di Lino Di Gianni*
Due donne del Marocco, vestite con abiti tradizionali, penso fossero arrivate da poco qui.
In tanti anni di insegnamento con i migranti, riconosco chi cerca di adattarsi al nuovo ambiente, mantenendo magari solo il foulard in testa, come segno di identità, e chi invece arriva con gli abiti che usava nel proprio paese, fortemente segnati dalla comunità di appartenenza.
Queste donne, con i vestiti lunghi fino ai piedi e un bambino in braccio, comunicavano con il paese di origine con il cellulare, elemento di una modernità subito accettata per la praticità e i vantaggi che comportava.
Molti ragazzi giovani africani, con i pochi soldi che hanno, appena possono si comprano belle scarpe da ginnastica. Il segno di un sogno già realizzato, qui e ora. Possono essere anche loro, con quelle scarpe ai piedi, dalla parte ricca della modernità, e non da quella perdente che muore di inedia e sfruttamento nei paesi di origine: Mali, Gambia, Costa d’Avorio, Nigeria, Togo.
I miei corsisti cinesi hanno invece salde radici con la loro comunità, che vive comunque come mondo parallelo (lavorano e vivono e parlano quasi sempre con altri connazionali).
Ma qualcosa sta cambiando: arrivano ragazzi che hanno studiato, e che non si accontentano più di usare al massimo la bicicletta, ma vogliono integrarsi prendendo la patente, per essere autonomi.
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Anche le ragazze cinesi ci tengono a vestirsi alla moda, ma è una moda che si alimenta di risparmio, di imitazione di modelli costosi: ma anche i vestiti cinesi, imitazioni a poco prezzo, stanno raffinando le loro offerte, migliorando la cura dei particolari.
Ogni volta che vedo ragazzi giovani che entrano nelle mie classi mi sorprendo a constatare quanto vi sia , in loro, di sorpresa, nell’imparare una lingua nuova. Quasi fossero di fronte a un animale sfuggente, astuto, mutevole e loro compito fosse quello di seguirne attentamente le tracce, per catturarlo, e assumere su di sé il potere di una ricchezza nuova.
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