Quando l’impegno a esistere, cioè a essere-con-gli-altri, occupa la stessa zona di una mente dell’impegno a cambiare lo stato delle cose, quel per cui si suole usare l’aggettivo “politico”, è proprio inevitabile che ci siano momenti in cui prevalgono le domande di senso. Sì, quelle talmente scomode da richiamare la necessità di interrogarsi sul significato del proprio agire quotidiano e, cosa perfino più ambiziosa, su quello del tempo che stiamo vivendo. Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi – due delle persone più amate da chiunque conosca il significato reale di parole importanti come solidarietà, affermazione dei diritti, lotta contro le ingiustizie e il dominio del denaro sulla vita delle persone e degli altri esseri viventi – lo fanno a modo loro, naturalmente. Ne vien fuori un testo, che chiamano, quasi in punta di piedi, Manifesto, certo preoccupati (ma autoironici) di aver scomodato un concetto eccessivo, magari altisonante. E come chiamare, allora, una dichiarazione pubblica che afferma principi fondati certo su una visione del mondo ma soprattutto su una esperienza che più concreta non si potrebbe e che ha i suoi (e quelli di fiumi d’altre persone) talmente piantati in terra e nel dolore da farli sanguinare? Non troverete quel manifesto affisso in nessuno spazio predisposto per tale uso. Non serve a promuovere né ad annunciare alcunché. Serve a camminare. Riempiendosi la mente di domande
Dopo diversi anni di impegno politico con i migranti della cosiddetta Rotta balcanica, in luoghi diversi e di qua e di là dai confini orientali, sentiamo, con “disperata speranza”, l’esigenza di una “sintesi” e di un appello – per noi stessi e per chiunque lo voglia. Riteniamo necessario precisare, per evitare equivoci, che per noi impegno politico coincide con impegno esistenziale, equivale a vivere invece che a sopravvivere. “Politica” significa polis, società, collettività: esistere vuol dire essere-con-gli-altri mentre quel che ci viene imposto è essere per sé.
Nella situazione storica che stiamo vivendo, caratterizzata da vaste dinamiche politico-sociali di crescente autoritarismo, reso evidentissimo dalle due grandi crisi mondiali – quella sanitaria e quella geopolitica localizzata oggi in Ucraina -, è necessario, secondo noi, ribadire e riproporre con forza alcune scelte che ci paiono essenziali anche per tutti coloro che non possono accettare lo stato di cose presente.
Al primo posto, sta la scelta di un terreno d’intervento politico che abbia due caratteristiche complementari:
– una grande concretezza esperienziale
– e una valenza etico-politica universale, in un senso, però, che non può più riguardare soltanto la storia umana. Nel nostro caso, questo ambito d’intervento è costituito dal cammino dei corpi migranti della Rotta balcanica, in una sorta di cortocircuito fra il piede gonfio e piagato e la condizione attuale della terra.
È l’incontro fra un’esperienza concretissima – letteralmente corpo a corpo -, nata da una scelta emotiva, etica e politica molto forte – una sorta di “chiamata” o di “ultimo avviso” – e la chiara intelligenza dell’essere in una guerra non più mondiale ma terrestre: la guerra del capitalismo contro la vita.
È essenziale comprendere che quella forma di civiltà detta capitalismo (economia di mercato) non produce soltanto sfruttamento, ingiustizia sociale, violenza storica. Produce molto di più. Produce la distruzione dell’irrappresentabile tessuto dinamico dove nasce e si alimenta la vita, di cui gli esseri umani sono soltanto una parte: un enorme salto di qualità della condizione umana, della vita stessa, di cui l’azione politica non può non tener conto, pena la sua sterilità. Potremmo dire che deve mutare da azione per la polis ad azione per la vita… Il capitalismo agisce nei confronti della vita letteralmente come un cancro. La posta in gioco non è più soltanto la costruzione di collettività di liberi e di giusti: si tratta di fermare e invertire un processo necrotico in atto. Non è più solo questione di furto del plusvalore, ma di trasformare il processo necrotico terrestre in un processo vitale.
Bisogna accogliere e cominciar a realizzare il dato essenziale che gli esseri umani esistono solo come parte dell’insieme terrestre. Di questa condizione fondativa, l’homo sapiens non solo non ha tenuto conto, ma vi si è contrapposto fin dai suoi inizi. La storia umana è avvenuta, infatti, in contrapposizione violenta agli altri viventi e alla Terra quale insieme dei processi vitali. Da qui l’esigenza indispensabile di trovare forme d’azione che si potrebbero chiamare, in prima istanza, interventi di Azione Resistenziale.
Quest’attività di resistenza costruttiva deve partire principalmente, come abbiamo detto prima, da un rapporto con la concretezza della vita di tutti i giorni, facendo affiorare in essa il dramma collettivo, perché si tratta appunto di ricostruire le basi della convivenza, anche con la terra. Inoltre, il rapporto con il molto grande non può che partire dal molto piccolo per non affogare nell’impotenza di fronte all’immensità dell’orizzonte temporale che si è aperto. Nel caso di chi scrive, quest’azione parte dai bisogni elementari dei corpi migranti: curare ferite, dar da mangiare, offrire scarpe per camminare, vestiti – ma tutto questo con lo scopo fondamentale di rendere in qualche modo agibile quello che vogliamo chiamare il diritto di Antigone. Dice Antigone, nell’omonima tragedia di Sofocle, di fronte al re di Tebe che la condanna a morte per aver violato la legge che negava il diritto alla sepoltura del fratello, ucciso combattendo proprio contro il re:
“Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire a un mortale le leggi non scritte”.
