Per giungere alla concezione futurista del provvisorio,
del veloce e dell’eroico sforzo continuo, bisogna
bruciare la tonaca nera, simbolo di lentezza
e fondere tutte le campane per farne
altrettante rotaie di nuovi treni ultra-veloci.
Filippo Tommaso Marinetti, Democrazia futurista, 1919
di Marco Aime*
Un urlo
A proposito di treni, la sera del 12 dicembre 1992, nel cinema di Condove, paese della bassa val di Susa, di fronte a un’assiepata
assemblea di cittadini riuniti viene fatto ascoltare, con un’elaborazione del Politecnico di Torino, il rumore di un tgv che passa in una valle alpina a 300 km all’ora. Uno choc per i presenti: sentire un urlo che rimbomba, amplificato dai pendii montani che formano la valle. Questo è uno dei tanti momenti che hanno innescato il processo di riflessione, di presa di coscienza da parte di moltissimi abitanti della valle, che si è tradotto in un movimento, il cosiddetto No-tav, protagonista di una battaglia di opposizione contro la realizzazione della linea ad alta velocità (poi diventata ad alta capacità) che dura ormai da oltre vent’anni.
Fino a una decina di anni fa parlare di val di Susa significava evocare pendii montani ricchi di storia, monasteri celebri come l’abbazia di Novalesa o la Sacra di San Michele, belle gite e ascensioni alpine e soprattutto sci. Con il suo grande comprensorio della Via Lattea e le note stazioni invernali di Sauze d’Oulx, Cesana, Clavière, Bardonecchia, Sestrière, la val di Susa è stata uno dei primi templi dello sci alpino italiano. Da una decina di anni a questa parte, invece, val di Susa è diventata sinonimo di No-tav. La lotta intrapresa dagli abitanti della valle, in particolare della bassa valle, ha acquisito una risonanza non solo nazionale, ma che ha travalicato i confini del paese.
La questione tav in val di Susa ha riempito, seppure a fasi alternanti, molte pagine dei nostri media, i quali, come è noto, sono in parte sotto il controllo diretto dei partiti politici e in parte a quegli stessi partiti fanno riferimento. Non è infatti un caso che nella classifica sulla libertà di stampa, realizzata annualmente da Freedom House, veniamo classificati come paese a stampa
semi-libera, mentre nella graduatoria di 179 paesi, stilata da Reporter sans frontières, figuriamo al 61 posto dietro alla Guyana e
appena sopra la Repubblica centroafricana. Poiché la stragrande maggioranza dei partiti che occupano il parlamento è schierata a favore dell’opera, anche i media sono piuttosto allineati e appiattiti su posizioni pro-tav, senza peraltro quasi mai fondare le proprie posizioni su dati o teorie oggettive e riscontrabili. Questa omologazione viene messa in luce da una ricerca condotta da Luigi Calafati, che con un gruppo di studenti ha analizzato gli articoli apparsi sui maggiori quotidiani italiani – «Repubblica», «Corriere della Sera», «La Stampa» – comparsi immediatamente dopo i fatti del 5 dicembre 2005, quando in piena notte le forze dell’ordine attaccarono il presidio copia uso stampa di Venaus, cogliendo i manifestanti nel sonno e causando oltre venti feriti tra gente inerme, donne e anziani. Calafati parte dal presupposto che un lettore che acquista un giornale compia un atto di modestia, supponendo che chi ci scrive ne sappia più di lui. «Non mi aspettavo» scrive però Calafati, «che giornalisti di indiscusso valore intervenissero nei maggiori quotidiani se non per declinare con argomentazioni prive di senso la loro opinione immancabilmente favorevole», e arriva a concludere: «Se l’oggetto sul quale gli editorialisti si esprimevano sembrava avere contorni indefiniti, le argomentazioni con le quali veniva sostenuto il giudizio favorevole erano ancora più singolari – quando qualche argomentazione veniva proposta. In effetti, spesso gli articoli contenevano opinioni senza argomentazioni. Ancor più spesso, tuttavia, contenevano opinioni senza pensiero, giustificate con paralogismi, nessi casuali improbabili, tautologie senza significato. Articoli così palesemente mal costruiti, mal scritti, da lasciar pensare che in quei giorni su quel tema ci si stesse esercitando, piuttosto, in una parodia di giornalismo».
