Sarebbe stato davvero ingenuo aspettarsi un cambio di rotta del governo italiano dopo la tragedia di Cutro. Le nuove norme introdotte non sembrano affatto efficaci ma appaiono in contrasto con consolidati principi costituzionali. Si continua, peraltro, ad affrontare la migrazione regolare per lavoro con provvedimenti che non considerano il carattere strutturale del fenomeno, nè risolvono le disfunzioni che si motrate con evidenza negli anni passati. Si interviene con la proclamata apertura di nuovi canali legali di ingresso, che in realtà non si traduce nell’aumento delle vie di ingresso legale per quelle persone che più frequentemente sono costrette a percorrere le rotte del Mediterraneo orientale, come nel caso del barcone naufragato a Cutro, persone che non appartengono alla categoria dei “migranti economici”
1. Se con il Decreto legge n. 20 del 2023 si voleva dimostrare una prima reazione urgente del governo alla strage di Cutro, le nuove norme introdotte, esposte in un Dossier dell’Uficio studi del Senato, appaiono in contrasto con consolidati principi costituzionali o alquanto dubbie sotto il profilo della efficacia per la prevenzione di eventi tanto tragici. Mentre gli sbarchi autonomi proseguono numerosi, malgrado l’allontanamento delle ONG colpite anche con fermi amministrativi, come da ultimo nel caso della Geo Barents di MSF, nel porto di Ancona, bloccata per 20 giorni, mentre nel Mediteraneo centrale si ripetevano i naufragi, le diverse misure adottate dal Conisglio dei ministri ed adesso all’attenzione delle Camere, sembrano non tenere contro, considerate siingolarmente e nel loro eterogeneo complesso, dei requisiti della necessità e dell’urgenza previsti dall’articolo 77 della Costituzione. Si continua ad affrontare la materia della migrazione regolare per lavoro con provvedimenti che non considerano il carattere strutturale di questo fenomeno, nè risolvono le disfunzioni che si sono già lamentate nel corso degli anni, Si interviene infatti con la proclamata apertura di nuovi canali legali di ingresso, che in realtà non si traduce nell’aumento delle vie di ingresso legale per quelle persone che più frequentemente sono costrette a percorrere le rotte del Mediterraneo orientale, come nel caso del barcone naufragato a Cutro, persone che non appatengono alla categoria dei cd. “migranti economici”. Che non sono certo tra le persone che potranno ottenere ingressi “fuori quota” dopo avere superato, nel loro Paese di origine, corsi di formazione riconosciuti dall’Italia, che dovrebbero essere promossi dal Ministero del lavoro. Possibilità che in Siria, in Afghanistan, in Iran, ma anche in Pakistan ed in molti altri paesi di origine, non sono certamente date. Ma anche per i cd. migranti economici, le possibilità di ingresso legale rimangono alquanto aleatorie.
Rimane dunque assai dubbio che le diverse norme affastellate nel Decreto legge abbiano quella “omogeneità di scopo” che è richiesta dalla Corte Costituzionale per riconoscere i presupposti formali di cui all’art.77 secondo comma della Costituzione, come l’intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto legge, “o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista finalistico e funzionale” (così Corte Costituzionale n.244/2016 – red. Amato).
Non si vede infatti quale “intrinseca coerenza” si possa rinvenire in un provvedimento che per un verso appare finalizzato ad aumentare le sanzioni contro gli scafisti in caso di morte o di lesioni delle persone trasportate, ed a ridefinire modalità di ingresso e soggiorno regolare, ma che all’art. 7 prevede l’abrogazione di alcuni importanti casi di protezione speciale, già stabiliti dall’art. 19 del T.U. n.286/98, comma 1.1, terzo e quarto periodo, come introdotte dal Decreto legge n.130 del 2020, che a sua volta modificava il Decreto legge “sicurezza” n.113 del 2018. Per un verso si tende ad aumentare la tutela di coloro che sono costretti a fare ingresso irregolare in Italia per richiedere una forma di protezione, aggravando il quadro sanzionatorio già previsto a carico dei cd. scafisti, ma con la modifica restrittiva apportata in materia di protezione speciale si restringono significativamente proprio le possibilità di riconoscimento della protezione speciale, ad una parte significativa di quanti fanno, o hanno fatto, ingresso in Italia per richiedere uno status diprotezione. L’apparente ampliamento delle possibilità di ingresso legale, riservate ai lavoratori stranieri, non si rivolgono certo ai potenziali richiedenti asilo, che ben difficilmente potranno rivolgersi ad un consolato per ottenere un visto di ingresso per lavoro o per frequentare un corso di formazione. La struttura interna del decreto legge appare dunque intrinsecamente contraddittoria, e risulta tanto eterogenea da far dubitare che le diverse disposizioni condividano la stessa prospettiva finalistica o funzionale. Basti pensare al riguardo come il Decreto legge n.20 del 2023 sia titolato come “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare”, e con riferimento a queste materie si afferma la “straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare”, ma poi all’art.7 preveda l’abrogazione di importanti norme riguardanti