Da centri di permanenza temporanea per migranti in attesa di espulsione a potenti simboli della disumanità permanente che accompagna ormai da decenni le politiche razziste sull’immigrazione in Italia. Fulvio Vassallo Paleologo analizza il percorso ignobile e i cambiamenti intervenuti in un tempo infinito nella detenzione amministrativa di persone migranti che non hanno commesso alcun reato. L’intensa attività delle ultime settimane della signora Meloni in Tunisia porterà quasi certamente un’intensificazione dei rimpatri con accompagnamento forzato, con una prevedibile maggiore pressione sui cittadini tunisini irregolari presenti in Italia, e dunque ad un ulteriore sovraffollamento dei centri di permanenza per i rimpatri. Appaiono ancora lontane, invece, le prospettive di un raddoppio del numero dei centri, vagheggiato da Minniti già nel 2017. Intanto la situazione delle persone trattenute sta raggiungendo livelli di degrado mai visti in precedenza. Come sempre l’attenzione dei media è concentrata su quel che dice e vuole il governo, che vengano calpestati diritti fondamentali e dignità di persone che non esistono non interessa nessuno. Eppure, anche questa, non è certo una ragione per tacere. Anzi

1.A partire dal 1998, con l’introduzione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza (CPTA) per gli immigrati irregolari in attesa di espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona una violazione amministrativa, l’ingresso o il soggiorno irregolare, con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questa forma di limitazione della libertà personale è consentita in base all’art. 13 della Costituzione italiana. In assenza di un’espressa previsione di reato la semplice presenza irregolare sul territorio o l’ingresso “clandestino” o in assenza di visto, sono sanzionati con una misura amministrativa simile al domicilio obbligato, ma che nella sostanza risulta ancora più limitativa della libertà personale. La stessa misura viene attuata indifferentemente nei confronti di chi si trova in una situazione irregolare perchè sono scaduti i termini del visto, o perde il permesso di soggiorno, magari per un mancato rinnovo ala scadenza, come nei confronti dei richiedenti asilo denegati e degli immigrati che escono dal carcere dopo la espiazione della pena o la liberazione anticipata, o ancora per il venir meno delle esigenze cautelari, se in carcerazione preventiva, o perché assolti in quanto i fatti contestati non sussistevano. Per tutti, senza alcuna considerazione della condizione personale dei singoli, sulla base della semplice mancanza di un valido titolo di soggiorno si dispone, spesso in modo automatico, l’espulsione e la misura del trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri (CPR) al fine di eseguire l’accompagnamento forzato in frontiera in tutti i casi nei quali la misura dell’allontanamento non possa effettuarsi immediatamente.
Già nei lavori preparatori della legge Turco- Napolitano, al tempo dell’istituzione di queste strutture, si richiamava l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che consentirebbe al legislatore nazionale l’adozione di misure limitative della libertà personale “ se si tratta dell’arresto o della detenzione legali di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”. Una misura che doveva però comportare una convalida giurisdizionale dei provvedimenti limitativi della libertà personale. Ma il legislatore del 1998 (legge Turco-Napolitano) era riuscito a prevedere la detenzione amministrativa senza una convalida giurisdizionale, lacuna poi colmata nel 2001, anche a seguito della fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n.105/2001. Nel frattempo nei centri di pemanenza temporanea e assistenza (CPTA) istituiti in Sicilia e poi in altre regioni itaiane si verificavano tragedie, come la strage seguita al rogo del CPT Serraino Vulpitta a Trapani, nel dicembre del 1999, che evidentemente non hanno insegnato nulla. Anche se per quella terribile strage, a seguito dela quale persero la vita sei giovani immigrati, malgrado le assoluzioni dei giudici penali, la giustizia civile sanciva la responsabilità dello Stato. Una sentenza che dovrebbe essere tenuta presente ancora oggi,
Il forte richiamo al principio di legalità contenuto nell’art. 13 della Costituzione italiana italiana e nell’art.5 della Convenzione EDU da allora, fino alla legge n.50 del 2023, veniva tuttavia contraddetto da una frenetica attività normativa di contenuto assai generico, sovente anticipata da prassi amministrative derivanti da provvedimenti discrezionali del ministero dell’interno o delle sue articolazioni periferiche (Questori e Prefetti) destinati ad alimentare un diffuso contenzioso che si estendeva anche alla Corte di Cassazione ed alla Corte Costituzionale. Anche a livello di Unione europea si è dibattuto a lungo sulla attuazione della direttiva rimpatri 2008/115/CE, quella che in origine veniva definita come la “direttiva della vergogna”, ma che a distanza di quindici anni appare come una garanzia nei confronti della involuzione delle legislazioni e delle prassi nazionali. Purtroppo, le indagini del Parlamento europeo non hanno portato ad un miglioramento della situazione, in Italia, come nel resto d’Europa, sulla quale si abbatteva l’ondata populista e nazionalista che di fatto ha impedito qualsiasi passo avanti nella tutela dei diritti umani.