Il diritto di Antigone è il diritto dei migranti di andare dove ritengono di poter vivere una vita degna d’essere vissuta. Crediamo che i migranti siano appunto i soggetti di questo diritto che nessuno Stato, nessun sistema di potere, potrà mai riconoscere: un diritto autenticamente sovversivo.
L’appello storico fondamentale dei migranti è allora: dobbiamo costruire possibilità per una vita degna d’essere vissuta. Per indicare meglio il significato storico profondo della figura del migrante, possiamo dire che “le leggi non scritte” di cui parla Antigone sono le leggi d’equilibrio della vita, della terra. Il migrante allora è una figura Apocalittica, nel significato greco di questa parola, storicamente lanciata dal grande testo visionario della fine del primo secolo dopo Cristo che è, appunto, l’Apocalissi detta di Giovanni. “Apo-calissi” in greco vuol dire letteralmente “dis-velamento”: disvelamento di una temporalità altra rispetto a quella della storia umana, la temporalità del bios e di Gea, che reagiscono alla temporalità violenta della storia umana.
I corpi migranti – da qualunque “rotta”: balcanica, asiatica, africana, atlantica, sudamericana – sono corpi che vengono a noi dal futuro, che ci parlano di come sarà il futuro dell’umanità, della terra, della vita per opera del mercato e delle sue guerre, degli Stati, della devastazione ambientale. Sono corpi che, con la loro presenza, ci chiedono di re-agire, di intervenire. Questa reazione, questo intervento, deve essere anche ma non può essere soltanto in forme di contrapposizione, di lotta.
Uno degli insegnamenti fondamentali che dovremmo aver acquisito dalla storia della “sinistra radicale” degli anni ’60-‘70 è che un’azione politica fatta soltanto o soprattutto di contro-posizione, alla lunga diviene sterile, se non produce anche una posizione, in altre parole: se non costruisce forme vitali di socialità alternativa. Il conflitto senza costruzione di collettività alternative sufficientemente stabili produce inevitabilmente forme di leaderismo e quindi di autoritarismo: è questa l’esperienza storica dei movimenti. Noi crediamo che per andare in questa direzione sia importante mettere in pratica ciò che il femminismo ha chiamato politica della cura. Cura, in questo contesto, significa un agire in cui l’attenzione per la singolarità di ciascuno sia alla base dell’attenzione per il collettivo e viceversa: singolarità e collettività non soltanto non si escludono ma necessariamente si implicano. Politica della cura significa, dunque, anche l’attenzione costante affinché non prevalga né la singolarità isolata, che diviene allora individualità auto affermativa, né il collettivo, che diventa allora un potere sopra i singoli.
Un problema da affrontare, prima o poi, è quello della costruzione fra i migranti e noi di una comune consapevolezza politica, che possiamo trovare attiva, ad esempio, in alcuni casi significativi e difficili: fra i Curdi di Siria e di Turchia, per quel che riguarda il Medioriente o nel popolo zapatista, in Messico. Dobbiamo porci il problema se e come sia possibile, oggi, agire per uno scambio fra quel che è ancora valido della nostra tradizione politica occidentale di critica e alternativa al capitalismo e l’attuale situazione del mondo di cui i migranti sono i messaggeri…
Si verifica oggi, dunque, qualcosa che la storia umana non prevedeva e che rivela la dipendenza dell’umano da un’alterità che non può controllare, che non può dominare – anzi, da cui la stessa sua vita dipende. È questa la qualità apocalittica dei tempi nostri. Oggi, mentre è in atto da tempo una tensione per l’egemonia mondiale all’interno della “logica” di mercato, ogni evento particolare ha effetti non solo globali ma terrestri. Due fattori principali sono in gioco:
– la cultura del mercato, che racchiude in sé il continuo passaggio da guerra economica a guerra guerreggiata;
– il sistema terra, che si avvia rapidamente a perdere l’equilibrio vitale proprio dell’ultima fase geologica.
Il fenomeno delle migrazioni è uno dei fenomeni storici principali attraverso cui si manifesta il tempo nuovo che incombe. Perciò possiamo giustamente chiamare apocalittiche queste migrazioni. La prospettiva che cerchiamo di intravvedere consiste nella costruzione di reti di solidarietà e lotta, prefiguranti nuove forme di socialità – tendenzialmente non solo umana. Un compito persino inimmaginabile, ma che non possiamo eludere e che dobbiamo iniziare ad affrontare partendo dal basso. Nel nostro caso, in senso letterale: partendo dai piedi migranti.
Questo breve scritto, che, con scarso senso dell’ironia, abbiamo voluto chiamare Manifesto, vuole essere il precipitato riflessivo di un’esperienza di anni di impegno costante con le persone migranti: a partire da un’esperienza politica di base cominciata negli anni Sessanta e da un’esperienza, anche professionale, con il dolore dei singoli.
Mirella Kuczama dice
Bravissimi. Il volontariato è un grande regalo all’anima anche per chi lo fa!!!
Angela dice
Avervi conosciuto mi ha dato un gran respiro, aver visto con i miei occhi che le persone si spostano su e giù per l’Italia per portare anche un piccolo aiuto.. è stato come un cerotto sulle ferite di una umanità che pensavo perduta. Vi ringrazio tanto per quello che fate
Serena dice
Queste parole completano l’espressione del significato delle vostre azioni quotidiane. La tenerezza concreta dei gesti, l’apertura dei cuori, l’acume delle menti: costruire una comunità, questo è ciò che può salvare. Non è semplice, anche se sarebbe l’unica strada, per tutti. Iniziamo, continuiamo, allarghiamo il raggio d’influenza, proviamo, uno ad uno. Grazie ❤️