Con l’arresto di Carola sono più evidenti lo scontro tra prepotenza e diritto, l’eterna lezione di Antigone, cioè la disobbedienza alle leggi ingiuste, ma anche il bisogno di collocare quanto accade nell’antica guerra ai poveri. Tuttavia, una cosa è certa: “Carola Rackete si colloca nella scia dei grandi disobbedienti, da Danilo Dolci a don Milani – scrive Livio Pepino -, che hanno cambiato la storia del nostro Paese e che sono punti di riferimento per la parte migliore della società, mentre nessuno ricorda neppure i nomi di chi tentò di sbarrare loro la strada…”
Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, è stata arresta sabato mattina nel porto di Lampedusa dove la nave aveva attraccato nella notte (con il suo “carico” di 40 migranti raccolti in mare ben diciassette giorni prima) nonostante l’intimazione di fermarsi da parte di una motovedetta della Guardia di finanza che aveva anche tentato (inutilmente) di ostacolarne la manovra. L’arresto è stato effettuato dall’autorità di polizia (la guardia di finanza) nella ritenuta flagranza del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e del delitto (di cui all’art. 1100) del codice della navigazione, secondo cui «il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni».
Ancora una volta – come nel caso dell’arresto del sindaco di Riace Domenico Lucano – mancano le parole se non per evocare “il mondo al contrario” nel quale chi salva dalla morte donne, uomini e bambini viene definito “delinquente” e punito mentre chi li condanna a morte viene considerato paladino della legalità. Carola Rackete si colloca nella scia dei grandi disobbedienti, da Danilo Dolci a don Milani, che hanno cambiato la storia del nostro Paese e che sono punti di riferimento per la parte migliore della società mentre nessuno ricorda neppure i nomi di chi tentò di sbarrare loro la strada. Così sarà per Carola mentre, nei tempi lunghi, Salvini, Di Maio e Meloni saranno ricordati solo come tristi e squallide comparse di un’epoca infelice.
Questo nei tempi lunghi. Ma, intanto le scelte sciagurate del ministro Salvini e dell’intero Governo (nella sua globalità, senza distinzione tra falchi e pretese colombe) condannano a morte, in mare e sulla terraferma, migliaia di persone in fuga da guerre e fame e criminalizzano chiunque pratichi l’accoglienza, trasformando la solidarietà e il senso di umanità in reato. Che fare dunque, qui e ora?
I. C’è una reazione che riguarda la società e quel che resta della politica. Essa ha a che fare con le parole e, soprattutto, con i comportamenti. E muove dalla consapevolezza che la politica del Governo in tema di migrazioni, nonostante l’ipocrita evocazione della “tutela degli italiani”, è, in realtà, un capitolo della “guerra ai poveri”. Questa politica è uno dei veicoli di cui si serve l’establishment per mantenere il proprio potere e i propri privilegi indirizzando la protesta e la rabbia sociale verso veri e propri capri espiatori. Essa si inscrive, appunto, in una guerra contro i poveri (migranti o autoctoni che siano). Non diversamente da quanto accaduto ripetutamente, con esisti nefasti, nella storia. C’è al riguardo, alle nostre spalle, una lunga storia. Dalla fine del XVII secolo e per un lunghissimo periodo la caccia ai poveri fu, in Europa, la regola. Ovunque vennero creati corpi di polizia ad hoc per assicurare l’arresto dei mendicanti. Ciò accadde, seppur in epoca più tarda, anche nel nostro Paese dove il Corpo dei carabinieri reali piemontesi venne istituito, nel 1815 (e dunque ancora in epoca preunitaria), proprio per pattugliare le campagne e trattenere i vagabondi e altre persone sospette. Ma a quelle persecuzioni seguì una diffusa opposizione sociale che, nel tempo, ne attenuò gli effetti e contribuì ad invertire la tendenza. Come ha scritto uno storico francese: «invano le guardie, i portieri, i cacciatori di vagabondi, i prevosti, simboli dell’ordine borghese, tentavano di incarcerali. Tutti coloro che si riconoscevano nell’antico sistema di pensiero […] – gente semplice, lacché, servitori, bambini, suore, osti o prostitute – li proteggevano, li strappavano alle grinfie dei caccia-vagabondi, li nascondevano nelle loro case per restituirli in seguito alla libertà». È in questo filone che si collocano oggi le iniziative a sostegno dei migranti, i poveri per eccellenza. A metterle in atto non sono, in prevalenza, le organizzazioni che hanno innervato la repubblica ma i movimenti, l’associazionismo religioso e laico, le centinaia di migliaia di donne e uomini (soprattutto giovani) che reagiscono al cinismo e all’indifferenza in nome di princìpi elementari di umanità.