Dopo ogni pronuncia della giurisprudenza nazionale che cercava di ristabilire il principio di legalità, si registravano altri interventi legislativi e di nuovo prassi amministrative che se ne discostavano, rendendo incerta l’effettiva garanzia dei diritti fondamentali delle persone, garantiti a tutti gli immigrati, indipendentemente dal loro stato giuridico regolare o irregolare, dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98.
Nel 2001 la Corte Costituzionale con la sentenza n.105. interveniva sulla legittimità della detenzione amministrativa dei cittadini stranieri e con riferimento ai CPTA ( Centri di permanenza temporanea e assistenza) enunciava un importante principio di diritto che fino ad oggi non ha subito smentita. Ma che nella prassi viene ampiamente disatteso, quando le questure prolungano i tempi del trattenimento al di là delle convalide giurisdizionali o organizzano operazioni di rimpatrio con accompagnamento forzato, soprattutto verso la Tunisia, prima che alle persone interessate sia data la possibilità di fare valere i diritti di difesa previsti dalla legge.
“Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Si può forse dubitare se esso sia o meno da includere nelle misure restrittive tipiche espressamente menzionate dall’articolo 13; e tale dubbio può essere in parte alimentato dalla considerazione che il legislatore ha avuto cura di evitare, anche sul piano terminologico, l’identificazione con istituti familiari al diritto penale, assegnando al trattenimento anche finalità di assistenza e prevedendo per esso un regime diverso da quello penitenziario. Tuttavia, se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle “altre restrizioni della libertà personale”, di cui pure si fa menzione nell’articolo 13 della Costituzione. Lo si evince dal comma 7 dell’articolo 14, secondo il quale il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura ove questa venga violata.
Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale.
Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto.“
La stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 222/2004, chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’art. 13 co. 5-bis del d.lgs. 286/98, ne aveva affermato l’incostituzionalità nella parte in cui non prevedeva che la convalida della espulsione da parte del Giudice di pace dovesse svolgersi nel rispetto dei principi di contraddittorio e difesa e, inoltre, aveva precisato che tali principi avrebbero dovuto operare anche con riferimento al prolungamento della conseguente misura di trattenimento amministrativo. In particolare la Corte censurava “il procedimento regolato dall’art. 13, comma 5-bis, contravviene ai principî affermati da questa Corte nella sentenza sopra ricordata: il provvedimento di accompagnamento alla frontiera è eseguito prima della convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Lo straniero viene allontanato coattivamente dal territorio nazionale senza che il giudice abbia potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della sua libertà personale. È, quindi, vanificata la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 Cost., e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore. E insieme alla libertà personale è violato il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile. La disposizione censurata non prevede, infatti, che questi debba essere ascoltato dal giudice, con l’assistenza di un difensore. Non è certo in discussione la discrezionalità del legislatore nel configurare uno schema procedimentale caratterizzato da celerità e articolato sulla sequenza provvedimento di polizia-convalida del giudice. Vengono qui, d’altronde, in considerazione la sicurezza e l’ordine pubblico suscettibili di esser compromessi da flussi migratori incontrollati. Tuttavia, quale che sia lo schema prescelto, in esso devono realizzarsi i principî della tutela giurisdizionale; non può, quindi, essere eliminato l’effettivo controllo sul provvedimento de libertate, né può essere privato l’interessato di ogni garanzia difensiva”. Principi che sono attuali ancora oggi, perchè a fronte di continue modifiche legislative, e di conseguenti prassi amministrative, continuano a ripetersi casi di esecuzione delle misure di trattenimento ed allontanamento forzato che rimangono sottratte ad una effettiva convalida giurisdizionale. Come si potrà verificare ancora di più con l’ulteriore ampliamento dei casi di mancato effetto sospensivo dei ricorsi giurisdizionali, che con la legge n.50/2023 riporta indietro ai tempi del Decreto legge sicurezza n.113/2018, poi convertito nella legge 132 dello stesso anno.
