Donald Trump e la destra globale che dietro a lui si è messa in marcia sono gli estremi difensori della struttura del neoliberismo, che è cresciuta fino a diventare un mostro che mangia i suoi stessi creatori. Se profezia e utopia sono i motori della storia, scrive Luca Casarini, allora abbiamo bisogno di entrambe anche noi, dal basso, per impedire che l’unica rivoluzione sia quella dall’alto

Il movimento “no–global”, che ha attraversato il pianeta agli inizi del millennio, in realtà era molto “global”. Sto parlando della componente che ha dato vita, a partire da Seattle, a un ciclo di protesta sociale contro la globalizzazione neoliberista, da posizioni non sovraniste e non protezionistiche, ma invece solidali ed internazionaliste. È uno dei motivi della repressione feroce, fino ad arrivare alla guerra scatenata contro migliaia di civili a Genova, con la quale è stato represso e criminalizzato: l’essere allo stesso tempo contro la WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, e per la “globalizzazione dei diritti delle persone”, ipotizzava un progetto rivoluzionario, che faceva persino intravedere l’idea di un governo democratico mondiale, capace di imporre non solo agli stati nazione, ma anche alle potenze imperiali come quella statunitense, o a quelle “tattiche” come quella continentale europea, un nuovo ordine politico non subordinato alle logiche mercantili.
“Voi G8 e noi 6 miliardi” fu lo striscione di apertura delle manifestazioni contro il G8 di Genova, l’ultima tappa di quel poderoso, meraviglioso e tragico insieme, ciclo di lotte sociali per “un altro mondo possibile”. Il tema dunque, non è mai stato per quel movimento, lasciare intatta la struttura del mondo, e correggerne semplicemente gli assetti interni, magari a mezzo di dazi o confini. La struttura del mondo era basata, e oggi ancor di più, sulla supremazia del mercato sulla politica, e dunque, sugli esseri umani. Non la chiamiamo “neoliberista” o iperliberista a caso infatti. Nella sua nuova versione, potremmo anche dire con le parole di Massimo Cacciari, che “l’Homo Technicus” si è impadronito del presente prendendo in ostaggio il futuro, e ha imposto la la tecnocrazia capitalistica come unico regolatore della vicenda umana, riducendo la politica a mero tentativo di amministrazione dell’esistente.
Guerra, tecnologia e finanziarizzazione
Trump non è dunque, la riedizione dei “no global” da destra, ma qualcosa di nuovo, che va letto in questo tentativo di “amministrare” un sistema mondo affidato in tutto e per tutto alla tecnocrazia e al mercato. Trump rappresenta una nuova fase della “globalizzazione neoliberista”, non la sua negazione. Il perché risiede nel fatto che la “struttura” non viene toccata, anzi. La sua riconferma della supremazia del mercato, è affidata a una potente riarticolazione su tre linee guida principali: la guerra, la tecnologia, la finanziarizzazione. Amministrare da “Homo Politicus” occidentale, subordinato alla tecnocrazia, l’instabilità crescente di un sistema come quello sviluppatosi negli ultimi trenta quarant’anni, ad esempio significa fare i conti con la prospettiva della “guerra civile” interna. È quello che sta tentando di fare il Tycoon di Mar Al Lago, alle prese con un debito pubblico mai così alto e allo stesso tempo con la “competizione”, anima del commercio, che si è fatta dura perché anche gli altri, invitati al banchetto a suo tempo, adesso non si accontentano più solo delle briciole che cadono dal tavolo. I dazi statunitensi sui prodotti cinesi mica vengono applicati per difendere i bambini sfruttati nelle catene di montaggio dello Xinjiang. Trump tenta di salvare la struttura iperliberista della quale lui stesso è una delle massime testimonianze viventi, e allo stesso tempo impedire che crolli tutta la baracca d’oro sulla quale lui, e le elites che lo circondano, sono seduti. La guerra “esterna” è il primo antidoto fondamentale per evitare la “guerra civile”, che come ci dice Machiavelli, è il vero problema serio di ogni Stato.
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Un mostro che mangia i suoi stessi creatori
Ma la logica dei dazi, oggi non può essere letta come la riedizione del tempo della Società delle Nazioni: tecnologia, finanziarizzazione e mercato globale non si possono abolire. Cosa sono i dazi dentro la globalizzazione neoliberista, e non contro di essa, è il tema da svolgere per capire quali scenari avremo difronte nel prossimo futuro. Non sarà niente di buono per la stragrande maggioranza della popolazione umana, né per il pianeta Terra, e nemmeno per lo spazio profondo già in fase di feroce sottrazione al bene comune. L’imperativo infatti, è tenere in piedi la baracca, questo mondo nel quale le persone contano meno delle merci, costi quel che costi. Si potrebbe anche dire dunque, che Trump, e la destra globale che dietro a lui si è messa in marcia, sono gli estremi difensori della struttura del neoliberismo, che è cresciuta fino a diventare un mostro che mangia i suoi stessi creatori. È un sistema, quello attuale, che ha come condizione essenziale la “crisi”: la fase trumpiana corrisponde al primo vero tentativo, forse perché i buoi erano già scappati da tempo dalla stalla, di produrre una risposta possibile attraverso una rivoluzione/reinterpretazione dall’alto dei paradigmi ormai logori della fase precedente. Quella attraversata, con il tentativo di rivoluzione dal basso, proprio dal movimento chiamato “no-global”. L’accoppiata democrazie lberali/capitalismo contemporaneo non si può più dare, con buona pace della famosa guerra occidentale agli autoritarismi degli altri, stesso dicasi per statuti costituzionali e internazionali basati su diritti e garanzie uguali per tutti. La guerra civile interna è lo spauracchio per chi gestisce il potere, sempre più da governo esecutivo e sempre meno parlamentare. Una strategia efficace è trasformarla in “guerra ai poveri”, connotandola anche di caratteristiche “di civiltà”: le deportazioni e i respingimenti, le carceri strapiene di “stranieri”, l’omissione di soccorso in mare e i lager nei paesi vicini pagati per fermare i migranti, fanno di tutto l’occidente un paese.
Il movimento “no global” certo, non è riuscito nel suo intento, fare una rivoluzione planetaria incentrata sulla globalizzazione dei diritti e della giustizia sociale. Ma non è riuscito nemmeno a immaginare quanto la sua profezia e la sua utopia, fossero molto più che un velleitario progetto colmo di ingenuità. Profezia e Utopia sono i motori della storia. Senza, vi è “la fine della Storia” parafrasando Fukuyama. Abbiamo bisogno di entrambe anche noi, dal basso, per impedire che l’unica rivoluzione sia quella dall’alto, con gli esiti tragici che stiamo già vedendo.
Pubblicato anche su Avvenire
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