In che modo è possibile uscire dal circolo infernale della mercificazione del pianeta? La domanda attraversa le pagine del libro Re Mida di Paolo Cacciari. Non si tratta solo di riconoscere le diverse crisi in corso e i loro legami, a cominciare dalla forte sperequazione nella distribuzione della ricchezza: c’è da mettere in discussione l’idea che l’economia sia un processo senza soggetto (mentre è figlio di un modello antropologico strutturalmente violento che si nutre ogni giorno di patriarcato, colonialismo, estrattivismo, classismo e specismo) e c’è da prendere le distanze dal mito dei progressi tecnologici come àncora di salvezza. Le vie d’uscita dal capitalismo sono i sentieri aperti dal pensiero e dalle esperienza della decrescita. Di certo un nuovo modo di stare al mondo non nasce dalle istituzioni ma attraverso quei tentativi in corso di creare ovunque comunità eco solidali
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In Re Mida, edizioni La Vela, Paolo Cacciari continua la sua analisi sui limiti strutturali del sistema economico capitalista e sulle possibili vie d’uscita da un sistema di cui, da tempo, si sono cominciati a raccogliere i frutti avvelenati, sia sul piano sociale che ambientale. In che modo è possibile uscire dal circolo infernale della mercificazione del pianeta? Modificando il sistema che lo alimenta, in direzione di una sua sostenibilità, come suggerisce il nuovo motto reset capitalism intonato da grandi imprese e alta finanza, oppure spezzando il circolo per poterci ritrovare fuori, in un altro mondo possibile? Se quella tra capitale e mondo della vita fosse una “contraddizione ontologica”, come suggerisce l’autore, la via d’uscita non potrebbe che essere una, quella del superamento del capitalismo.
La direzione indagata, in maniera rigorosa e interdisciplinare, coniuga il pensiero ecologista la cui primavera, datata 1972, sfiorì troppo presto a causa dell’avvento del dogma neoliberista, con quello della decrescita, spesso vituperata come una prospettiva socialmente ed economicamente regressiva, ma che oggi, come scrive l’autore, “comincia a non essere più un tabù”, ma una strada obbligata per salvare la vita sul pianeta, compresa quella della specie che più l’ha messa a rischio.
LEGGI ANCHE L’INTRODUZIONE DEL LIBRO RE MIDA DI P.CACCIARI:
Il pianeta è malato e noi esseri umani non stiamo meglio. Come scrive papa Bergoglio, “non ci si può illudere di essere sani in un mondo malato”. I sintomi della malattia, ambientali e sociali, perché le due dimensioni, come spiega Cacciari, sono interrelate, sono sotto gli occhi di tutti: aumento della temperatura media globale della terra, con eventi climatici estremi sempre più frequenti (ondate di calore, incendi e inondazioni), accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai con conseguente aumento del livello dei mari e del permafrost, con il ritorno in vita di virus e batteri sepolti da migliaia di anni (ricordiamo recentemente i 13 virus ‘zombie’ resuscitati, che erano rimasti intrappolati per millenni nel permafrost della Siberia), inquinamento di aria e acqua, crescita di siccità e desertificazione, acidificazione degli oceani, perdita di fertilità del suolo e di biodiversità (si pensi ad esempio, che secondo l’indice del WWF, dal 1970 al 2018, il mondo ha perso il 69 per cento della fauna selvatica, mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci), pandemie da zoonosi, crisi alimentari e povertà in aumento in varie fasce del pianeta, violenza urbana dilagante, terrorismo e conflitti militari senza soluzione di continuità. Per diagnosticare questa malattia, è necessario, come vuole l’etimo greco della parola diagnosi (διάγνωσις), “riconoscere attraverso” questi sintomi, le cause della patologia, della quale quest’ultimi ne sono la manifestazione. Le cause sulle quali c’è una diffusa condivisione, sono l’ipersfruttamento delle risorse naturali e dei servizi eco-sistemici, legati all’aumento esponenziale delle attività antropiche a partire dalla rivoluzione industriale, e la relativa crescita della popolazione mondiale. Con il conseguente crescente rilascio nell’atmosfera di gas climalteranti, come CO2 e metano, derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili e dall’enorme diffusione degli allevamenti animali intensivi, e di agenti inquinanti, prodotti di sintesi e derivati del petrolio, una massa enorme di scarti non metabolizzabili dai cicli vitali della biosfera.
