Abbiamo bisogno di uno spazio-tempo per interrogarci in profondità sulle nuove paure, le nuove povertà, le nuove fragilità. Abbiamo bisogno di periodi di attesa, per mettere in discussione il nostro stile di vita e il nostro delirio di onnipotenza. Abbiamo bisogno di immaginare insieme come far rinascere speranza. Secondo Vito Teti ci sono forme di “neofolklore” reinventate ed evocate – come le corajisime appese alle finestre in queste settimane di Quaresima da donne adulte o anziane, ma anche da ragazzi e ragazze di alcuni comuni del Sud – che possono aiutarci in quella direzione. “In questo sforzo di riprendere usanze antiche si coglie un senso di orgoglio per una tradizione che ormai non parla più di miseria, ma di un legame con i luoghi. Forse vi si possono scorgere anche una critica verso eccessi che non hanno creato felicità… Labili e limitate tracce di diversità – da non guardare con atteggiamento liquidatorio né edulcorato – che possono essere riconosciute in una prospettiva ambientalista…”

Quaresima può diventare un periodo di attesa, di meditazione, di ricerca di silenzio e intimità, di scoperta di un senso religioso per gli altri (anziani, ammalati, defunti) e nelle nostre relazioni. Un periodo intenso, non frenetico, pacato, sacro in cui immaginare utopie possibili e speranze di rinascita e di Resurrezione. E se il periodo quaresimale diventasse uno spazio-tempo per interrogarci sulle nuove paure, i nuovi contagi, le nuove povertà? Un tempo per riflettere sul nostro stile di vita, sul nostro delirio di onnipotenza, sulle nostre fragilità, e sulle nostre “Cecità” (Saramago) e sulla nostra “Grande Cecità” (Gosh)?
Carnevale, raffigurato da un fantoccio, veniva bruciato e allontanato dalla comunità. Io, bambino, guardavo con straziante dispiacere un povero mascherato allontanarsi dal paese in groppa all’asino adoperato durante le farse. «Nonna perché va via Carnevale?», e la nonna spiegava che a cacciare il «porco ingordo» era la vecchia e magra Quaresima. Non capivo il senso di questi riti stagionali legati al mondo della terra e della natura, a un tempo che sempre “tornava” per rinnovarsi. Semplicemente detestavo, con tutto il cuore, la Quaresima, schernita anche nelle filastrocche e nei canti di mamma per i digiuni, le erbe selvatiche, le lattughe che portava.
Non è necessario condividere l’impostazione materialistica e deterministica per notare come modelli e valori dietetici delle società tradizionali fossero legati a situazioni concrete. La “fame” per i poveri era una condizione sempre temuta, che incombeva più minacciosa nei mesi invernali. Lo stesso “digiuno”, più che di scelte legate a motivazioni dietetiche o prescrizioni religiose, il cui ruolo nell’orientare i comportamenti non va comunque sottovalutato, appare soprattutto esito di necessità. Andrebbe ripensata una tradizione “vegetariana”, frugale, parsimoniosa presente nel mondo antico, tra i pitagorici, tra i santi italo-greci e nel monachesimo occidentale. Il “digiuno” e l’astinenza da cibi “grassi” erano accompagnati da altre pratiche “penitenziali”, da preghiere e raccoglimento. Insieme si mangiava, insieme si digiunava e si pregava. Mio nonno Vito partecipava ai lunghi e complessi riti religiosi e gli ultimi tre giorni di Quaresima, fino al Sabato Santo, si “metteva” a pane e acqua. La Pasqua, attesa, vendicava Carnevale e portava ai bambini le belle “collure”, i taralli, le pitte, i dolci a base di uova e farina; ai grandi carne di agnello o capretto, frittate, salsicce e ricotte. Mi accorgevo, felice, che la Pasqua stava arrivando quando dall’arancia posta ai piedi della “pupa” che rappresentava Quaresima veniva staccata l’ultima delle sette penne di gallina, una per ogni settimana dal mercoledì delle Ceneri. Cosa resta di questi rituali di cui sono stato tra gli ultimi testimoni? Nulla.
Già ai bambini della mia generazione era difficile restituire il senso e la potenza della fame; ancora più impensabile trasmetterlo ai ragazzi nati e cresciuti nella società ortoressica, dello spreco, dell’abbondanza inutile. Tuttavia, nel momento in cui capiamo che i beni non sono illimitati e milioni di affamati e assetati bussano alle nostre porte, sento che bisogna custodire memorie, trarre dal passato lezioni e insegnamenti.
Un segnale, minuto, irrilevante, dell’insoddisfazione dei nostri tempi, di nuove ansie legate anche alla sfera alimentare, può essere letto in un certo “ritorno” alla Quaresima che, con mille declinazioni locali, si registra in alcuni paesi della Calabria. La permanenza o la ricomparsa delle corajisime, bambole di pezza con il tradizionale abitino nero da appendere alla finestra o alla porta di casa, cui si affiancano versioni più elaborate e fantasiose dai colori vivaci, è stata documentata in varie comunità da Andrea Bressi, i cui articoli sono disponibili in rete.
Le motivazioni che spingono donne adulte o anziane, ma anche ragazzi e ragazze ad appendere le corajisime sono le più varie. Queste forme di “neofolklore” o “postfolklore” sono un fenomeno dai tanti volti che, più che sul passato, può dirci qualcosa sul bisogno contemporaneo di affermare una presenza anche attraverso il riferimento a tradizioni inventate, reinventate ed evocate. In questo sforzo di riprendere usanze antiche si coglie un senso di orgoglio per una tradizione che ormai non parla più di miseria, ma di un legame con i luoghi. Forse vi si possono scorgere anche una critica verso eccessi che non hanno creato felicità e un invito alla moderazione come pratica da inventare oggi lontano dalla penuria di un tempo. Labili e limitate tracce di diversità – da non guardare con atteggiamento liquidatorio né edulcorato – che ci indicano la ricerca di nuove forme di “appaesamento” e che possono essere riconosciute in una prospettiva ambientalista, consapevole dei grandi rischi che corre il nostro pianeta. Quaresima può diventare un periodo di attesa, di meditazione, di ricerca di silenzio e intimità, di scoperta di un senso religioso per gli altri (anziani, ammalati, defunti) e nelle nostre relazioni. Un periodo intenso, non frenetico, pacato, sacro in cui immaginare utopie possibili e speranze di rinascita e di Resurrezione.
Pubblicato originariamente su La Gazzetta del Sud del 31 marzo 2019 (con il titolo Se reinventassimo un’altra Quaresima) e sulla pag. fb Vito Teti – Schegge di ultimità (su Comune-info con l’autorizzazione dell’autore).
Vito Teti, scrittore e docente di Antropologia culturale all’Università della Calabria, ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Il sul ultimo libro è La restanza (Einaudi).
LE CORAJISIME DI CINQUEFONDI Quest’anno, a Cinquefrondi (Reggio Calabria) l’Associazione Lineaverde ha deciso di realizzare oltre duecento Corajisime. Più di venti donne, anziane e ragazze, hanno lavorato per oltre un mese per realizzare pupazze di cenci. Queste pupazze sono state appese nell’antico rione di Cinquefrondi denominato “U Burgu”. Di Corajisime si parlerà a Cinquefrondi (per iniziativa dell’Associazione Lineaverde e del Comune) in un convegno che si terrà tra fine marzo e i primi di aprile con la presenza di ricercatori, antropologi, scrittori.
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