la protezione speciale, frutto peraltro di una consolidata evoluzione giurisprudenziale, che non riguardavano nè lavoratori migranti, nè tantomeno apparivano finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare, riguardando la posizione di richiedenti protezione, ma anche quella di persone già regolarmente residenti in Italia, titolari di un permesso di soggiorno per protezione speciale rilasciato ai sensi delle norme che adesso vengono abrogate, persone per le quali si introducono gravi limiti al rinnovo del titolo di soggiorno, e dunque alla loro possibilità di continuare a vivere in Italia in una condizione di regolarità. In questa parte, il provvedimento che si adotta con caratteristiche di “straordinaria necessità ed urgenza” non mira a contrastare l’immigrazione irregolare, ma ne determina l’espansione con grave nocumento per i familiari, anche minori delle persone private della possibilità di un ulteriore rinnovo (oltre la prima volta e per solo un anno) del titolo di soggiorno per protezione speciale Altrettanto avulsi dalla materia oggetto del decreto, per la quale si invocano i requisiti della “straordinaria necessità ed urgenza” le “misure straordinarie in materia di gestione dei centri per stranieri”. previste dall’art. 6 del decreto, che poi si caratterizza all’art.11 della clausola di invarianza finanziaria, rendendo dunque alquanto improbabile il raggiungimento delle finalità di maggiore controllo del settore, pure auspicabili, indicate alle prefetture ed invocate con caratteristiche di “straordinaria necessità ed urgenza”.
Le disposizioni previste dal decreto legge n.20 del 2023 in materia di flussi di ingresso e di quote riservate, appaiono comunque ben distanti dall’obiettivo conclamato nel corso della conferenza stampa seguita alla riunione del Consiglio dei ministri a Cutro, di offrire una valida alternativa a coloro che sono costretti a tentare la via dell’attraversamento del Mediterraneo per fare ingresso in Italia, considerando l’esiguità delle stesse quote, ed il rischio che per agevolare l’ingresso regolare di cittadini di paesi terzi con i quali si instaurano accordi di collaborazione nelle attività di dissuasione delle partenze, si peggiori significativamente la condizione dei potenziali richiedenti asilo in transito in quei paesi, che potrebbero essere soggetti a procedure indiscriminate di respingimento e di espulsione collettiva. Come si sta verificando in questi ultimi mesi proprio in Turchia, in Libia ed in Tunisia, paesi dai quali sono partiti i barconi che hanno fatto naufragio nel Mediterraneo, sulla rotta libico-tunisina, ed a Cutro, sulla rotta dalla Turchia, con un crescente numero di vittime innocenti. Perchè non si può certo imputare a chi fugge per salvare il bene della vita, se non la libertà personale o una sopravvivenza dignitosa, l’esito infausto della traversata.
2. L’articolo 1 del decreto legge n.20 del 2023, prevede che per il triennio 2023-2025, in deroga alla normativa vigente, siano definite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti. le quote massime di stranieri da ammettere in Italia per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale e per lavoro autonomo. Si prevede anche che, in via preferenziale, le quote siano previste in favore di lavoratori di Stati che promuovono per i propri cittadini campagne mediatiche sui rischi per l’incolumità personale derivanti dall’attraversamento irergolare dele frontiere.
Nonostante le modfiche che dovrebbero semplificare il conseguimento di un vsto di ingresso per lavoro, introdotte dall’articolo 2 del decreto-legge n. 20 del 2023, rimane il carattere disfunzionale del sistema dei “flussi migratori” e della “chiamata a distanza” , in quanto assai difficilmente i datori di lavoro sono disposti a chiamare una persona loro sconosciuta, che vive all’estero e le cui capacità lavorative non hanno la possibilità di sperimentare. Mentre potrebbe essere una valida alternativa una reintroduzione della chiamata attraverso “sponsor”, ed una estesa regolarizzazione permenente attraverso la regolarizzazione di rapporti di lavoro già in corso in Italia con cittadini stranieri privi di un permesso di soggiorno. Si tratta comunque di materia che non appare caratterizzata dai requisiti di straordinarietà ed urgenza che dovrebbe caratterizzare la decretazione d’urgenza, che peraltro dovrebbe avere un carattere di uniformità che non si rinviene nel Dereto legge n.20 del 2023, che accomuna l’introduzione di nuove possibilità di ingresso legale per i migranti economici, con misure amministratrive in materia di protezione speciale ed poi ancora con sanzioni penali più severe nei casi di agevolazione dell’ingresso irregolare. Si registra invece una generica commistione tra norme riguardanti l’ingresso per ragioni di lavoro, anche stagionale, e altre norme che riguradano la situazione di lavoratori stranieri già residenti nel territorio dello Stato in modo regolare, per i quali non si prevede, come pure auspicabile, una maggiore tutela, ma soltanto una minima estensione della durata dei permessi di soggiorno ( da due a tre anni) ed una qualche facilitazione nelle graduatorie per i datori di lavoro nel settore agricolo.