C’è anche una certa convergenza sulle cause che innescano crisi e conflitti sociali, in gran parte legati a una forte sperequazione nella distribuzione della ricchezza e nell’accesso a risorse e servizi fondamentali. Come ci ricorda Paolo Cacciari nel suo volumetto, Decrescita, “la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani. Secondo le elaborazioni di Oxfam International, nel 2018 soltanto 26 individui (contro i 43 del 2017), possedevano tanta ricchezza pari alla metà più povera dell’umanità, ossia 3,8 miliardi di persone. Su quelle che innescano conflitti militari, almeno quelli moderni, una volta depurate dagli elementi ideologici e propagandistici, si tratta sempre di controllo di territorio, risorse naturali e materie prime.
Sulle cause che precedono quelle descritte, di ordine eminentemente politico economico sociale, e ancora più indietro, antropologico, c’è molta meno condivisione. Sono però proprio queste ultime, a partire dalle quali le terapie che si possono istituire per curare il pianeta e noi stessi divergono, che Paolo Cacciari indaga in questo libro.
Un filo rosso chiamato capitalismo
A livello politico economico, in un momento come questo, in cui le diverse crisi, climatica, ambientale, pandemica, economica e del debito, sociale e del lavoro, democratica, migratoria, alimentare e da ultima quella della guerra, sembrano deflagrare, alimentandosi l’un l’altra, diventa quanto mai necessario chiedersi se esista un filo rosso che tutte le tiene assieme. Secondo Cacciari questo fil rouge esiste e ha un nome: capitalismo. Se la teoria della complessità ha dimostrato la natura relazionale di ogni ente, ovvero che “la realtà è fatta di relazioni, prima che di oggetti”, il capitalismo, facendo precipitare queste crisi l’una sull’altra, ha funzionato come un mezzo di contrasto, che ci permetta di visualizzare concretamente la natura sistemica, ovvero interconnessa, del pianeta e degli organismi che ci vivono. Il problema è che questo sistema economico, nella sua strutturale necessità di accumulazione crescente del valore di scambio di ciò che produce e consuma, tende a somigliare sempre più a un processo metastatico che, nella sua riproduzione infinita, porta al collasso finale lo stesso organismo che lo ospita. La modalità operativa del sistema economico capitalista, come riconosciuto da molti, è strutturalmente distruttiva, è una permanente “creazione distruttiva”, come scriveva l’economista Shumpeter. Tutto ciò che la società capitalista costruisce è destinato ad essere distrutto per diventare occasione futura di investimento e profitto. Il capitalismo si nutre delle sue stesse crisi periodiche, che diventano altrettante occasioni per rilanciarlo attraverso ristrutturazioni industriali, fusioni di società, innovazioni, nuovi prodotti finanziari, che lasciano però ogni volta sul tappeto perdite economiche, occupazionali, consumo di natura e “materiali di scarto non metabolizzabili dai cicli naturali”. In questo senso, come scrive Cacciari, “la green economy e la pandemia sono l’occasione per innescare un nuovo ciclo di profitti e di accumulazione di capitali”. Ma se questa prassi era sostenibile entro una certa scala di sviluppo, oggi non lo è più, perché creare e distruggere per crescere, uniti al circolo vizioso del “prendi/produci/consuma/smaltisci”, velocizzato dall’obsolescenza programmata delle merci, lasciano dietro di sé un crescente resto non metabolizzabile, non riciclabile, che produce un’accelerazione dell’entropia e dell’instabilità del sistema mondo.
