di Carlo Ridolfi
Con ottime ragioni Ernesto Assante su “La Repubblica” e molti altri su riviste e telegiornali hanno ricordato il cinquantesimo anniversario dell’uscita nelle sale cinematografiche di Yellow Submarine, firmato alla regìa da George Dunning. Si tratta di un capolavoro del cinema e del cinema di animazione in particolare, mai abbastanza lodato e, soprattutto, mai abbastanza rivisto, che qui però vorrei ricordare per parlar di scuola.
Era il 1971 – quindi il film era uscito da appena tre anni – e nella classe delle medie che frequentavo una professoressa di educazione artistica destinata nella memoria mia e dei miei compagni a diventare un mito ci parlò a lungo di Yellow Submarine.
La scuola che frequentavo stava (e sta) nell’immediata periferia sud di Verona. All’epoca il quartiere in cui abitavo e quello in cui si trova la scuola erano divisi dalla linea ferroviaria Verona-Bologna e la divisione del binario (unico) segnava un confine decisivo, non solo fisico, tra due quartieri affatto diversi. La mia classe, composta di soli maschi, aveva al suo interno ragazzini dell’uno e dell’altro quartiere e, in quanto a composizione socio-economica, si andava dal figlio del farmacista a quello che già in quell’epoca non solo fumava assai ma si era già sperimentato nell’asportazione fraudolenta di qualche autoradio (si era nell’era in cui le autoradio erano ancora asportabili). Ciò non aveva impedito che nella classe si fossero composti quell’affiatamento e quella complicità che sono propri dei gruppi amicali più riusciti.
In questo contesto, per come erano organizzati programmi e orari, l’educazione artistica non era propriamente la materia considerata più importante. L’apparizione dell’insegnante, che chiamerò Cristina, fu tuttavia indimenticabile, così come le ore passate con lei nei tre anni della scuola media. Cristina era giovane, alta, bionda, portava i capelli con la coda di cavallo, indossava spesso una non vertiginosa ma elegante minigonna. Una donna bella e intelligente, che ci conquistò tutti non solo per l’aspetto fisico, ma per la qualità e la passione del suo insegnamento. Persino il sottoscritto, dalle capacità artistiche pressoché nulle, riuscì a combinare, grazie al suo insegnamento, qualcosa di decente nell’ambito delle arti plastiche e figurative.
Un giorno Cristina entrò in classe con un giradischi. Mise sul piatto il 33 giri con la colonna sonora de “Il dio serpente” (film non memorabile, ma la musica di Augusto Martelli e il tema Djamballa si fa ancora sentire) e dopo avercela fatta ascoltare ci disse: “Dipingete le vostre sensazioni”.
Un altro giorno, appunto, ci parlò di Yellow Submarine. Ci parlò, cioè, di un film che nessuno di noi aveva ancora visto, perché non era arrivato nelle due sale cinematografiche (una privata e una parrocchiale) del nostro quartiere, ma solo nelle per noi inarrivabili sale del centro città. Ricordo l’anno: era il 1971. Non c’erano né vhs né tantomeno dvd o blu-ray. Internet era un’idea che forse si trovava in qualche romanzo di fantascienza. Non solo: se anche il film fosse stato trasmesso dalla televisione, la televisione allora aveva solo due canali ed erano entrambi in bianco e nero, quindi si sarebbero persi i magnifici colori coi quali fu realizzato il capolavoro con i Beatles1.
La professoressa Cristina ci fece vedere qualche fotografia, tratta da riviste dell’epoca. Ci fece riascoltare qualcuna delle canzoni inserite nel film. Ci parlò della pop-art e di illustratori inglesi dell’Ottocento, come Aubrey Beardsley. In una poche parole: catturò il nostro interesse che fu per sempre suo in tutte le ore della sua materia che seguirono.
Mi ripeto: scuola di periferia di una provincia veneta, anni Settanta, composizione sociale quanto mai mista. Nessuno degli insegnanti che avevamo, nemmeno Cristina, che era la più giovane, sarebbe da collocare nella comoda casella “sessantottini”.
In terza media ci capitò una professoressa di lettere, che chiamerò Rossana, con gli occhialini spessi tenuti da una catenella d’oro. Nulla di apparentabile all’iconografia della rivoluzionaria in eskimo e sciarpa rossa. Eppure anche lei, un giorno che ricordo bellissimo, smise di leggere una poesia di D’Annunzio prevista dal programma e ci disse: “Non mi piace proprio. Prendete quest’altra che sta sull’antologia”. “Quest’altra” era Johnnie Sayre, dal Spoon River di Edgar Lee Masters. La storia di un adolescente che finisce sotto un treno, come quelli che passavano vicino a scuola. Non ci fu uno di noi che non la imparò a memoria. Non per prescrizione imperativa dell’insegnante, ma per la travolgente emozione che era riuscita a farci provare.
Di Cristine e di Rossane ne esistono ancora? La risposta, che posso dare con assoluta certezza, è: sì! Ne esistono nelle scuole di ogni ordine e grado e dalle Alpi a Lampedusa. Ne conosco e le vedo (o li vedo, anche se i maschi, soprattutto nelle scuole dell’infanzia e nella primaria, sono davvero troppo pochi) lavorare e le incontro agli incontri della Rete di Cooperazione Educativa.
Così come io e i miei compagni di classe dal 1971 abbiamo avuto la fortuna di imparare la letteratura italiana ma anche quella americana, l’arte classica ma anche quella contemporanea, la musica colta ma anche quella popolare, anche bambini e ragazzi di oggi trovano insegnanti appassionate, prima ancora che della materia di competenza, della vita.
Perché in fondo, forse, nel vortice della complessità c’è una piccola semplice verità: le persone che incontriamo si possono dividere in due categorie. Quelle che ci rendono la vita migliore e quelle che ce la peggiorano. Cristina, Rossana, altri che ho incontrato all’epoca del Sottomarino Giallo stanno nel primo gruppo e ancora oggi le ringrazio.
1 Il 1 gennaio 1972 il film fu proiettato in una puntata speciale della bellissima trasmissione Mille e una sera, ma la televisione era ancora in bianco e nero.
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