L’articolo 3 c.1 reca modifiche alla disciplina sui programmi ministeriali di attività di istruzione e di formazione professionale nei Paesi di origine, rivolte a cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea (nonché agli apolidi). Il secondo comma dell’art. 3 sopprime la condizione secondo cui la possibilità di conversione del permesso di soggiorno per motivi di studio e formazione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro è subordinata al rispetto delle quote relative ai flussi. Si tratta di una norma ragionevole, ma certamente non necessitava di essere inserita per via della decretazione d’urgenza, e d’altra parte appare totalmente al di fuori degli scopi annunciati per prevenire in futuro tragici disastri come il naufragio di Cutro. Analoga considerazione può valere per l’aumento della durata dei permessi di soggiorno per lavoro o per ricongiungimento familiare ( da due a tre anni) prevista dall’art. 4 del decreto legge. Ed ancora la stessa considerazione deve essere fatta a margine dell’art. 5 che al primo comma riconosce ai datori di lavoro operanti nel settore agricolo che non siano risultati assegnatari di manodopera, pur avendo presentato regolare domanda ai sensi del decreto flussi, la possibilità di ottenerne l’assegnazione con priorità sulla base di quanto previsto dai successivi decreti sui flussi emanati nel corso del triennio.
3. L’articolo 7, al comma 1, abrogando il terzo periodo dell’articolo 19, comma1.1, dwel Testo unico sull’immigrazione (di cui al decreto legislativo n. 286/1998),fa venir meno il divieto di respingimento ed espulsione di una persona in ragionedel rispetto della sua vita privata e familiare, che consentiva poi l’ottenimento diun permesso per protezione speciale ai sensi del successivo comma 1.2. La norma sembra costituire soltanto una anticipazione della complessiva riforma (o abolizione?) dell’istituto della “protezione speciale”, per il quale nella Relazione illustrativa del decreto si fa riferniento alla “prospettiva di una complessiva rivisitazione della disciplina della protezione speciale”. Un richiamo che rafforza i dubbi sulla ricorrenza dei requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza” con cui su è voluto intervenire in questa materia.
Viene così abrogata la previsione secondo la quale, ai fini della valutazione del fondato rischio di violazione del diritto alla vita privata e familiare, ( vedi al riguardo l’art. 8 della CEDU) si dispone che occorra considerare la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, il suo effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese di origine. Per effetto del comma 1, vengono di fatto eliminate tutte le modifiche apportate all’articolo 19, comma 1.1, come modificato dal Decreto “sicurezza” n.113 del 2018, ad opera del decreto-legge n. 130 del 2020. Si osserva al riguardo che è vero che la Corte di Cassazione ha affermato che il diritto di cui all’art. 8 CEDU, “alla vita privata e familiare” non è assoluto e “deve essere bilanciato su base legale con una serie di altri valori tutelati: sicurezza nazionale e pubblica, benessere economico del paese, difesa dell’ordine e prevenzione di reati, protezione della salute, e della morale protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Va ricordato tuttavia, a questo stesso riguardo, quell’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. Unite sentenza n. 24413 del 2021) secondo cui il disposto dell’art. 8 CEDU è fondamentale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e la condizione di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia nel tempo necessario al compimento dell’esame della sua domanda di protezione in sede amministrativa e giudiziaria. Al riguardo, si ricorda anche nei lavori preparatori del decreto come le Sezioni Unite ribadiscano che l’art. 8 CEDU consideri, e dunque tuteli, separatamente la vita privata e la vita familiare, come chiarito dalla Corte EDU nella sentenza 14 febbraio 2019 Narjis c. Italia, là dove si afferma che “si deve accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono facciano parte integrante della nozione di “vita privata” ai sensi dell’art. 8. Indipendentemente dall’esistenza o meno di una “vita familiare”, l’espulsione di uno straniero stabilmente insediato si traduce in una violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata”.
Va ricordata a tale riguardo la nota sentenza della Corte di cassazione (prima sezione) n. 4455 del 23.2.2018, con cui si affermava che che la condizione di «vulnerabilità» può «avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standard minimi per un’esistenza dignitosa», oltre a poter essere «la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nel d.lgs. n. 286 del 1998, art. 36» o ancora «essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del Paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)». Secondo la Corte «Queste ultime tipologie di vulnerabilità richiedono l’accertamento rigoroso delle condizioni di partenza di privazione dei diritti umani nel Paese d’origine perché la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano lai dignità».
Si deve richiamare inoltre quanto si osservava nella Relazione illustrativa dell’istituto della protezione speciale nel Decreto legge n.130 del 2020, che adesso si va parzialmente ad abrogare: «l’intervento normativo risponde all’esigenza di dar seguito alle osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica in sede di emanazione del decreto legge n. 113/2018» e di promulgazione della legge 8 agosto 2019, n. 77, di conversione del d.l. 14 giugno 2019, n. 53, recante «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica».
