
Tra le prime domande che facciamo quando veniamo a contatto con una persona vi sono: “Cosa fai? Di che cosa ti occupi?”. Come se la persona dipendesse unicamente dalla sua occupazione. Come se una volta qualificati venissimo liberati dalle apparenze. Non è più il parlante che qualifica il soggetto. È la sua definizione che lo assoggetta.
In questi tempi in cui si continua a morire di lavoro, alla costante ricerca di un lavoro stabile e sicuro, la domanda è mal posta. Anche chiedere “cosa fai” implica l’inquadramento all’interno di una categoria di per sé spersonalizzante.
Grazie a secoli di organizzazione del mondo del lavoro secondo superiori esigenze calate dall’alto il tempo di vita è venuto a coincidere con il tempo in cui siamo occupati. Il tempo non ci appartiene più. Tutto quanto facciamo, alle dipendenze altre o in autonomia, è una forma di schiavitù indotta. Abbiamo introiettato un pensiero, e un agire esterno, che non è il nostro. Esso ci appartiene nella stessa misura in cui ci sentiamo liberi di organizzare la nostra giornata, senza regole pianificate, predeterminate.
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Ritorna, comunque, la solita domanda. Si lavora per vivere o si vive per lavorare? Gli esseri umani: genere talmente evoluto che ancora abbisogna di rendersi schiavo. Riusciremo mai un giorno a liberarci dalle catene?
Questo rapporto di dipendenza/servilismo è ancora più accentuato quando l’attività avviene nell’interesse altrui (rapporto di lavoro subordinato od atipico). E oggi è raro trovare un impiego che non crei stress e sia appagante. Frustrati, nervosi, in conflitto con i colleghi, abbiamo perso ogni stimolo.
Eppure nel mondo ogni anno viene prodotta una ricchezza tale che tutti potremmo viver meglio senza l’assillo quotidiano. Eppure centinaia di milioni di persone vivono di stenti, prive di servizi basilari. Contemporaneamente vengono distrutte risorse, devastati interi territori.
La costante induzione al bisogno spinge a comprare sempre di più. La corsa sfrenata ad accaparrarsi l’ultimo gadget di moda ci spinge verso il consumo bulimico. L’altra faccia di chi cerca il riconoscimento attraverso il possesso. Fino ad arrivare all’estremismo di desiderare di possedere, manipolare e controllare le altre esistenze.
In molti diranno che in mancanza di entrate economiche come fare a mangiare, ad avere cura della salute e far fronte alle esigenze indispensabili della vita? Infatti non siamo tutti Signori che vivono di rendita. Il punto è proprio questo, superare la concezione malata dell’economia. Viste le risorse disponibili e le capacità tecnico-organizzative raggiunte è solo questione di distribuzione. L’economia è fondata sul denaro e il denaro fissa il prezzo del tempo, del lavoro, della vita.
Considerare di autoprodurre quanto è necessario, usare le materie in maniera adeguata, in modo da garantirne l’utilizzo alle future generazioni (fare economia, amministrare-risparmiare in modo razionale). Pensare allo scambio, a moderne forme di baratto – mettendo a disposizione le proprie competenze/saperi ricevendo in cambio un’altra prestazione o un determinato bene – può essere la via di uscita con cui superare la concezione mercificata dell’esistente. Riutilizzare, recuperare. Fuggire dall’economia dello sfruttamento e dirigersi verso quella del dono.
È vero, tantissime attività sono fondamentali. C’è bisogno di qualcuno che se ne occupi. In quanto essenziali – istruzione, cura, manutenzione ecc.- a garantirci l’agio e lo svago devono vedere coinvolte più persone possibili. In questo senso l’attività lavorativa va distribuita, magari attraverso l’impegno di ciascuno a svolgere tot ore per la collettività. Pertanto vanno anche adeguatamente retribuite. Potremmo pensare a una carta/moneta alternativa al circuito da distribuire a tutti i residenti e da poter spendere per venire incontro alle necessità. Chi ne volesse una quota maggiore dovrebbe dedicare maggior tempo alla collettività, ma sempre all’interno di un limite massimo stabilito, altrimenti il rischio è di riprodurre le medesime dinamiche della competizione alla base dell’attuale sistema di sfruttamento.
Evadere da questa prigione dalle porte socchiuse vuol dire ribaltare completamente il dogma della crescita. In un mondo con risorse (quasi) finite è impossibile continuare a crescere all’infinito. Evidentemente, se qualcuno cresce troppo all’interno del sistema-mondo occidentalizzato vuol dire che in tanti, in troppi, pagano gli effetti perversi di questo modello, il capitalismo, elevato a stile disumano di vita. Il denaro crea la merce, la merce ingabbia il lavoro e con esso la disoccupazione. Produce guerre, disastri, e penurie.
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Tutte le mattine i salariati scandiscono il loro tempo nel martellante, ripetitivo ritmo scansionato dalla macchina capitalistica. Fino alla agognata pensione, che verrà assicurata prima, poi, o mai, a seconda della volontà dei governi. E dei poteri reali, quelli che non hanno bisogno di lavorare, di assoggettarsi al tran tran quotidiano previsto per i sudditi, e che decidono le sorti delle nostre vite. Dopodiché una volta diventati improduttivi per il sistema, il sistema stesso deciderà quando staccare la spina.
Mi vengono in mente alcuni film girati tra gli anni Sessanta e Settanta – I giorni contati (E. Petri), N.P. Il segreto (S. Agosti), I viaggiatori della sera (U. Tognazzi) -, immagini critiche volte a mettere in luce l’alienazione come strumento a disposizione del potere. Il potere che regola la vita (biopotere) e decide di sopprimerla (necropolitica).
È giunto il momento di affrancarsi da questo modello. Raggirarlo per mettere al centro la vita vera fatta di relazioni sane e connessioni de-virtualizzate.
Allontaniamoci dalla routine. Ritorniamo a noi stessi. Salviamoci.
Giuseppe Giannini ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
condivido l’art di Giannini. e aggiungo un contributo che vuole essere addirittura epocale: realizzare la seconda rivoluzione Copernicana! il passaggio dalla Cultura Antropocentrica ad un CULTURA NATUROBIOCENTRICA. … come sarebbe x es il trattamento che faremmo ai bovini e suini rispetto a quello di oggi con gli allevamenti intensivi? altamente inquinanti e pericolosi x la ns salute?
Sono completamente d’accordo, ho sempre paragonato i DIPENDENTI a prigionieri con qualche ora d’aria al giorno. Per il resto la loro vita appartiene al PADRONE!