persone recluse sono straniere (non perché delinquano di più ma perché più facilmente vengono “puniti” col carcere) e circa un sesto dei ristretti ha problemi di tossicodipendenza. La pandemia, anche e soprattutto in carcere, ha accresciuto le angosce, ma ha ridotto gli spazi (in barba all’invocato distanziamento sociale) perché si sono dovute sacrificare delle stanze destinandole alle “quarantene” per i nuovi giunti e ridotto ulteriormente le possibilità di accesso dei volontari e le visite dall’esterno.
Ogni volta che, come osservatrice di Antigone, varco il cancello in uscita, riempendomi i polmoni di aria come fossi stata in apnea per tutta la visita, mi sento sopraffatta dall’impotenza: abbiamo visto si, ma bisognerebbe fare.
Alessandra Ballerini è avvocata civilista specializzata in diritti umani e immigrazione. Tra i suoi libri La vita ti sia lieve (Melampo edizioni), storie di migranti e altri esclusi.
*Pubblicato su Repubblica di Genova il 13 settembre 2020 (qui con l’autorizzazione dell’autrice).
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