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Sembra esserci una “contraddizione ontologica”, tra capitale e natura, tale da rendere anche la transizione ecologica in chiave tecnologica, prospettata dalla green economy, che lascia inalterato il paradigma di fondo del capitalismo, ovvero la crescita infinita, un mero e pericoloso palliativo. Laddove, infatti, non si trasformino anche le categorie mentali e i valori che presiedono alla nostra prassi individuale e collettiva, ogni cambiamento green rischierà di essere solo un maquillage, un green washing, che lascerà inalterata questa contraddizione di fondo. L’idea illusoria della crescita senza limiti, green o meno che sia, che sta alla base del sistema di produzione capitalistico, si scontra con l’evidenza di un pianeta dalle risorse limitate, anche quelle che servono ad alimentare la cosiddetta “economia immateriale” e la “salvifica” svolta green, ovvero le tanto contese “terre rare”, impiegate in diversi campi, dai chip dei semiconduttori, onnipresenti nell’elettronica, dai computer agli smartphone. Fondamentali perciò nel settore aerospaziale, nei veicoli elettrici, nelle turbine eoliche e in tutti quei servocomandi elettronici diventati le nostre protesi fisiche e cognitive con cui stiamo al mondo. Cacciari ricorda come “per produrre qualsiasi tipo di merci, anche quelle più soft e smart, più miniaturizzate e immateriali, vi sia sempre bisogno di un contributo di energia e di materie prime”. E che il consumo di energia e le relative emissioni nell’uso delle tecnologie digitali sia andato progressivamente aumentando, arrivando al 4 per cento del totale, pari all’intero settore aeronautico. Questo significa che “l’impronta ecologica del sistema cresce anche con la green economy” e che il decoupling, ovvero l’obiettivo di quest’ultima di disaccoppiare la curva di crescita del PIL da quella dell’impatto ambientale, è annoverabile a un pensiero magico.
La paventata soluzione tecnologica alla catastrofe climatica e ambientale in corso, ovvero quell’abbraccio denso di incognite di tecnica e capitale promosso dal capitalismo 5.0, con il suo motto reset capitalism, con cui vuole darsi una riverniciatura etica e portato avanti dalle grandi imprese e dai filantropo capitalisti, Bezos, Musk e Gates, rinnova il mitico archetipo di Prometeo. Quest’ultimo aveva donato agli uomini la tecnica, ma i greci, che conoscevano bene la hybris degli umani e l’orizzonte privo di senso della tecnica, la quale non significa nulla, ma funziona, avendo in vista solo il potenziamento di se stessa, l’avevano incatenato. A partire dalla modernità Prometeo è stato liberato e assieme al tocco di Re Mida, si è scatenato, come scriveva Hans Jonas nel suo Il principio responsabilità.
Progressi tecnologici
Fanno impressione diverse cifre che tu riporti, tra le quali, quelle relative alla “’massa antropogenetica’, costituita dagli stock di materiali solidi incorporati e accumulati negli oggetti prodotti dagli esseri umani ancora in uso, che ha superato in ‘peso secco’ il volume della biomassa vivente animale e vegetale globale complessiva”. In particolare della plastica (8 Gt), doppia rispetto a quella di tutti gli animali marini e terrestri viventi (4 Gt) e di edifici e infrastrutture (1100 Gt) che supera quella di tutti gli alberi e arbusti esistenti sulla faccia della terra (900 Gt). E quelle relative al rapporto globale tra la biomassa degli esseri umani (36 per cento), quella degli animali da allevamento (60 per cento) e della fauna selvatica (4 per cento). Nonostante i progressi tecnologici di efficientamento degli apparati produttivi occorsi in questi decenni, il prelievo di materie prime naturali e l’utilizzo dei servizi eco sistemici (acqua, aria, suolo, foreste ecc.) è andato progressivamente aumentando assieme al loro deterioramento. La stessa green growth e la digitalizzazione dell’economia non fanno eccezione, a conferma del paradosso dell’economista W. J. Jevons, citato da Cacciari, secondo il quale “in un contesto macroeconomico di tipo capitalistico i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa, fanno aumentare il consumo di quella stessa risorsa”.
