I nemici dell’ambiente più pericolosi oggi sono coloro che proprio in nome della protezione della natura hanno lanciato un progetto in grande stile di appropriazione, colonizzazione, sfruttamento dei beni comuni globali. Tra loro non ci sono solo imprese multinazionali dell’estrattivismo ma anche istituzioni, come l’Ue, con gli ambiziosi programmi di Green Deal, green economy, certificazioni verdi ed economia circolare. Il ruolo degli Stati nella devastazione ambientale è centrale. Ma non si tratta di sostituire poteri cattivi con potere buoni. Abbiamo bisogno di una trasformazione strutturale dei modi di produzione e di consumo, una conversione dei comportamenti umani e della mentalità delle persone, ossia del modo di pensare noi stessi nel rapporto con gli altri e con la natura: dobbiamo abbandonare l’arrogante antropocentrismo per entrare nella “Koinocene”, della comunanza. Scrive Paolo Cacciari: “Acquisire una coscienza di specie e di luogo, oltre che di genere, di generazione, di classe sociale, ci permetterebbe di percepirci come parte della rete della vita e di capire quale è il posto degli esseri umani nel mondo…”
Confesso che mi sento un po’ in imbarazzo nell’accingermi a criticare la “transizione ecologica”. Un sintagma che ritengo troppo generico e quindi equivocabile in un momento in cui il nuovo governo italiano l’ha cancellato anche dalla denominazione del suo ministero. Mi sento come quelli che non esitano a sparare anche contro la Croce rossa.
I nemici dell’ambiente sono tanti
I primi nemici dell’ambiente sono i negazionisti assoluti, vecchio stampo, alla Trump, alla Bolsonaro e tutti coloro che pur di non disturbare il business as usual (del petrolio, delle armi, della zootecnia industriale, delle automobili, del cemento…) preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Ma sono rimasti oramai in pochi, sconfitti dalle evidenze scientifiche e dagli effetti pratici (che ogni abitante della Terra può riscontrare anche direttamente) del surriscaldamento climatico, dell’inquinamento atmosferico, dell’acidificazione e “plastificazione” dei mari, della desertificazione delle terre fertili, della perdita di biodiversità (numero e numerosità delle specie viventi), della crescita delle malattie contagiose da zoonosi, cardiovascolari e respiratorie e di molte altre “catastrofi naturali”. Gli effetti boomerang, retroattivi, provocati da una pressione antropica insostenibile sugli ecosistemi non sono più occultabili. Potremmo dire che la natura (Gaia, Madre Terra, il creato, la biosfera … chiamatela come volete) sta subendo colpi mortali e si riducono così gli spazi vitali per la sopravvivenza di molte specie anima li (tra cui gli umani) e vegetali, di terra e di acqua. Nei prossimi decenni ampie aree del pianeta, dove ora vive più di un miliardo di persone, specie nelle regioni equatoriali, diventeranno inabitabili. Folle di sfollati, profughi, migranti si metteranno in marcia via via che si manifesterà il cambiamento climatico. Per cinica realtà, le popolazioni che meno hanno contribuito al surriscaldamento dell’atmosfera sono le prime a subirne le conseguenze più pesanti. Come giustamente dice la giovane e coraggiosa attivista svedese, Greta Thunberg (2022): “Siamo tutti in balia della stessa tempesta, ma di certo non siamo tutti sulla stessa barca”. Qualcuno è più “resiliente” di altri.
Ci sono poi altri nemici dell’ambiente più subdoli. Sono gli “inattivisti”, coloro che, pure ricoprendo responsabilità ai vertici delle istituzioni pubbliche e non osando negare esplicitamente i fenomeni di dissesto ecologico, procrastinano ogni intervento accampando varie scusanti: i costi troppo elevati per la riconversione degli impianti industriali, la perdita di capacità produttiva delle imprese, l’annuncio di nuove soluzioni tecnologiche salvifiche (come il nucleare “stellare”, la geoingegneria, la cattura dei gas climalteranti…) Una buona rassegna delle invenzioni dei nuovi dottor Frankenstein ci è fornita da Elizabeth Kolbert nel suo Sotto un cielo bianco. Una danza immobile che prende tempo e fa perdere tempo. Ovviamente, più passano gli anni senza fermare le cause prime dei disastri ambientali, più aumentano i danni subiti e i relativi costi che tutti dobbiamo pagare e più difficile è trovare le soluzioni appropriate. Un albero per crescere ci mette un po’ di tempo, mentre un litro di benzina ci mette un attimo a bruciare. Più precisamente, se vogliamo essere più scientifici, servono fra i 44 e i 104 anni perché una foresta riesca a ricatturare il carbonio rilasciato nella combustione del legname, sempre che si mantengano le condizioni adatte del terreno.