Giornali e televisioni hanno sempre riportato ed enfatizzato gli «atti di violenza» da parte dei No-tav (indicati in modo generico), dando molto meno o a volte nessuno spazio alle numerosissime marce pacifiche che si sono svolte lungo le strade e i sentieri della valle, a cui partecipano famiglie con bambini, anziani, in un clima persino festoso e allegro, dove spesso
l’ironia prevale sull’invettiva e sulla protesta. Ho partecipato ad alcune di queste marce, in cui prevaleva un clima di assoluta tranquillità e di socialità allegra. La gente chiacchierava, qualcuno ogni tanto intonava un canto, i bambini giocavano
rincorrendosi. Sempre camminando, gruppi di persone discutevano, anche animatamente, di temi che non erano solo legati al
tav, ma a questioni etiche e politiche ben più ampie. Lungo il percorso, banchetti provvedevano a rifornire panini, bevande e
vino. Un’atmosfera più da sagra di paese o da gita scolastica, che da corteo anni Settanta.
Nessuno può negare che ci siano stati episodi violenti e scontri duri in valle, neppure troppi se si considera che dal 2005 una parte della valle è in pratica occupata militarmente. A tale proposito è curioso rilevare come tutti i rappresentanti, sia istituzionali sia del mondo calcistico, quando accadono episodi di violenza, peraltro assai maggiore e gratuita, dentro o fuori gli stadi di calcio, si prodighino a fare distinzioni, sottolineando, giustamente, che si tratta di minoranze e che la maggior parte dei tifosi è composta da persone tranquille e pacifiche. Qui tale distinzione spesso non viene applicata. Basti pensare alle dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno Cancellieri, che ha affermato che il movimento No-tav sarebbe la «madre di ogni preoccupazione», equiparando lo stesso movimento al terrorismo. Cosa peraltro ribadita, seppure con qualche distinguo, dall’ex procuratore di Torino Gian Carlo Caselli.
Al di là dell’immagine sensazionalistica e talvolta strumentale fornita dai media, la parte «violenta» del movimento è quanto mai minoritaria e talvolta costituita da persone venute dal fuori della valle. Nonostante ci siano stati episodi di scontro, il movimento No-tav non ha mai voluto sconfessarne gli autori, ritenendoli comunque una parte del movimento, anche se i più, in val di Susa seguono altri percorsi, improntati a uno spirito assolutamente pacifista, sebbene alquanto combattivo. Questa volontà di non dividere i «buoni» dai «cattivi» è uno degli elementi caratteristici della battaglia No-tav, i cui attori riconoscono le diversità al loro interno e le accettano, come si accetta un figlio un po’ ribelle, che però fa parte comunque della famiglia e con cui si fanno i conti, ma senza espellerlo.
Secondo la logica per cui fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, ciò che è venuto a mancare, sul piano dell’informazione, è una più corretta analisi dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo in val di Susa, o almeno nella bassa valle, quella più coinvolta nella lotta contro il tav. Cambiamenti che, se osservati attentamente, sposterebbero l’immagine che i media hanno finora fornito da un piano puramente antagonista (quando non addirittura terrorista) a quello di un laboratorio, dove si stanno sperimentando nuove forme di democrazia e di presa in carico, da parte dei cittadini, della cosa pubblica e del bene comune.
