Il crollo del viadotto dell’autostrada Torino-Savona (pochi ricordano che è stata costruita in economia dalla Fiat per far arrivare i tir carichi di auto al porto di Savona) è drammatico quanto simbolico, dal momento che unisce due regioni i cui governi sono nelle mani di due “negazionisti” del cambiamento climatico

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Quello del viadotto dell’autostrada Torino-Savona è un crollo drammatico (anche se per fortuna non ci sono state vittime). Ma anche un crollo simbolico di un ponte che unisce la Liguria al Piemonte, regioni i cui cittadini hanno affidato il governo a due “negazionisti” del cambiamento climatico: Toti & Cirio (quest’ultimo appena un mese fa aveva messo ai voti un documento che nega sostanzialmente e “formalmente” quanto – purtroppo – sotto gli occhi di tutti).
In queste ore i due coccodrilli “affacciati” sul baratro del viadotto di Altare invocano nuove Grandi Opere da fondare sul territorio “sfarinato” che le loro politiche hanno reso tale (in “coerente” prosecuzione, del resto, di quelle di chi li ha preceduti). Intanto si preparano a chiedere alla ministra del calcestruzzo nuovi appalti “senza lacci e lacciuoli”, perché quanto prima delle loro regioni e dell’intera penisola non resti che il ricordo di quanto era bella.
A mo’ di promemoria, giova ricordare che l’autostrada Torino Savona (riverniciata col suggestivo slogan “la verdemare”) nacque come “camionale” per collegare Torino col porto di Savona e venne realizzata in economia dalla Fiat per rendere meno tortuoso e a minor pendenza il viaggio delle sue bisarche cariche di auto destinate all’export. Venne realizzata a carreggiata unica e corsie di sorpasso alternate ma non protette da spartitraffico centrale. Per molti anni la tratta pianeggiante tra Carmagnola e Marene, dove era stata realizzata una nuova carreggiata affiancata alla prima, è stata chiusa al traffico perché usata come pista di prova delle auto del Lingotto! Per le centinaia di incidenti – spesso urti frontali – si “meritò” un’altra e meno suggestiva definizione: l’“autostrada della morte” e venne addirittura chiusa al traffico, da luglio a ottobre del 1980, in forza di un’ordinanza della magistratura! Ma nonostante processi, polemiche, interpellanze parlamentari la Fiat venne sollevata dall’onere di fare finalmente della “sua” camionale un’autostrada degna di questo nome e di incassare “giustificatamente” il pedaggio. La concessione venne accollata a “Società autostrade”, concessionaria ancora pubblica in capo all’IRI che, a tappe forzate, realizzò (con contributo interamente pubblico) tutto il raddoppio, particolarmente oneroso nel tratto erroneamente definito “appenninico” (che si sviluppa tra Prealpi e Alpi Marittime), in gran parte con carreggiata in sede propria con percorso meno tortuoso e di minor pendenza (cosa alla quale si deve probabilmente l’assenza di vittime oggi e il possibile transito sulla carreggiata “nuova” finché il versante su cui è appoggiata la vecchia non verrà consolidato). Peccato che nel frattempo (pochi anni dopo aver finanziato il raddoppio coi soldi dei cittadini) la concessione sia passata, con la maggior parte della rete, ai profitti privati di Atlantia dei Benetton e da questi ceduta al Gruppo Gavio di Tortona, secondo gestore (ovviamente privato) dell’unica rete autostradale italiana, che ha in corso una trattativa per il prolungamento della concessione in cambio del completamento della Asti-Cuneo (interconnessa proprio con la Torino-Savona)… Cosa chiederanno i Gavio al Governo giallorosso (e alla ministra rosa-pomodoro) per ricostruire il vecchio viadotto fu Fiat?
Intanto il caso ha voluto che l’ultimo supplemento Affari & Finanza di la Repubblica abbia dato conto, con il titolo “Infrastrutture, investimenti, c’è un gap di 70 miliardi”, di un rapporto targato REF Ricerche (un istituto che mette sopra ogni cosa «l’indipendenza come valore» e che si avvale di partner e partnership al di sopra di ogni sospetto, come verificabile sul loro sito in cui, curiosamente, nel termine generico (e fuorviante) “infrastrutture” i ricercatori milanesi ricomprendono un po’ tutto, anche scuole e ospedali. Ebbene, la data dell’articolo che illustra la “ricerca indipendente” è, correttamente, 24 novembre, ma esso compare su un fascicolo abbinato al giornale in edicola lunedì 25, a poche ore dal crollo della campata del viadotto dell’autostrada A6, Torino-Savona e della voragine apertasi più o meno contemporaneamente nel rilevato della A21, Torino-Piacenza (due tratte in netta prevalenza a cielo aperto, “sopra e non sotto terra”).
Alla luce della stretta attualità stride non poco che il giornale fondato da Scalfari e azzoppato da Calabresi abbia scelto un riconoscibilissimo mega tunnel per illustrare la copertina “più Grandi Opere per tutti”! Perdoniamo redattori, titolisti, impaginatori e direttori per la sfiga di aver fotocomposto il dossier strappa-finanziamenti qualche ora prima che il “clima cambiato” rimettesse sottosopra la Liguria (questa volta in compagnia del Piemonte, dei rispettivi governatori negazionisti e dei loro elettori disperati). Ma perché in tutte le rassegna-stampa televisive il titolo (nato vecchio) di Repubblica viene messo in relazione diretta con crolli di ponti, voragini nella pavimentazione stradale e persino lungomare devastati, spiagge definitivamente erose e case senza più la terra su cui poggiavano le fondamenta messe a nudo dagli smottamenti? Un esempio? Sky TG24, il telegiornale permanente (e quindi aggiornato in “tempo reale”) riprende a tutto schermo la foto (infelice) del dossier della “concorrenza stampata” e lo associa al dissesto idrogeologico, di cui i tunnel non sono un rimedio, ma semmai una concausa (per non dire dell’irrecuperabile effetto serra da essi prodotto a fronte del quale i promotori di trafori autostradali (ieri) e di gallerie ferroviarie (oggi) si spacciano per “eco-benefattori”? È la fretta della diretta o la ferrea linea redazionale pro calcestruzzo?
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Pubblicato su volerelaluna.it
I soldi e non la reputazione sono l’obiettivo di troppa gente oramai. Forse la crisi ecologica di questi anni ha messo in atto una vera e propria restaurazione. La depressione per non saper che futuro ci aspetta costringe i più deboli a negare le evidenze e a voler restaurare un modello di vita ormai del secolo scorso. Chissà se ce la faremo noi sapiens a continuare a vivere su questo pianeta…