Inoltre, nel girone dei nemici dell’ambiente caccio anche i sostenitori della transizione ecologica smart, soft, win-win, “realistica” e “prudente” che mirano solo a contenere e mitigare i sintomi del male, ad adattare le vite delle persone al peggioramento delle condizioni ambientali, ma che non hanno la volontà di modificare le cause strutturali, profonde, economiche e culturali che ci hanno condotto nel baratro ecologico. Includo qui anche gli “ambiziosi” programmi e le politiche della Unione Europea, il Green Deal, il Next Generation Pian, la green economy, l’economia circolare, la “tassonomia” degli investimenti ritenuti sostenibili, le tasse ecologiche (chi ha i soldi può inquinare), il mercato degli scambi di quote di emissione (che altro non è se non la esternalizzazione e la delocalizzazione delle lavorazioni più sporche), le varie certificazioni ed etichettature verdi generosamente attribuite a beni e a servizi che verdi non sono e quant’altro le istituzioni politiche e le imprese si inventano per rendere sostenibile l’insostenibile economia di mercato (greenwashing). Spesso dietro a nobili e condivisibili dichiarazioni (ripetute stancamente da cinquant’anni, dalla prima conferenza sull’ambiente umano organizzata dall’Onu a Stoccolma, nel 1972) si nascondono interventi del tutto insufficienti o persino controproducenti. Pensiamo alle parole spese dai capi di stato a favore della decarbonizzazione dell’economia (neutralità climatica da raggiungere entro il 2050) e, per contro, al fiume di denaro che continua a essere concesso alle imprese sotto forma di sussidi pubblici ambientalmente dannosi. L’ecologismo dei governi è solo a parole. Hanno ragione le nuove generazioni a denunciare il “Bla, bla, blà’ degli stati e delle imprese.
La mercificazione del mondo
Infine ci sono i nemici dell’ambiente più pericolosi: coloro che proprio in nome della conservazione della natura hanno lanciato un progetto in grande stile di appropriazione, colonizzazione, sfruttamento dei beni comuni naturali globali. Toccando il massimo della ipocrisia, nel nome della difesa tramite valorizzazione del patrimonio naturale lo si privatizza e lo si mette sul mercato. Niente di nuovo, mi si dirà. La terra, la natura (ridotta a materie prime e a mezzi di produzione) sono sempre state il fulcro dei processi di formazione e accumulazione dei capitali monetari. Ma ora le moderne enclosures (gli spazi recintati delle terre comuni, dei pascoli e delle foreste inglesi, da cui è iniziata l’epopea dell’accumulazione primaria capitalista) sono state ampliate alla intera biosfera, all’aria, alle acque, alla stratosfera, ai geno mi, ai neuroni. .. Ingenerale il processo di privatizzazione dei doni gratuiti della natura tende a inglobare ogni soffio della vita, ogni anfratto dell’esistente, trasformandolo in commodities, in merci. “Il capitale si fa mondo”, ha scritto Jason Moore (Moore, 2014), anzi, grazie alla spaceeconomy, cosmico. Un’operazione ciclopica resa possibile dalle nuove tecnologie (microelettronica, nanotecnologie, biologia sub-molecolare ecc.) la cui potenza applicata ai mezzi di produzione di massa è paragonabile all’invenzione del vapore applicato alle macchine (Quarta rivoluzione industriale).