È quel che si chiama, da più di due millenni, il diritto di Antigone, dal nome della protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle diventata un’icona della modernità per avere anteposto le ragioni della libertà e della dignità a quelle della forza e della ragion di Stato. Da allora disobbedire alle leggi del sovrano contingente per rispettare leggi superiori (ieri il diritto naturale, oggi la Costituzione) è il modo di dare un senso alla convivenza e di provare a inverare la democrazia. Nella società contemporanea ciò ha preso il nome di diritto di resistenza, in forza del quale opporsi alle leggi ingiuste è non solo un diritto, ma un dovere dei cittadini. Il diritto di resistenza è finanche previsto esplicitamente in alcune costituzioni europee come quella portoghese del 1976, il cui articolo 20 prevede il «diritto di opporsi» anche «con la forza» a qualunque aggressione ai diritti fondamentali. Una formulazione simile («La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino») era stata proposta in Italia, in sede di assemblea costituente, da Giuseppe Dossetti. La proposta non si tradusse in norma costituzionale ma per ragioni che, paradossalmente, confermano il principio. Le espresse, nella seduta dell’assemblea del 5 dicembre 1947, Costantino Mortati, futuro presidente della Corte costituzionale, rilevando che la norma proposta «sarebbe superflua in quanto esistono già nell’ordinamento positivo strumenti idonei a rendere legittima la resistenza contro atti specifici dell’autorità» e che la figura della resistenza trae il proprio titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare.
È questa la strada maestra che ci insegna la comandante Carola e, con lei, molti altri.
II. Ma c’è un’altra reazione doverosa, che sta sul versante istituzionale. È quella del diritto e dei giudici (che ne sono, o dovrebbero esserne, i custodi). Il comportamento della comandante Carola, la sua forzatura della legalità formale per salvare donne e uomini che, se rimandati in Libia, subirebbero violenze, torture e forse la morte (come riconosciuto persino dal ministro degli esteri di questo Governo), non può essere considerato illecito in un sistema costituzionale che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Costituzione) e in cui «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» (articolo 10, comma 3). E non può essere criminalizzato in un sistema penale che espressamente prevede la non punibilità di «chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo» (art. 54 codice penale). In questo sistema – aggiungo – «nessuna misura (cautelare) può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità» (articolo 273, comma 2, codice procedura penale).
Su questo crinale si gioca uno scontro importante, forse decisivo. Non – come molti interessatamente dicono – tra i giudici e la politica ma tra il diritto e la prepotenza. Lo scontro andrà in scena già lunedì, nel giudizio di convalida dell’arresto da parte del gip di Agrigento. I precedenti sono contraddittori. C’è la lunga querelle sull’incriminazione del ministro Salvini (poi salvato dal voto del Senato) per il sequestro di persona dei migranti indebitamente trattenuti sulla nave Diciotti e ci sono altri numerosi provvedimenti tra i quali si segnalano, da un lato, la sentenza del Tribunale di Trapani che ha assolto per avere agito in stato di legittima difesa i migranti che, nel luglio 2018, si erano opposti con la minaccia dell’uso della forza al rimpatrio in Libia da parte della nave italiana Vos Thalassa che li aveva soccorsi, costringendo il capitano a invertire la rotta e condurli verso le coste italiane, e, dall’altro, la contestazione del delitto di violenza privata nei confronti del Ministero degli interni mossa dalla Procura di Ragusa al comandante della nave Open Arms e al capo missione della Ong Open Arms Proactiva per “avere costretto” le autorità italiane a concedere l’approdo della nave in territorio italiano nel marzo 2018.
Salvini – già sconfitto dalla scelta della comandante Carola che è riuscita nell’intento di far sbarcare i migranti nonostante il diniego “ad ogni costo” del ministro – è ben consapevole della posta in gioco e per questo alza la voce, minaccia, pronuncia “sentenze” anticipate, prepara dossier contro i giudici attenti ai diritti e alle garanzie, in una parola cerca di intimidire e condizionare i giudici.
Lo scontro è aperto. E non se ne potrà uscire con formalismi perché ‒ come ha scritto oltre cinquant’anni fa Achille Battaglia ‒ «per comprendere veramente cosa accada in una società durante un periodo di crisi, poco giova l’esame delle sue leggi e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito» (A. Battaglia, I giudici e la politica, Laterza, Bari, 1962, p. 3).
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Fonte: Volere la luna (titolo originale completo L’arresto della comandante Carola e il dovere dei giudici)
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