Sembra adesso che nei lavori di conversione del decreto n. 20 del 2023 in legge, non manchino i tentativi per un ripristino totale di quelle norme che abolivano per intero la protezione umanitaria, già contenute nel Decreto legge Salvini n.113 del 2018. E sarebbe solo un anticipo in vista di una futura ulteriore “rivisitazione” della protezione speciale, sulla cui urgenza si può davvero dubitare, dal momento che tronca percorsi di inclusione sociale con grave nocumento per persone, ed interi nuclei familiari, già regolarmente residenti nel nostro paese. Non è infatti scontato, anzi appare assai dubbio, che queste persone, al termine del primo rinnovo del permesso di soggiorno per protezione speciale, riescano a trovare un datore di lavoro che stipuli un contratto a tempo indeterminato con le caratteristiche necessarie per la conversione del p.d.s. per protezione speciale in un permesso di soggiorno per lavoro.
La riduzione dei casi nei quali sarà possibile ottenere un permesso per protezione speciale, oltre a produrre un aumento dei casi di soggiorno irregolare, va in aperto contrasto con un diffuso orientamento giurisprudenziale che applica la normativa vigente che si vorrebbe modificare con il decreto, come uno sviluppo coerente del dettato dell’art. 10 della Costituzione italiana, che ha una portata più ampia della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e delle Direttive europee in materia di protezione onternazionali. Regimi speciali di protezione sono peraltro previsti nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, in base alla c.d. Direttiva rimpatri (n. 2008/115/CE, art 6.4), dall’art. 6, co. 5, lett. c, del Codice frontiere Schengen – Regolamento 2016/399 -, dall’art. 17(2) del Regolamento Dublino 2013/604, dagli articoli 19 e 25 del Codice visti – Regolamento 810/2009, come si può verificare, in almeno 20 dei 27 Stati membri (Austria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria).
Secondo l’art. 6 comma 4 della Direttiva europea 2008/115/CE, “In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di rimpatrio. Qualora sia già stata emessa, la decisione di rimpatrio è revocata o sospesa per il periodo di validità del titolo di soggiorno o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare.
Appare particolarmente grave, anche sotto il profilo della possibile lezione del principio di parità di trattamento, la previsione introdotta con norma transitoria secondo cui si stabilisce che la nuova disciplina operi dall’entrata in vigore del decreto-legge, con il rischio quindi che una ulteriore modifica del decreto in sede di conversione, possa determinare un trattamento differenziato per casi assolutamente simili.
Al riguardo la sentenza 24 settembre 2019, n. 29459, le Sezioni Unite aveva risolto due rilevanti questioni in tema di protezione umanitaria, che si ripropongono adesso, a fronte della carente formulazione del decreto n.20 del 2023 sul regime intertemporale e sulla rilevanza dell’integrazione sociale ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per la cd. protezione speciale.
Secondo i giudici della Cassazione, affermavano che la nuova disciplina allora introdotta dal Decreto legge n.113 del 2018 non era applicabile retroattivamente alle domande già presentate al momento della sua entrata in vigore e che la protezione umanitaria aveva natura di diritto soggettivo “da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dagli artt. 2 Cost. e 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”, affermando che “che tutti i tipi di protezione son ascrivibili all’area dei diritti fondamentali: non solo lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, ma anche la protezione umanitaria, avente carattere temporaneo e residuale”. La Corte concludeva che in base all’art. 10 della Costituzione “Ciò che può essere definito per legge – e quindi l’ambito di discrezionalità che la Costituzione riconosce al legislatore – riguarda l’accertamento del diritto e l’individuazione delle modalità per il suo esercizio”.
4. L’articolo 8 reca disposizioni penali volte, da un alto, a inasprire le pene per i delitti concernenti l’immigrazione clandestina e, dall’altro, a prevedere la nuova fattispecie di reato di morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina.