L’operazione di colonizzazione inizia con lo stabilire la posta in gioco: il valore economico dei beni naturali è stato stimato in 4 milioni di miliardi (4.000 trilioni), capace di generare un flusso di 125.000 miliardi all’anno, più di tutto il valore del Pil mondiale (stimato attualmente in 100.000 miliardi all’incirca). L’individuazione di un nuovo così grande giacimento di valore, a cui poter attingere, trasformare in denaro e rimettere in circolazione, costituisce una grande fortuna per le sorti stesse dell’economia capitalista, “un vero colpo di genio”, come lo ha definito John Bellamy Foster, pro fessore di sociologia presso l’Università dell’Oregon e direttore della Month(yReview (Foster, 2021). Una pacchia colossale per un sistema economico che fluttua da tempo sopra una bolla finanziaria, ovvero su una massa gigantesca di denaro (capitale fittizio) che non trova asset reali sufficientemente redditizi su cui atterrare. Laurence H. Summers, già ministro del Tesoro con Clinton e rettore dell’Università di Harvard, aveva previsto che il capitalismo sarebbe entrato in una fase di “stagnazione secolare”. Un problema non da poco per la riproduzione allargata dell’intero sistema socioeconomico. Tanto che alcuni hanno ipotizzato un collasso del capitalismo per implosione. Potremmo discutere a lungo su questo punto: se si tratta di una crisi ciclica normale, transitoria, di riassestamento degli equilibri tra domanda e offerta, o se invece si tratta del “collasso della modernizzazione” (Robert Kurz, 2022). Molte altre volte è stata dichiarata la fine del capitalismo. La collassologia è una scienza seria che è diventata anche un genere holliwoodiano di successo, proprio perché scaramantico, ritengo. Rimane il fatto che fino a oggi il sistema di mercato è sempre riuscito a riprendersi allargando la propria sfera di influenza. E sarà quindi bene prendere sul serio i piani di rilancio annunciati con il nome di Great Reset Capitalism, come dicono a Davos, nella “internazionale dei miliardari”. Un azzeramento per poter ripartire su grande scala con un ciclo di accumulazione, investimenti, profitti, che assembla editing genetico e robotica, visori Metaverso e droni, coltivazione di miniere nei fondali marini profondi e space economy. Il filosofo Christopher Preston ci ricorda che: “Oramai non solo la nostra specie si circonda di nuovi materiali, ma sta anche acquisendo la capacità di riprogettare un certo numero di processi planetari fondamentali. Stiamo imparando a sintetizzare e a cucire assieme nuove disposizioni di Dna per creare organismi originali e utili. Stiamo fabbricando nuove strutture atomi che e molecolari per creare materiali con proprietà completamente nuove. Stiamo modificando la composizione delle specie presenti negli ecosistemi” (Preston, 2020). Ma si può andare anche oltre. Attraverso la differenziazione e la riprogrammazione dei geni delle cellule staminali si possono produrre “organoidi” ed “embroidi”, cioè organi sintetici senza l’impiego di oociti e spermatozoi. E, ancora, veniamo a sapere che i ricercatori dell’università di Stanford hanno trapiantato neuroni umani nei ratti e stanno funzionando, nel senso che stanno contribuendo a determinare il comportamento degli animali, almeno potenzialmente (Alexander Micu, 2022).
Il prezzo della vita
Ma come riescono i tecnici del sistema ad attribuire alla natura dei valori in moneta corrente? Interi team di naturalisti, botanici e biologi coadiuvati da informatici ed economisti sono da tempo al lavoro per definire metodi e criteri per contabilizzare i beni naturali. L’operazione concettuale è abbastanza semplice, esattamente come quella praticata dalle società di assicurazione e di ri-assicurazione: si considerano i patrimoni naturali come se fossero stock di capitali (ribattezzati, appunto, “capitale naturale”) capaci di genera re flussi di beni chiamati servizi ecosistemici (ecosystemservices). Viene così stabilito un valore ipotetico di ogni “risorsi’. Del tipo: quanto costerebbe la riforestazione di un bosco se lo tagliamo? Quanto costerebbe catturare una tonnellata di CO dopo che viene dispersa nell’aria? Quanto costerebbe un approvvigionamento idrico alternativo al prelievo dalle falde? E così via. Ma per passare dall’indicazione di un valore ipotetico a un prezzo reale (un costo che qualcuno sia disposto a pagare) è necessario che intervenga un’autorità pubblica (gli stati singoli o associati nelle convenzioni interna zionali ratificate nei trattati) capace di regolare l’uso di quel bene (attraverso il contingentamento degli accessi, la fissazione di tariffe, imposte o altro) così da creare un mercato concorrenziale all’interno del quale i singoli beni naturali possono essere scambiati. Il gioco è fatto. La natura è sul mercato. Tecnicamente l’operazione avviene in questo modo: primo, si creano società per azioni specializzate nella classe Natural Asset Companies (NAC) e le si quota in borsa nella categoria Intrinsic Exchange Group della New York Exchange; secondo, si collocano i loro titoli in veicoli finanziari (primari e derivati) e li si vendono a investitori privati e istituzionali, compresi i fondi sovrani statali. L’operazione si è così conclusa. La natura viene incorporata nella finanza.