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Cacciari è anche molto critico sugli esiti di cinquantanni di COP, non ultima la recente COP27, diventate il campo di battaglia, in cui si combattono organismi internazionali, stati e lobbies delle fonti energetiche fossili (“Alla COP27 hanno partecipato almeno 636 lobbisti delle industrie petrolifere e del gas, che avranno fatto del loro meglio per influire su tutte le decisioni. Un record rispetto alla COP precedente: a Glasgow erano appena 503”1), ognuno impegnato a tutelare i propri interessi economici. Con risultati sempre mediocri e impegni mai vincolanti per la riduzione delle emissioni climalteranti. Lo stesso risultato della COP27, in merito a un fondo per il risarcimento per le perdite e i danni (loss&damage) dei paesi non responsabili e più vulnerabili ai cambiamenti climatici, rimane quanto mai vago. A questo punto, come suggerisce anche Guido Viale, sarebbe meglio che questi consessi mondiali non venissero nemmeno più convocati. Del resto gli stessi obiettivi delle COP, sono andati regredendo negli anni, da quella di Kyoto (1997) che ha introdotto quel mercato dei crediti di carbonio che ha generato storture come la cartolarizzazione dei certificati di diritto a inquinare, a quella di Parigi (2015), in cui si è dismesso l’obiettivo di ridurre realmente le emissioni per poi azzerarle, a favore del concetto di “neutralità climatica” e dell’obiettivo di mitigarle e adattarsi.
Ma se l’ambiente è sotto attacco, sottolinea Cacciari, lo sono anche il lavoro e la democrazia. Il primo svalutato, supersfruttato e precarizzato, la seconda ostaggio dei conglomerati e delle elites economiche, che modellano società, leggi, costituzioni e vita delle persone affidandosi a società di consulenza come la McKinsey, che da “forma al capitalismo da decenni, dispensando strategie aziendali e indirizzando corporation e stati alla ricerca del profitto. Con ogni mezzo necessario”.
Il punto è che la logica della merce e del profitto promesso, che si sono impadroniti del nostro pensiero, dei nostri comportamenti, della nostra prassi, ma anche della nostra percezione del mondo, fanno si che la particolarità di ogni cosa venga riportata all’universalità della scala del valore di scambio del Capitale, sciogliendo la sua dimensione qualitativa singolare, nella computabilità aritmetica del suo valore economico. La cellula elementare della merce, riproducendosi su scale crescenti, come un oggetto frattale, fa si che il sistema del Capitale tenda a sussumere ricorsivamente nella sua astrazione, l’intera realtà. Le differenze tra le cose vengono assorbite all’interno di un’identità astratta che si declina secondo la categoria della quantità, rimanendo differenze solo nell’inessenzialità del loro apparire e del loro valore d’uso, diventato, quest’ultimo, la mera forma fenomenica sotto le cui spoglie comanda il valore di scambio. L’essenza delle cose diventa infatti la loro calcolabilità in termini di valore economico, la quale ne permette la loro infinita permutabilità. Le trasformazioni che la realtà subisce, diventano ripetizioni proteiformi dell’identico paradigma astratto della merce, all’interno del quale ogni differenza si annulla.
Un sistema economico senza soggetto?