Valsusini si diventa
In un suo recente libro Umberto Eco racconta un curioso aneddoto: durante un viaggio negli Stati Uniti, sale su un taxi guidato da un autista pachistano, con il quale inizia a chiacchierare. Il taxista gli chiede da dove viene, dov’è l’Italia e, una volta chiaritesi le idee, gli domanda: «Qual è il vostro nemico?». Eco rimane sorpreso dalla domanda. Già, si chiede, noi italiani abbiamo un nemico? Altrettanto sorpreso rimane il taxista pachistano nell’apprendere che esiste una nazione che non ha un nemico storico. Sarà forse, dice Eco, perché abbiamo fin troppi nemici al nostro interno, «però, riflettendo meglio su quell’episodio, mi sono convinto che una delle disgrazie del nostro paese, negli ultimi sessant’anni, è stata proprio quella di non avere avuto veri nemici». Il saggio di Eco prosegue inanellando una serie di citazioni storiche e letterarie, che ci mostrano come si possa costruire il nemico in modi diversi: per esempio sfruttando la diversità dello straniero, magari accentuandola, perché «avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro».
In effetti, per aumentare la coesione di una comunità, in molti casi occorre non soltanto evidenziarne gli elementi comuni, ma anche enfatizzare le differenze rispetto agli altri. Questi altri vanno creati, modellati fino a essere funzionali al progetto. Un nemico ben costruito è fondamentale per cementare gli individui e per definire i confini del «noi».
Un nemico può anche essere una minaccia, la paura di un evento catastrofico, che spinge non solo un insieme di individui a raccogliersi attorno a un’idea di comunità, dettata dalla sofferenza, dalla condizione di pericolo, ma che può portare anche a una riflessione sui modelli di esistenza dominanti. Il filosofo tedesco Hans Jonas, nel corso di un’intervista concessa al settimanale «Spiegel», sostiene che spesso chi non è minacciato direttamente «non si sforza di fare una vera revisione del proprio modo di vivere. Nel caso di una minaccia incombente è diverso, individualmente e collettivamente». A una successiva domanda, in cui l’intervistatore chiede se, paradossalmente, «l’umanità non abbia bisogno di più Čhernobyl’», Jonas risponde: «La domanda non è ingiustificata. È cinica e la risposta è altrettanto cinica. Forse l’uomo non può essere portato alla ragione senza seri avvertimenti e senza reazioni già molto dolorose da parte della natura martoriata. Forse deve accadere qualcosa di piuttosto grave, perché dall’estasi dei bisogni sempre crescenti e del loro soddisfacimento illimitato si torni a un livello che sia compatibile con la sopravvivenza dell’ambiente a ciò necessario».
La paura di un nuovo disastro ambientale ha spinto gli abitanti della valle – che già si erano opposti, anche se in modo più blando, alla costruzione dell’elettrodotto (poi sospesa) e dell’autostrada (realizzata invece negli anni Ottanta) – non solo a opporsi in modo meccanico all’ulteriore violazione del loro paesaggio, ma soprattutto a riflettere su come il progetto tav, al pari di molte altre grandi opere, sia più il frutto di scelte di carattere economico, finalizzate a interessi politico-privati, che non il risultato di una reale strategia dei trasporti.
La sensazione di pericolo spesso innesca una reazione che conduce a una chiusura su se stessi, dentro un’identità forte, che rischia di fare della comunità un insieme autoreferenziale e di innescare processi di esclusione dell’altro, che diventa automaticamente un nemico. È il modello costruito dalla Lega Nord, fondato su un presunto concetto di autoctonia, a cui sarebbero dovuti certi privilegi, tra i quali il diritto di impedire ad altri di abitare in terra padana. «L’autoctonia è un modo di fare territorio. Una formula che è facile addomesticare con un pizzico di ecologia» scrive Marcel Detienne, ripercorrendo i modi in cui, nell’antica Grecia, si costruiva il mito dell’autoctonia. Perché di mito si tratta o comunque di una verità a tempo determinato. A parte alcuni rari casi, si può al massimo parlare di primato dell’arrivo in una terra: quasi nessuno è lì da sempre. In ogni caso dovrebbero valere le parole di Kant, secondo cui: «Nessuno ha originariamente il diritto di trovarsi in un luogo della terra, piuttosto che in un altro».