Appare davvero dubbio che un inasprimento delle pene, già assai elevate, previste per i cd. scafisti, che spesso non appartengono neppure all’organizzazione criminale dei trafficanti che gestisce le partenze, possa comportare vantaggi in termini di sicurezza per i cittadini e di maggiore tutela della vita delle persone che, in assenza di altre vie di fuga, sono costrette a percorrere rotte di ingresso irregolare. Che comunque non possono essere bloccate con accordi con paesi terzi che non rispettano i diritti umani, negando la possibilità di presentare una domanda di asilo o di altra forma di protezione, una volta giunti comunque in frontiera. Possibilità che la Convenzione di Ginevra del 1951 sui ridugiati tutela espressamente, stabilendo il diritto di chiedere protezione una volta raggiunta una frontiera anche se irregolarmente, come peraltro avviene storicamente in tutte le parti del mondo, nella quasi totalità delle richieste di asilo. Nessun potenziale richiedente asilo si può rivolgere infatti, tanto nel paese di origine dal quale deve fuggire, quanto nel paese di transito, nel quale sovente è altrettanto esposto a forme di verse di abusi e di persecuzione, anche generalizzata, ad una rapresentanza diplomatica o consolare per il rilascio di un visto di ingresso per motivi umanitari. Come pure sarebbe auspicabile che avvenisse almeno nei paesi di transito, ma in condizioni di sicurezza per le persone, e per le loro famiglie, che al momento non sembrano soddisfatte in nessuno dei paesi di transito dai quali si verificano generalmente le partenze verso l’Italia. Il caso più recente della Tunisia, nella quale si sta assistendo ad una vera e propria perscuzione delle persone in transito che provengono dall’Africa subsahariana, conferma come al momento la comunità internazionale nel suo complesso non riesca a garntire alcun canale legale di ingresso, o di ricollocazione su vasta scala, per coloro che sono portatori di istanze di protezione. Come la parte assolutamente prevalente delle persone costrette ad attraversare il Mediterraneo su rotte ch diventano sempre più pericolose non solo per le scelte dei trafficanti e per la fragilità delle imbarcazioni, ma anche per i ritardi nei soccorsi ed il ritiro (o il mancato intervento) dei mezzi statali che dovrebbero presidiare le acque internazionali.
Nei confronti delle condotte dirette a procurare l’ingresso irregolare nel territorio dello Stato, si prevede che il reato venga punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori di tale territorio. Su tale estensione della giurisdizione italiana in acque internazionali si osserva come, con la sentenza Cass. Pen., Sez. I, n. 31652 del 2021 la Corte di Cassazione abbia precisato che «il criterio di collegamento che rende incondizionatamente punibile la condotta commessa in “alto mare”, quando sia anticipatamente individuata dagli scafisti la sperata località di approdo nel territorio italiano, ma essa sia poi occasionalmente individuata dal soccorso prestato in ambito SAR, va ravvisato nella previsione dell’art. 7 c.p., comma 1, n. 5». Successive applicazioni giurisprudenziali hanno confermato questo indirizzo della Corte di Cassazione, motivo per il quale non si coglie l’esigenza di intervenire con la decretazione d’urgenza negli stessi termini già adottati dalla consolidata giurisprudenza alla quale comunque dovrà rimanere il compito di accertare tutte le circostanze di fatto, anche al di fuori dello spazio territoriale italiano, e la concreta quantificazione della pena. Sotto questo profilo non sembra possibile mettere sullo stesso piano gli organizzatori del traffico di esseri umani e coloro che a vario titolo, e spesso in condizione di costrizione, hanno contribuito alla condotta del mezzo con il quale si è realizzato, o tentato, il trasporto di persone verso i confini territoriali italiani. Chi “effettua il trasporto di stranieri”, e soprattutto chi ” compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato”, non può essere sottoposto allo stesso regime sanzionatorio di chi ” promuove, organizza, dirige, finanzia” il “trasporto” nel territorio dello Stato, Inoltre, la formulazione, adottata nel decreto, che questo tipo di trasporto sia attuato “con modalità tali da esporre le persone a pericolo per la loro vita o per la loro incolumità”, o “sottoponendole a trattamento inumano o degradante” ha una portata talmente generica da implicare seri dubbi sul rispetto del principio della riserva di legge in materia penale.
La formulazione dell’apparato sanzionatorio previsto dal nuovo Decreto legge appare infatti tanto ampia, e per certi aspetti sovrapponibile a norme penali già esistenti, che appare dubbio il rispetto del principio di legalità della pena, che imporrebbe una precisa definizione delle diverse fatispecie penali. Sembra in sostanza che la confusione semantica tra la figura dello scafista e quella del trafficante si estenda anche nalla ricostruzione delle ipotesi di reato e delle conseguenti pene. Eppure la Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale distingue nettamente le due ipotesi, tracciando un percorso obbligato al legislatore nazionale, come emerge anche dai due distinti Protocolli aggiuntivi, contro la tratta di esseri umani e contro il traffico illecito di migranti.
La stessa Convenzione detta norme precise in materia di giurisdizione e di cooperazione tra gli Stati per il contrasto della criminalità transnazionale con specifico rifernimento ai diversi casi di organizzazione delle reti criminali e di movimentazione delle persone attraverso canali irregolari, puntando maggiormente sulla collaborazione, anche nelle forme della richiesta di rogatoria e dell’estradizione dei responsabili, piuttosto che su una generica estensione della giurisdizione nazionale al di fuori dei limiti territoriali dello Stato e sulla sovrapposizione della figura del trafficante con la figura dello scafista.
5. L’inasprimento delle pene per i cd. “scafisti” non sembra peraltro costituire quell’elemento di dissuasione che si auspica per ridurre le partenze e quindi ridurre il numero delle vittime dei naufragi, mentre l’estensione della giurisdizione italiana in acque internazionali era già prevista dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, e permetteva già ai giudici penali di sanzionare con pene assai gravi gli autori di reati connessi all’immigrazione irregolare che comportavano anche la morte come conseguenza del reato.