A differenza di quanti pensano che questo sistema economico, sia ormai diventato un processo senza soggetto (umano), che ri-definisce autonomamente e autopoieticamente di continuo se stesso, Paolo Cacciari ritiene invece che esso sia figlio di un modello antropologico impostosi storicamente, quello che contiene “l’idea folle del dominio dell’uomo (inteso proprio come individuo maschio, bianco, adulto, sano e benestante) su tutto ciò che riesce a sottomettere. Idea questa, tra l’altro, alla base del movimento politico alt-right, nato in questi anni negli Usa in opposizione al neo conservatorismo repubblicano. E che patriarcato, colonialismo, imperialismo, estrattivismo, classismo, specismo, siano le varie forme conosciute di questa dominazione”. Un modello strutturalmente violento, che quando non è implicato nella guerra guerreggiata, lo è nella sua malriuscita forma sublimata, ovvero l’economia capitalistica di mercato, la quale mima la prima, attraverso pratiche competitive e violente, in una sorta di guerra di tutti contro tutti, come scrive papa Bergoglio, condotta con altri mezzi. Del resto, l’economista Bernard Maris, nel suo Capitalismo e pulsione di morte, sostiene che “la grande astuzia del capitalismo … sta proprio nel dirottare le forze annientatrici e canalizzare la pulsione di morte verso la crescita”. La tesi di Maris, è che le energie distruttive di questa pulsione di morte, che il capitalismo utilizza per i propri fini, avranno però il sopravvento e travolgeranno la vita, cosa che sta, con ogni evidenza, avvenendo.
Cacciari però non crede che “la malevolenza faccia parte del corredo genetico umano e che sia la logica della conquista, dell’appropriazione, della sopraffazione e della dominazione dei soggetti più deboli” quella che alimenta la guerra e l’economia capitalista, due facce dello stessa medaglia.
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Per uscire da questo loop senza via d’uscita, che non sia una catastrofe planetaria, secondo Cacciari è necessario un cambio di paradigma politico, economico, valoriale, antropologico, che inauguri un nuovo modo di stare al mondo, una nuova forma di civiltà. Programma quantomai difficile da realizzare, come egli stesso ritiene, se pensato sul piano istituzionale, che può però, come sta già accadendo, trovare modo di realizzarsi localmente, attraverso quelle esperienze di comunità eco solidali, diffuse anche nel nostro paese, che l’autore ha descritto nel suo 101 Piccole rivoluzioni. Con una ri-territorializzazione su scala locale delle attività produttive e di consumo che inverta quella de-territorializzazione promossa dalla globalizzazione, che ha generato un insostenibile, dal punto di vista ecologico, allungamento planetario delle supply chain. Un investimento sui luoghi, antagonista di quei flussi materiali e finanziari globalizzati, che hanno disarticolano e atomizzato società e comunità umane. Agendo un conflitto non violento verso l’alto delle istituzioni, per avviare “un processo di liberazione dai condizionamenti eteronomi, dalla sottomissione alle logiche tecnocratiche falsamente neutrali, dalla delega ai poteri costituiti”, e verso il basso, dentro di noi, “per decolonizzare le nostre menti dall’immaginario produttivista e consumista”.
Le vie d’uscita della decrescita
In questo quadro, il pensiero della decrescita, fino a poco tempo fa considerato regressivo sul piano sociale ed economico, sta diventando una delle possibili, se non l’unica, vie di fuga, come recita il titolo di un libro dell’autore, per mettere in salvo quanto resta ancora in vita del pianeta. Frainteso dai suoi detrattori, il pensiero della decrescita, non è un nostalgico e depauperante ritorno al passato, ma la ricerca di un punto di equilibro del sistema vivente, che ne permetta il mantenimento dinamico nel tempo. Una visione olistica che ricalca le scoperte delle scienze sistemiche più evolute, e che ha come fine la buona con-vivenza tra tutti gli esseri viventi. Per realizzare la quale è necessario ripartire dai fondamentali di quel pensiero ecologista, la cui primavera, datata 1972, venne bruscamente interrotta, come ricorda l’autore, dallo shock petrolifero, al quale seguì quell’egemonia culturale neoliberista, inaugurata nei primi anni ottanta dalla coppia Thatcher e Reagan. Come si trova scritto nella presentazione della Conferenza internazionale di Venezia del 2012, dell’Associazione per la decrescita: “la decrescita propone oggi non solo di abbandonare l’ossessione per la crescita e l’immaginario dello sviluppo illimitato, ma invita a misurarsi con questioni quali la crisi climatica ed ecologica, il saccheggio delle risorse, la crisi energetica, le lotte per la giustizia sociale ambientale, a fronte di una dipendenza crescente dalle tecnologie e di una crisi del legame sociale. Si tratta nientemeno che di intraprendere un percorso di riconversione e trasformazione delle basi materiali e culturali delle società cosiddette ‘sviluppate’”.