È nota la distinzione che gli antichi greci facevano tra civilizzati, coloro che parlavano correttamente il greco, e barbari, letteralmente «balbuzienti», gli stranieri che non conoscevano bene la lingua. Queste due categorie non erano però ereditarie o ascritte, ma avocabili. Un barbaro che avesse imparato bene il greco non veniva più considerato tale, e analogamente il figlio di un barbaro, di quelli che adesso chiameremmo di seconda generazione, non si portava dietro il marchio del padre, purché sapesse parlare correttamente. La distinzione tra greci e barbari si fondava sulla lingua, non sul colore della pelle o su altri dati somatici. Si trattava di un fatto culturale, un gap colmabile e comunque non trasmissibile. Il legame fra terra e sangue rimanda, invece, a una concezione tribale e fissista: si nasce e non si diventa. L’individuo appare come condannato dalla nascita a essere ciò che la sua terra genera, come un prodotto naturale, dop.
Ecco allora che la metafora delle radici risulta quanto mai appropriata a questo tipo di discorso. Siamo nel mondo della natura, di cui non si può e non si deve modificare il corso. La costruzione dell’altro si basa su un noi naturale, quando, invece, «anche i ‘noi’ sono costruiti: non sono dati in natura e nemmeno sono dati nella storia». Al contrario, secondo quanto afferma Umberto Bossi, «i popoli sono il frutto naturale della famiglia naturale. E tutto ciò che è naturale è anche morale». Naturalizzando l’essenza umana, la cultura, e vincolandola alla terra, il «noi» diventa inevitabilmente un «non-loro».
Nonostante il movimento No-tav sia strettamente legato al territorio e alla sua difesa ed esprima istanze che potremmo, anche se riduttivamente, definire ecologiche, nelle parole dei protagonisti non compare mai l’equazione «terra-sangue», non c’è un primato della «valsusinità». Al contrario, nelle interviste e nelle conversazioni fatte in valle, ho spesso sentito sostenere, con declinazioni diverse, che «valsusini si diventa». Pertanto, non un «noi» costruito su un principio di autoctonia, come quello padano, ma un noi che è frutto di un processo, di un’adesione a un’idea. L’identità espressa dal movimento No-tav più che territoriale è politica e il «noi» valsusino un noi aperto e plurale. A testimonianza di questo è la grande pluralità di sguardi e di posizioni che attraversa il movimento, in cui si incontrano persone che militano nella sinistra, ma anche qualche più o meno ex leghista, cattolici militanti, anziani e giovani, il tutto in una quasi assenza di leader acclamati o riconosciuti come tali. Allo stesso tempo, c’è una forte apertura verso l’esterno e la ricerca di collaborazione con associazioni o gruppi di ogni angolo d’Italia e non solo.
Come ha sintetizzato molto bene Nicoletta Dosio in un’intervista: «In questo movimento non c’è stata una fusione di parti diverse, ma un insieme di persone, anche diverse, che sono cresciute insieme, grazie alla lotta comune». Parole a cui sembra fare eco un passaggio di Gigi Richetto, quando afferma: «Dobbiamo salvaguardare quella pluralità umana che è la paradossale pluralità di esseri unici». Un insieme di diversità che hanno imparato a convivere. Per certi versi, potremmo dire che è nato un senso di comunità che prima non esisteva o almeno non si manifestava in modo così esplicito e condiviso. Comunità nel senso più profondo del termine, quella in cui, come dice Zygmunt Bauman, «nessuno dei suoi membri è estraneo». Comunità è un termine «caldo», che dà sicurezza.
«Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo» scriveva Cesare Pavese ne La luna e i falò. Il senso della comunità, però, si è andato via via allentando, come dice Bauman, a causa del lavoro alienante, della sempre minore ridistribuzione e della conseguente maggiore diseguaglianza, dell’allontanamento delle élite dalle masse, con la progressiva svalutazione delle opinioni locali, della crescente autorità degli esperti e dei numeri, dell’individualismo consumistico imperante. «‘Distacco’ significa ‘fuga dai sentimenti’ e dal caos dell’intimità vera e il rifugiarsi nel mondo delle relazioni occasionali, del divorzio facile, dei rapporti non possessivi. (…) Data la totale perdita di fiducia in alternative politiche radicali, oggi la mentalità ‘distaccata’ è incentrata principalmente sul consumo. Questo è il ‘cemento’ che sana tale stupefacente contraddizione; essere distaccati è il modo di vivere con meno aspettative, andando a fare shopping (…), il gusto personale viene elevato a vero e proprio ethos: sei quello che ti piace e quello che perciò ti compri». Accade dunque che la maggior parte delle comunità contemporanee siano di tipo estetico, spesso deterritorializzate, fondate più sulle telecomunicazioni che sulla frequentazione. Ma come ci ammonisce ancora Bauman: «Una cosa che la comunità estetica evita accuratamente di fare è tessere tra i propri membri una rete di responsabilità, e quindi di impegni a lungo termine. Qualunque tipo di legami venga stabilito nel corso della brevissima vita della comunità estetica, essi non legano realmente: sono letteralmente ‘legami senza conseguenze’».
In val di Susa, invece, la gente ha scelto di assumersi le responsabilità che legano gli uni agli altri. «Questo è lo spirito che il tav ha fatto nascere. Il fatto di vivere con un mostro così ha fatto nascere una coscienza, che prima non esisteva» mi ha detto un intervistato. Qualche anno fa un barbiere di Bussoleno è stato arrestato durante una manifestazione e pertanto ha dovuto chiudere il negozio. Gli altri barbieri dell’associazione Etinomia hanno deciso di lavorare a turno per tenere aperto il suo negozio e si sono impegnati a lavorare per il collega arrestato. Quando nel febbraio 2012 Luca Abbà è caduto dal traliccio e si è fatto male, c’erano dei lavori da fare sui suoi terreni. Moltissima gente si è offerta di coltivare i suoi campi. Il 2 marzo 2013 tre ragazzi, alla Novalesa, trovano un oggetto sconosciuto sopra i resti di un vecchio muretto lungo una strada abbandonata. Incautamente lo prendono in mano. È una bomba a mano, residuato bellico della seconda guerra mondiale. L’esplosione ferisce gravemente i tre ragazzi, uno dei quali perde una mano, e un altro rimane gravemente ferito agli occhi. Tutta la valle è rimasta colpita dal tragico evento e subito è scattata la solidarietà nei confronti delle famiglie delle vittime. Si sono organizzati banchetti di tutti i tipi per raccogliere denaro. I ragazzi del liceo di Bussoleno hanno preso una cesta e hanno fatto il giro delle aule, spiegando ai più piccoli cosa era successo e raccogliendo anche qui fondi da distribuire alle famiglie colpite dalla disgrazia. Nulla di tutto questo è mai stato riportato dalla stampa.
* Marco Aime (Torino 1956) insegna Antropologia culturale all’Università di Genova, dopo aver condotto ricerche sul campo in Benin, Burkina Faso e Mali, oltre che sulle Alpi italiane. Autore di numerosi saggi antropologici, come Le radici nella sabbia, Diario dogon, Sapersi muovere, La casa di nessuno, ha anche scritto opere di narrativa, come Taxi brousse, Fiabe nei barattoli. Nuovi stili di vita spiegati ai bambini, Le nuvole dell’Atakora.
Questo articolo è tratto di Etnografia del quotidiano. Uno sguardo antropologico sull’Italia che cambia, edito da eleuthera (prefazione di Jean-Loup Amselle, 192 pp. 15 euro).
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