Sembra che anche anche la Cop 21 dell’Onu sulla Biodiversità (tenuta in Canada nel dicembre del 2022) abbia approvato tale modo di operare delle imprese, ritenuto utile al fine di raggiungere l’obbiettivo di preservare il 30% del suolo della Terra. In verità l’operazione non è nuova, sta avvenendo già da tempo con la CO2 nella borsa valori di Londra dove opera un fondo Exchange Traded Commodities specializzato in collocazione di titoli chiamato Spark Change C02. In pratica, intermediari finanziari rastrellano autorizzazioni pubbliche di emissione di gas climalteranti ottenuti dalle imprese (tramite gli ETS, sistemi di compravendita delle emissioni acquisite con aste o tramite scambi diretti tra imprese) e le rivendono incamerate (cartolarizzate) in titoli che ovvia mente maturano rendimenti. L’aria come l’acqua (nella borsa di Chicago) e ogni altro bene del creato sono stati catturati dal regime del capitale. “Tutto ciò che è vivo – ha scritto l’ecofemminista spagnola Joana Bregolat – è suscettibile di diventare un’opportunità da cui ottenere reddito sotto forma di interessi e rendite” (Bregolat, 2022). Diritti di proprietà e di sfruttamento fisico e intellettuale, concessioni e brevetti sono gli strumenti giuridici che rendono possibile le enclosures, vecchie e nuove. La funzione dello stato è quindi strategica per il funzionamento del sistema liberale privatistico. Bisogna dare ragione allo storico Alessando Dani quando ci ricorda una vecchia verità: “Liberismo selvaggio e statalismo, sono in fondo vecchi amici” (Dani, 2013).
Ma qui viene il problema: gli impatti del turbocapitalismo sui suoi stessi “fattori di produzione” (lavoro umano e risorse naturali) non sono affatto né soft,né smart. Il sogno prometeico di controllo, dominio e asservimento della natura avviene attraverso mezzi invasivi e violenti. Prima o poi produrre e consumare sempre di più impatta e compromette i sistemi di supporto naturali primari della vita sul pianeta. Impossibile liberarsi dei vincoli e dei limiti corporei, geologici e biologici del pianeta.
L’altravia
Ci sarebbe però un altro modo di intendere la “transizione ecologica”, come trasformazione integrale, completa e profonda del sistema socioeconomico e culturale oggi dominate. Una trasformazione strutturale dei modi di produzione e di consumo, degli apparati produttivi e di distribuzione. Una conversione dei comportamenti umani, degli stili di vita, della mentalità delle persone, ossia del modo di pensare sé stessi nel rapporto con gli altri e con la natura. Una evoluzione dei codici profondi della civiltà occidentale.
Non si tratta di “guarire il pianeta” (la Terra saprà sopravvivere anche senza la specie Homosapiem, come ha fatto per qualche miliardo di anni; leggi come sarà Il mondo senza di noi,di Alan Weisman, 2008), ma di guarire l’animo umano dalla “cupidigià’ (Greta Thunberg), dall'”avidità” (Vandana Shiva, 2022), dalla hybris prometeica. Se i cicli vitali fondamentali della Terra sono andati in crisi non è stato né per una maledizione divina, né per un meteorite che l’ha colpita, ma semplicemente per un sovra-utilizzo delle risorse naturali di una parte minoritaria dell’umanità (quella più benestante), per un eccesso di prelievi e per sovraconsumo.
A un certo punto della storia umana l’avidità ha preso il sopravvento sulla condivisione, l’individualismo sul vivere-in-comune, l’appropriazione sulla condivisione, l’antropocentrismo sulle relazioni bilanciate e armoniose con la natura.
Anche tra chi sinceramente crede nella necessità di un cambiamento vi è l’idea consolante che si possa raggiungere attraverso piccoli aggiustamenti d’ordine distributivo e organizzativo. Ma l’economia non si cambia con l’economia, ci ricorda il filosofo Roberto Mancini (Mancini, 2015). Le tecnologie non si emendano aggiungendo altre tecnologie. I centri di potere non si cambiano sostituendoli con altri centri di potere (solo il barone di Miinchhausen riusciva a sollevarsi da solo afferrandosi per il colletto della giacca!). Tutto può cambiare solo se cambia la visione generale della vita: una diversa cosmovisione. In fin dei conti l’ecologia è un modo di vedere le connessioni e l’interdipendenza tra le cose, una chiave di lettura per comprendere le relazioni tra gli individui, le società, le specie viventi, il cosmo (Cacciari, 2022).
