La Cina si conferma maggiore fornitore globale di prodotti tessili, seguita dall’Italia, cresce il low cost d’importazione cinese, che aggira le misure antidumping con il contrabbando, o produce direttamente nei distretti di Prato e Napoli. Di certo, la vendita dell’usato sconta ancora un gap culturale: il 29 per cento degli europei lo considera degradante (in Italia il 45 per cento) e restano diversi nodi irrisolti, come l’esposizioni alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Sono questi i risultati di una straordinaria ricerca dal basso sull’universo degli indumenti usati
di Riccardo Troisi
Un modello etico per la filiera degli indumenti usati è possibile? «Ci siamo dedicati per mesi a studiare a fondo la copiosa letteratura sull’argomento, ma sono state soprattutto le impressioni dei protagonisti del settore a indicarci le caratteristiche e i bisogni di questo composito universo», dice Pietro Luppi di Occhio del riciclone (Odr), presentando un lavoro realizzato dal Centro di Ricerca economica e sociale di Odr.
Lo studio intitolato «Indumenti usati: una panoramica globale per agire eticamente» è stato presentato il 15 luglio presso la sede del Cesv (Centro servizi per il volontariato), in collaborazione con il Cnca Lazio. Nel documento composto da oltre 180 pagine, il Centro Studi ha analizzato la filiera globale dell’abbigliamento svelandone funzionamento, protagonisti, nodi critici e opportunità, offrendo un punto di vista imparziale su un universo complesso e spesso soggetto a interpretazioni di parte che ne hanno sempre limitato una piena comprensione.
L’universo dei beni usati non è un’isola
Perché analizzare l’intera filiera dell’abbigliamento e non concentrarsi esclusivamente su quella, già complessa e ingarbugliata, degli indumenti usati? Secondo Luppi, «il mercato dei beni usati e dei beni nuovi non sono filiere separate, ma due mondi strettamente correlati che si influenzano a vicenda. Guardare all’abbigliamento usato come se fosse una filiera a sé stante e non considerare le innumerevoli correlazioni col settore del nuovo, potrebbe essere un’operazione fuorviante e sicuramente ricca di intoppi interpretativi».
«Per capire l’usato è indispensabile comprendere le tendenze del nuovo e i suoi meccanismi: il prezzo delle materie prime (il cotone, in particolare), la delocalizzazione produttiva delle manifatture tessili cinesi e i dazi antidumping applicati ai prodotti tessili, la rotazione nel ricambio di indumenti nuovi nei paesi a reddito elevato», prosegue.
I risultati della ricerca
Cosa emerge dallo studio? La Cina si conferma maggiore fornitore globale di prodotti tessili, seguita dall’Italia (seconda forza esportatrice di prodotti tessili e terzo Paese esportatore di macchinari per il tessile. A causa della flessione del potere d’acquisto interno il mercato si orienta verso il nuovo low cost d’importazione cinese, che aggira le misure antidumping attraverso canali di contrabbando, o producendo direttamente nei distretti low cost di Prato e Napoli che riproducono in scala minore il modello delle «company town». L’interazione tra nuovo e usato è evidente anche nel settore degli ambulanti dell’usato, che entrano in competizione diretta con il nuovo low cost e dove si sommano difficoltà nell’approvvigionamento di merci da destinare al consumo interno a causa della tendenza da parte dei grossisti a privilegiare le nuove rotte dell’Est. Aumenta intanto il numero dei paesi che proibiscono od ostacolano l’importazione di abiti usati per difendere i propri settori tessili incipienti e cresce seppur di poco la raccolta differenziata del tessile in Italia, che si attesta per il 2012 sulle 99.900 tonnellate (1,63 chilogrammi procapite). Di certo, la vendita dell’usato sconta ancora un gap culturale: il 29 per cento degli europei lo considera degradante, in Italia la soglia sale al 45 per cento. I più «schizzinosi» si confermano i portoghesi (51 per cento). Restano infine i nodi irrisolti di parte del settore esposto alle infiltrazioni della criminalità organizzata, alle raccolte private illecite e al contrabbando transfrontaliero che i dazi e le moratorie non riescono ad arginare.
La filiera dell’usato segue alcune direttrici principali: i Paesi ricchi (Stati uniti, Europa dei 15, Corea del Sud e da poco anche la Cina) raccolgono in maniera sempre più efficiente i propri rifiuti tessili. In accordo con il mondo della solidarietà, spesso attraverso la cooperazione sociale che rivende a intermediari e grossisti il raccolto, lo stesso viene igienizzato, separato in più frazioni per titologia, qualità e destinazione. Gli indumenti usati a quel punto possono seguire diverse strade: una quota parte viene destinata agli enti di solidarietà per il fabbisogno locale delle fasce più deboli della popolazione (o vengono dati contributi in denaro per sostenere progetti di solidarietà in diverse parti del mondo), le parti più ricche (cosiddetta crema o prima scelta) vendute agli ambulanti locali (anche su questa frazione però si fanno strada i Paesi dell’Est Europa), esposta in negozi e boutique (specie il vintage, tornato fortemente di moda), ma la stragrande maggioranza del raccolto prende la via dell’estero (soprattutto Nord Africa, Africa subsahariana, Est Europa e Russia).
Lo sapete che l’Italia importa abiti usati?
Questa dinamica può riproporsi anche tra Paesi a reddito elevato differente: l’Italia ad esempio importa abiti usati da Germania, Austria, Svizzera e Stati uniti. Le barriere antidumping e le moratorie sui vestiti usati imposte da numerosi Paesi, per proteggere le proprie industrie tessili locali; il consolidamento dei settori tessili locali è reputato strategico nei processi di industrializzazione. Allo stesso tempo, però, i distributori informali dell’usato vantano un tasso di impiego venticinque volte superiore a quello della distribuzione del nuovo, e nei loro paesi entrano in conflitto con i sindacati tessili che reclamano la proibizione dell’usato.
Di fronte a questa complessità di fattori, i soggetti non profit che si dedicano alla raccolta degli indumenti usati assumono in prevalenza un approccio di tipo territoriale, producendo impatti positivi localmente ma senza intervenire nei seguenti anelli della filiera. Esiste poi un approccio alternativo/compensativo, più raro e fondato sul sostegno di produzioni tessili locali per compensare il «danno» compiuto esportando l’usato, oppure sul contatto diretto con i canali della distribuzione al dettaglio dell’usato per stabilire una più equa ripartizione dei margini (spesso accaparrati da grandi grossisti).
Occhio del Riciclone propone invece, all’interno dello studio, un approccio di tipo Protagonista, fatto di «snodi etici» modulari e riconvertibili a seconda delle tendenze dei mercati locali e che si dedichino a produrre e distribuire sia nuovo che usato; la riconvertibilità consentirebbe a ogni anello della filiera di adeguarsi alle nuove contingenze senza patire il doloroso fenomeno della market disruption, ovvero la disarticolazione e la perdita di posti lavoro determinata dalla dinamica naturale del mercato.
Un movimento internazionale
Scrive Guido Viale nella prefazione del testo: «Il mondo dell’usato rappresenta oggi una fonte potenziale di occupazione: contiene al suo interno forme di lavoro tradizionale con attività nuove e innovative, non sempre ripetitive e seriali. Per attivare questo tipo di percorsi bisogna servirsi di personale con ottime competenze manuali e professionali che sappiano confrontarsi con un mercato del riciclo che ha ormai assunto un respiro internazionale».
È possibile scaricare lo studio Indumenti usati: una panoramica globale per agire eticamente dal sito dell’associazione QUI
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