Come si è già ricordato, una consolidata giurisprudenza aveva già stabilito infatti che sussiste la giurisdizione dello Stato italiano nei confronti di coloro che, agendo al di fuori del territorio nazionale abbiano abbandonato in acque extraterritoriali dei migranti condotti su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del soccorso in mare e far sì che le persone trasportate siano accompagnate nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità (Cass. Pen., Sez. I, 28.2.2014, n.14510). Altre sentenze della Corte, come la sentenza della Cassazione n.20503 del 2015 (con la nota tesi dell’autore mediato) riconoscevano quanto adesso ribadito dal Decreto legge n.20 del 2023. Ed altre, citate nella Relazione illustrativa del decreto, affermavano già il principio secondo cui si può ritenere sussistente la giurisdizione dello Stato italiano per il delitto di omicidio doloso plurimo commesso in alto mare a bordo di imbarcazioni prive di bandiera in danno di migranti trasportati illegalmente in Italia, in forza del principio di universalità della legge penale italiana di cui all’art. 3, comma secondo cod. pen. e – in virtù del rinvio di cui all’art. 7, n. 5, cod. pen. – della diretta applicazione della Convenzione ONU di Palermo sul contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, trattandosi di reato grave, con effetti sostanziali nel territorio italiano, commesso da un gruppo criminale organizzato nell’ambito di una complessa condotta posta in essere allo scopo di commettere i reati previsti dalla Convenzione e dei Protocolli Addizionali, tra i quali rientra il traffico di migranti verso l’Italia (Cass. Pen.,Sez. I, n. 31652 del 2021).
L’aumento delle pene stabilito nel decreto anche per reati colposi appare poi in contrasto con i principi di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e di proporzionalità della pena (art.27 della Costituzione), stabilendo la stessa pena per fattispecie assai diverse tra loro, e di differente gravità, senza arrivare ad incidere peraltro, come sarebbe vietato dalla Costituzione, sui poteri discrezionali del giudice nella determinazione effettiva della pena stabilita con la sentenza di condanna. Si rischia invece di impedire un corretto bilanciamento tra le possibili variazioni di gravità del fatto e si riducono gli spazi di quantificazione della sanzione penale riservati al giudice.
Il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost. affida le scelte sulla misura della pena alla discrezionalità politica del legislatore, ma il risultato dell’esercizio di tale discrezionalità non è esente dal sindacato fondato sugli altri parametri costituzionali, tra cui quelli previsti dagli articoli 3 e 27 Cost. Emerge un orientamento che cancella la funzione rieducativa e si concentra sulla funzione afflittiva della sanzione penale. In una casistica nella quale ad essere coinvolti in questo tipo di reati sono spesso soggetti molto giovani che assumono il ruolo di scafista per non pagare il costo del passaggio e non perchè stabilmente inseriti in una organizzazione criminale.
Come ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza n.236 del 10 novembre 2016, può ricorrere la violazione del principio di proporzionalità della pena, in base agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, non solo quando una determinata pena prevista per un reato sia ingiustificatamente più severa di quella prevista per un’altro reato, ma anche quando questa stessa sanzione penale risulti di per sè sproporzionatamente severa rispetto alla gravità dei fatti oggetto di condanna. In questa sentenza la Corte, infatti, “è giunta alla declaratoria di illegittimità costituzionale in seguito a un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata e non già in forza di una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche”. Nel caso delle sanzioni imposte nei confronti dei cd. “scafisti” rimangono da valutare nella graduazione della pena i nessi di causalità e la componente soggettiva, non potendosi certo sanzionare condotte colpose che producono la morte di una o più persone, più gravemente di condotte dolose che determinano gli stessi effetti. Non si può arrivare in sostanza a prevedere per un reato colposo che comporta la morte di una o più persone come conseguenza del comportamento illecito che si intende sanzionare, una pena che nel suo massimo edittale può risultare più severa di quella prevista in casi di omicidio volontario,
6. In alcuni casi, soprattutto in materia di controlli giursdizionali sull’allontanamento forzato, le nuove norme intodotte dal Decreto legge n.20 del 2023 appaiono addirittura in contrasto con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonti sovraordinate ai sensi degli articoli 10 e 117 della Costituzione, alle quali la legge ordinaria non può certo derogare. L’art.9 comma 2 del decreto legge elimina la necessità della convalida del giudice di pace per l’esecuzione con accompagnamento alla frontiera del decreto di espulsione disposta da un’altra autorità giudiziaria. A tale fine, modifica l’articolo 13, comma 5-bis, del T.U. immigrazione che, nella formulazione finora vigente, prevede l’obbligo della convalida da parte del giudice di pace in tutti i casi di espulsione eseguita dal questore con accompagnamento coattivo alla frontiera, i quali sono tassativamente elencati al comma 4 dell’articolo 13 del medesimo Testo unico. Con il nuovo decreto, invece, si abolisce l’obbligo di sottoporre a convalida l’esecuzione del decreto di espulsione disposta dal giudice a titolo di misura di sicurezza ovvero a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, ai sensi degli articoli 15 e 16 del Testo unico e le altre ipotesi di cui alla lettera f) dell’art, 13, co. 4, TU immigrazione n-286/98. Si persegue evidentemente l’obiettivo di rendere più rapide le procedure di allontanamento forzato e per questo scopo si elimina la necessità di convalida del giudice di pace per l’esecuzione dei decreti di espulsione disposti a seguito di condanna stabilita dall’autorità giudiziaria.