Per operare il “salto di civiltà” dall’antropocene all’ecocene, ci vengono in soccorso il pensiero filosofico nella sua fase aurorale e quello moderno critico dell’economia politica, quello scientifico sistemico della complessità e quello eco-femminista, e non da ultimo, la rivoluzionaria visione di “ecologia integrale” di un papa. Ma sapere, come scrive Cacciari, non è sufficiente, perché per operare una trasformazione antropologicamente profonda, si deve anche sentire empaticamente l’Altro e desiderare liberamente un cambiamento delle relazioni con esso1. Si devono de-reificare, re-umanizzandoli, i rapporti sociali all’interno dei quali il sistema capitalista ha trasformato gli individui in persone, ovvero in “maschere di carattere”, la cui identità si risolve nell’essere personificazioni di merci e il cui destino è legato a quello di queste ultime.2
Questa civiltà a venire richiederà un passaggio dal modello dell’homo oeconomicus prestazionale a quello dell’homo convivialis cooperativo, un’estensione della categoria di soggetto giuridico, portatore di diritti, alla natura intera e a ogni forma vivente, un re-incantamento del mondo che lo sottragga alla sua riduzione a fondo di materie prime a disposizione, un governo mondiale nel quale a ogni testa corrisponda un voto, un’etica della non violenza, del dono, della condivisione, dell’abbondanza frugale e della cura verso se stessi, gli altri e il pianeta tutto. Con al centro quei beni comuni, patrimonio collettivo dell’umanità, come ricorda Cacciari, che sono l’acqua, la terra, le foreste e le risorse naturali in generale, la biodiversità, l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace ma anche la conoscenza, i brevetti, la salute, la sicurezza alimentare e sociale.
In conclusione, se il destino di Re Mida, la mitica figura evocata dal titolo del libro, è la metafora di quello di un sistema, che trasmutando ogni cosa nel suo valore economico, anche la più impalpabile e in apparenza non monetizzabile, rischia di condurre la vita al suo tramonto, si spera, come nel mito, che almeno per la necessità di sopravvivere, ci si incammini al più presto lungo una strada diversa da quella senza via d’uscita, in cui ci troviamo oggi.
Postilla
A un certo punto del libro Paolo Cacciari pone la domanda delle domande: “perché nonostante le evidenze scientifiche, gli appelli delle autorità morali, le proteste dei giovani, nulla sta realmente cambiando nei meccanismi strutturali fondamentali che regolano l’economia mondiale?”. La sua risposta è: da un lato per lo strapotere delle lobbies delle industrie dei fossili, dall’altro per il timore delle classi dirigenti di compiere scelte impopolari che richiedono la riduzione di alcuni consumi. Tutto vero, ma a queste cause ne aggiungerei altre tre. La prima ha a che fare con la fase contemporanea del capitalismo, quella neoliberista, il cui potere stabilizzante non è più, come nella precedente fase industriale, disciplinare e repressivo, ma seduttivo e non più così visibile, il che rende ogni rivoluzione improbabile. Oggi, scrive Byung-Chul Han, “non c’è più una controparte evidente, non c’è un nemico che opprime la libertà e contro cui sarebbe possibile opporre resistenza. Il neoliberismo ha modellato, a partire dall’operaio oppresso, un libero imprenditore – un imprenditore di se stesso. Oggi, ciascuno è un operaio che si sfrutta da solo, un dipendente di se stesso. Ciascuno è al contempo servo e padrone, per cui la lotta di classe si è trasformata in una lotta interiore. Chi oggi fallisce si dà la colpa e si vergogna: individuiamo il problema in noi stessi, piuttosto che nella società … Il potere che salvaguarda il sistema assume oggi una forma affabile, ‘smart’, rendendosi invisibile e inattaccabile. Il soggetto sottomesso non sa nemmeno di