Dovremmo abbandonare l’arrogante antropocentrismo, che ha segnato l’epoca dell’Antropocene. Ma meglio sarebbe definirlo Tanatocene, poiché, come dice Edward O. Wìlson: “L’umanità ha avuto il ruolo di killer planetario” (Wìlson, 2014), un agente che ha compromesso le condizioni biologiche e geologiche della vita (biocidio). Dovremmo insomma inventarci una nuova traiettoria di civilizzazione ed entrare in un’epoca Ecozoica (come scrisse il teologo Thomas Berry, nel 1978, evocando una “comunità terrestre integrale”), o dell’Ecocene (come ha scritto Leonardo Boff, 2017). Meglio ancora, bisognerebbe entrare nella Koinocene (koiné=comunanza), come ha scritto l’antropologo Adriano Favole (2021).
Insomma, una vera transizione ecologica dovrebbe arrivare a mettere in discussione la “storia profonda” umana, la sciagurata separazione tra storia naturale e storia umana, tra tempi biologici (circolari) e tempi storici (lineari), tra corpo e mente, tra l’ego e il noi… che sono il portato culturale dell’antropocentrismo di tradizione giudaica-cristiana, della rivoluzione scientifica baconiana proseguita nel sogno illuminista del controllo sulla natura, giunta da ultimo alle rivoluzioni industriali e alla “grande accelerazione” del secondo dopoguerra. Per uscire da questa lunga deriva, dovremmo abbandonare l’idea di una nostra eccezionale superiorità che ci legittimerebbe a trattare ogni “cosa’ a nostro immediato piacimento. Siamo solo un primate di grossa taglia che ha avuto un successo biologico evolutivo e una crescita esponenziale della popolazione a spese di tutte le altre specie viventi. Ciò ci dà l’illusione di poter fare a meno di un rapporto interattivo positivo con la natura che è attorno a noi (“ambiente”) e dentro di noi: siamo fatti di carbonio organico, acqua, microbioma e qualche altra cosa. Acquisire una coscienza di specie e di luogo – oltre che di genere, di generazione, di classe sociale – ci permetterebbe di percepirci come pare della rete della vita e di capire quale è il posto degli esseri umani nel mondo.
Bibliografia
- Boff, Leonardo, La terra è nelle nostre mani, Terra santa, Milano, 2017.
- Bregolat, Joana, https://espacio-publico.corn/intervencion/ttansicion-ecologica-o-monetizar-un-planeta-en-llamas, 2022.
- Cacciari, Paolo, Decrescita un rovesciamento culturale, Marotta&Cafiero, Melico di Napoli, 2022.
- Dani, Alessandto, Le risorse naturali come beni comuni, Effigi, Arcidosso, 2013.
Favole, Adriano, “Il tempo del Koinocene”, La lettura, 28 febbraio 2021. - Foster, John Bellamy; La difesa della natura: resistere alla finanziarizzazione della Terra.
- Moore, Jason W., The Value of Everything Work, Capital, and Historical Nature, in the Capitalist World-Ecology, source: Review (Fernand Braudel Center), Voi. 37, No. 3-4, World Ecologica Imaginations (2014). Published by: Research Foundation of State University of New York for and on behalf ofthe Fernand Braudel Center.
- Kolbett, Elizabeth, Sotto un cielo bianco. La natura del futuro, Neri Pozza, Vìcenza 2022.
- Kurz, Robert, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merce, Meltemi, Milano, 2022.
- Mancini, Robeno, Ripensare la sostenibilità, Franco Angeli, Milano, 2015.
- Micu, Alexander, Neuroni umani nel cervello dei ratti, Zme Science, Romania, tradotto da Internazionale,21 ottobre 2022.
- Patel R., J W. Moore, J.W., Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo, Feltrinelli, Milano, 2018.
- Preston, Christopher, L’era sintetica, Einaudi, Torino, 2020.
- Shiva, Vandana, Dalla avidità alla cura. La rivoluzione necessaria per un’economia sostenibile, emi, 2022.
- Thunberg, Greta, The Climate Book, Mondadori, Milano, 2022. Weisman, Alan, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino, 2008.
- Wtlson, Edward O., Metà della terra: salvare il futuro della vita; Codice, Torino, 2016.
Saggio contenuto in un libro collettaneo: La sinfonia della natura (TARKA ed.), curato da Marco Rovelli e Sonia Cortopassi. Il libro raccoglie gli interventi dei relatori intervenuti alla seconda edizione del festival Mèlosmente che si è tenuto al Teatro Puccini di Torre del Lago (Lucca) il 24 e 25 settembre 2022
renata puleo dice
Grazie Paolo!