La Direttiva 2008/115/CE impone tuttavia garanzie procedurali che vanno rispettate in tutte le procedure di rimpatrio. Tra le più importanti si rinvengono quelle relative ai “mezzi di ricorso” contenuta nell’articolo 13. I cittadini di paesi terzi soggetti ad una procedura di rimpatrio hanno in ogni caso il diritto di chiedere la revisione della decisione dinanzi ad un’autorità giudiziaria o amministrativa competente composta da membri imparziali e indipendenti.
Secondo la sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2001, l’art. 13 della Costituzione italiana, che impone la convalida giurisdizionale per qualunque ipotesi di limitazione della libertà personale da parte dell’autorità di polizia, come si verifica in caso di allontanamento forzato dello straniero “irregolare” respinto o espulso, non subisce eccezioni. La Corte afferma in proposito che deve escludersi che ” le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto”.
7. Il comma 3 dell’art.9 abroga l’articolo 12, comma 2, del regolamento di attuazione del Testo Unico immigrazione (adottato con D.P.R. n. 394/1999), ai sensi del quale, nel caso in cui le autorità rifiutino la domanda di permesso di soggiorno, il questore, in occasione della notificazione del rifiuto, concede allo straniero un termine non superiore a quindici giorni lavorativi, per presentarsi al posto di polizia di frontiera indicato e lasciare volontariamente il territorio dello Stato. Sembra che, con l’abbrogazione della norma che prevede il termine di 15 giorni per il rimpatrio volontario, allo scopo di accelerare l’espulsione del cittadino straniero, si sia significativamente ridotta la possibilità di difesa da parte della persona che riceve un qualsiasi provvedimento di diniego di permesso di soggiorno, se non un agravamento delle condizioni previste per lo stesso rimpatrio volontario, al punto da non renderlo materialmente possibile. Si profila dunque una estensione dei casi di espulsione dal territorio nazionale con accompagnamento forzato.
Secondo la Relazione illustrativa del decreto, “la novella in esame”, costituirebbe la “puntuale attuazione” dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva Direttiva CE n.115 del 2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, in materia di rimpatri. In realtà l’articolo 6 appena richiamato, al suo primo comma si limita ad affermare che “Gli Stati membri adottano una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui sogiorno nel loro territorio è irregolare, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi da 2 a 5”. Al paragrafo 6 dello stesso articolo 6 della Direttiva CE n.115 del 2008 si prevede soltanto che “La presente direttiva non osta a che gli Stati membri decidano di porre fine al soggiorno regolare e dispongano contestualmente il rimpatrio e/o l’allontanamento e/o il divieto d’ingresso in un’unica decisione o atto amministrativo o giudiziario in conformità della legislazione nazionale, fatte salve le garanzie procedurali previste dal capo III e da altre pertinenti disposizioni del diritto comunitario e nazionale”.
Secondo la Relazione allegata al Decreto legge n.20 del 2023, in questo modo si darebbe risposta ai rilievi contenuti nei punti 1 e 2 della raccomandazione relativa alla correzione delle carenze individuate nella valutazione 2021 dell’Italia sull’applicazione dell’acquis di Schengen in materia di rimpatrio di cui alla decisione di esecuzione del Consiglio, del 17 giugno 2022 (doc. 10402/22)”.
In realtà la citata Decisione di esecuzione del Consiglio recante raccomandazione relativa
alla correzione delle carenze individuate nella valutazione 2021 dell’Italia sull’applicazione dell’acquis di Schengen in materia di rimpatrio prevede testualmente che “sia emessa senza inutili ritardi una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di paese terzo la cui domanda di soggiorno regolare o di protezione internazionale sia stata rigettata, in linea con l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2008/115/CE, come indicato anche nella raccomandazione 1 della decisione di esecuzione 6358/17 del Consiglio”. Il richiamo fa quindi riferimento alle sole decisioni di rimpatrio con accompagnamento forzato che sono previste dall’art.6 della Direttiva 2008/115/CE e non alle decisioni di rimpatrio per cui si prevede la partenza volontaria, che sono disciplinate dal successivo articolo 7 della stessa Direttiva. La stessa Raccomandazione sollecita anzi gli Stati membri a “aumentare la promozione dei progetti di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione, tra l’altro attraverso attività di sensibilizzazione e consulenza proattive”.