esserlo, e anzi crede di essere libero. Il regime neoliberista usa la libertà invece di opprimerla. L’oppressione della libertà suscita ben presto resistenza. Lo sfruttamento della libertà no … È proprio questo falso senso di libertà a rendere impossibile la protesta”. La seconda e la terza riguardano la sfera pulsionale e inconscia dell’individuo. L’immaginario creato dal capitalismo, è penetrato molto in profondità e viene veicolato fin dai bambini, aprendo la loro finestra libidica verso la fantasmagoria delle merci (l’economia libidinale di cui parlava Lyotard). La spettacolarizzazione diffusa dell’universo della merce, attraverso marketing virale e industria culturale, ricordati anche da Cacciari, coopta il desiderio in una maniera sempre più raffinata, ingiungendo al consumatore un immaginario e mortifero godimento senza limiti, che fantasmaticamente lo dovrebbe risarcire di ogni perdita, in primis quella inaugurata dalla castrazione simbolica. La terza può essere ricondotta a “quell’elevato godimento narcisistico”, di cui scrive Freud ne Il disagio della civiltà, che anche nella soddisfazione distruttiva della pulsione sadica, “indica all’Io la realizzazione di antichi desideri di onnipotenza”. Onnipotenza, che la coazione alla crescita e all’accumulazione di denaro garantiscono, e che ha la funzione, al fondo, di esorcizzare la morte: “capitale crescente significa potere crescente, e un incremento di capitale indica un decremento di morte: il capitale si accumula per sfuggire alla morte. Esso è anche interpretabile nei termini di tempo coagulato: un capitale infinito produce l’illusione di un tempo infinito. Il tempo è denaro. Sapendo che la vita è limitata, ecco che si accumula capitale-tempo… il capitalismo è ossessionato dalla morte. A spingerlo innanzi è la paura inconscia della morte. La sua coazione ad accumulare e ad accrescere è stimolata dalla minaccia della morte e provoca catastrofi ecologiche e mentali”3. Fino a quando non si accetteranno finitezza, vulnerabilità e precarietà della condizione umana e quindi, in fondo, il nostro destino di mortali, nascondendoli dietro una cornucopia di merci con cui esorcizzarli, la vita sarà sempre ridotta a una “non morte” e non sarà mai una vita pienamente vitale.
Note
1A. Castagnola, Sul clima nel sud del mondo su https://comune-info.net/
2Byung-Chul Han, Perché oggi non è possibile una rivoluzione, Nottetempo, Milano 2022
3Qui la questione si fa difficile a causa dell’atrofia dell’esperienza e della desertificazione dei sentimenti, operati dalla società multimediale dello spettacolo, che ha ridotto gran parte delle persone a una massa spettatoriale incapace di farsi attore di cambiamento.
2Scriveva Marx ne Il capitale: “le persone esistono qui l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merce, quindi come possessori di merci. Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà, che le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra”.
Questo testo è stato preparato in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Paolo Cacciari, Re Mida, edizioni La Vela, in programma nella sede del Museo del ‘900 di Mestre (M9), mercoledì 14 dicembre 2022. Paolo Cacciari è un giornalista attivista dei movimenti sociali, ambientalisti e per la decrescita ed è stato amministratore pubblico e deputato. Collabora con diversi quotidiani. Nell’archivio di Comune sono leggibili più di duecento suoi articoli. Oltre ad alcune pubblicazioni da lui curate, Cacciari è autore di Decrescita o barbarie (Intra Moenia, 2008), Vie di Fuga (Marotta&Cafiero, 2014), 101 piccole rivoluzioni (Altreconomia, 2016), Ombre verdi. L’imbroglio del capitalismo green (Altreconomia, 2020) e Decrescita. Un rovesciamento culturale ( Marotta&Cafiero, 2020).
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