Nella normativa eurounitaria non si rinviene dunque alcuna norma che obblighi l’Italia a concedere un termine per il rimpatrio volontario inferiore ai 15 giorni già previsti dalla legislazione vigente, salvo i casi particolari ( domanda manifestamente infondata o fraudolenta, pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale), per cui gli Stati membri “possono”, non devono, concedere un termine per la partenza volontaria inferiore a sette giorni. Al contrario di quanto afferma la Relazione di accompagnamento al decreto legge n.20 del 2023, l’invito del questore previsto all’articolo 12 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, non confligge dunque con la direttiva europea sui rimpatri.
La normativa eurounitaria prevede anzi (al Considerando 10 della Direttiva 2008/115/CE) che “Se non vi è motivo di ritenere che ciò possa compromettere la finalità della procedura di rimpatrio, si dovrebbe preferire il rimpatrio volontario al rimpatrio forzato e concedere un termine per la partenza volontaria. Si dovrebbe prevedere una proroga del periodo per la partenza volontaria allorché lo si ritenga necessario in ragione delle circostanze specifiche del caso individuale”. E ancora, la stessa Direttiva all’art.7 stabilisce che ” La decisione di rimpatrio fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi 2 e 4″. Si prevede quindi la possibilità di proroga di questo termine (par.2), su richiesta del cittadino straniero interessato, “tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l’esistenza di bambini che frequentano la scuola e l’esistenza di altri legami familiari e sociali”, mentre al paragrafo 4 si stabilisce che “Se sussiste il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza na zionale, gli Stati membri possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni”. La riduzione del termine stabilito per la partenza volontaria può quindi ammettersi solo in presenza di circostanze precise, che vanno provate caso per caso dall’amministrazione procedente, e non in maniera automatica per tutte le persone che ricevano la notifica del diniego di una richiesta di permesso di soggiorno.
8. Le disposizioni contenute nell’art.10 del decreto legge relativo al “potenziamento dei centri di permanenza per i rimpatri” contengono ampie deroghe alla disciplina per la realizzazione di queste strutture in materia di assegnazione di appalti pubblici previste a livello nazionale ed europeo, con una maggiore responsabilizzazione delle prefetture, Le stesse deroghe, che appaiono comunque di dubbia legittimità, anche tenendo conto del quadro normativo europeo sono motivate con “l’esigenza di celerità connesse all’eccezionale afflusso di migranti che caratterizza l’attuale congiuntura”. Un esigenza che non sembra ricorrere nel caso di centri destinati all’allontanamento forzato delle persone e non alla prima accoglienza, soprattutto considerando che l’allontanamento forzato dipende, più che dal numero dei posti disponibili nei CPR, dalla disponibilità dei paesi di origine a effettuare i riconoscimenti individuali e accettare la riammissione dei propri cittadini destinatari di provvedimenti di respingimento o di espulsione adottati dall’Italia, sempre che si tratti di “paesi terzi sicuri” e che il rimpatrio non avvenga in violazione da quanto previsto in materia di divieti di espulsione e di respingimento stabiliti dalla normativa italiana, eurounitaria ed internazionale. Già il Decreto legge Minniti-Orlando n.13/2017, oltre a mutare la denominazione dei centri di identificazione ed espulsione (CIE) in centri di permanenza per i rimpatri (CPR), aveva disposto l’ampliamento della rete dei centri, in modo da realizzare un centro in ogni regione, con un raddoppio delle strutture detentive disponibili a livello nazionale, da 10, che attualmente sono rimasti in tale numero per una capienza complessiva di 1.378 posti fino 20 per la forte resistenza dei territori e degli enti regionali di diverso segno politico.
Non si vede in che modo l’amplianento dei CPR, che sono soltanto centri di detenzione amministrativa, difficilmente realizzabile in base ad un provvedimento con una clausola di invarianza finanziaria (art.11 del Decreto legge n.20 del 2023), possa significativamente contribuire a dotare di maggiore effettività i provvedimenti di allontanamento forzato, o fare fronte “all’eccezionale afflusso di migranti che caratterizza l’attuale congiuntura”, che si può stimare già nel mese di marzo di questo anno a diverse decine di migliaia di persone. Ancora si può esprimere una maggiore amarezza, se si pensa che questo provvedimento è stato adottato nella giornata in cui il governo si è recato a Cutro per un Consiglio dei ministri straordinario, mentre poco distante si continuavano a raccogliere cadaveri di persone che certamente non rientravano tra i potenziali destinatari delle misure sanzionatorie penali e amministrative che costituiscono il contenuto sostanziale del Decreto legge n.20 del 2023, evidentemente volto a contrastare il soggiorno irregolare ed a facilitare le procedure di allontanamento forzato, piuttosto che dare maggiore efficienza ai soccorsi in mare e creare nuovi canali di ingresso legale per potenziali richiedenti asilo e per profughi di guerra.
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