Le particolari modalità di gestione dei centri di detenzione amministrativa per stranieri hanno avuto una ricaduta diretta sulla condizione giuridica degli “ospiti” che vi venivano internati. Quanto più frettolosa era l’istituzione di queste strutture detentive, come si è verificato sistematicamente a partire dall 2011 in occasione dell’emergenza nord-africa, e poi ancora negli anni successivi, tanto più opache risultavano le procedure individuali e venivano negati i diritti fondamentali della persona, e si moltiplicavano i rentativi di fuga ed i casi di ribellione. Basti pensare alla pratica dei fogli notizia ed alla distinzione arbitraria perchè operata dalle forze di polizia subito dopo lo sbarco, tra potenziali richiedenti asilo e migranti economici. Ed oggi la situazione rischia di aggravarsi ancora di più con la moltiplicazione di strutture detentive di vario tipo, neppure qualificate come CPR, ma nei quali la limitazione della libertà personale di coloro che vi verranno trattenuti sarà totale, spesso in assenza di una tempestiva convalida giurisdizionale.
A partire dall’estate del 2016 si sono moltiplicati i fermi di migranti irregolari, nell’ambito del cd. Piano Gabrielli contro l’immigrazione irregolare, nel corso di operazioni di sgombero di migranti che si trovavano in città prossime al confine che cercavano di passare verso la Francia o altri paesi europei, e venivano bloccati a seguito della sospensione temporanea della libera circolazione Schengen per effetto del ripristino dei controlli alle frontiere interne. In quel periodo, dopo gli accordi con il governo sudanese del dittatore Bashir, attraverso i centri di detenzione amministrativa si realizzavano anche espulsioni collettive in Sudan.
Un importante Rapporto della Commissione Diritti Umani del Senato segnalava nel 2017 la diffusione di prassi illegittime nei CIE ed in diversi centri di detenzione amministrativa nei quali si praticava già allora il cd. Approccio Hotspot. Da quel momento si implementava un sistema che trasformava spesso l’accoglienza in detenzione, malgrado due importanti sentenze di condanna dell’Italia, nel 2016 e nel 2023, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, con riferimento al trattenimento amministrativo arbitrario nell’Hotspot di Lampedusa.
Già nel 2020 la situazione dei centri di detenzione amministrativa risultava sempre più critica, mentre diminuivano, anche per effetto della pandemia , i casi nei quali i paesi di origine garantivano collaborazione nelle operazioni di rimpatrio con accompagnamento forzato. Dal CPR di Torino ( via Brunelleschi) al CPR di Ponte Galeria a Roma, fino ai CPR siciliani di Trapani (Milo) e di Caltanissetta ( Pian del lago) non passava mese senza che si registrassero proteste.
Ancora nel 2022 il dossier curato dalla campagna LasciateCIEntrare: Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei Cpr d’Italia, dimostrava come gli abusi denunciati da decenni costituissero ormai una prassi consolidata, malgrado i rapporti delle associazioni e le sentenze della magistratura italiana ed europea. Nello stesso anno veniva impedito a lungo l’ingresso delle associazioni nel CPR di Caltanissetta a Pian del Lago, e quando alla fine la visita dell’ASGI si poteva svolgere venivano accertate gravi violazioni nell’accesso al diritto di difesa, in materia sanitaria e anche con riguardo alle condizioni generali di trattenimento degli “ospiti” della struttura. Una situazione che ha caratterizzato a lungo, nel corso degli anni il CPR di Caltanissetta, come del resto il CPR di Trapani in contrada Milo. Anche nel CPR di via Corelli a Milano si registrano trattamenti inumani e degradanti verso gli stranieri trattenuti in attesa di rimpatrio. Le convalide giursdizionali sono assai spesso pura formalità e le espulsioni rimangono a segnare il destino di persone che, se si fossero difese, avrebbero potuto ottenere uno status di soggiorno legale in Italia.Rimane ancora operativo il CPR di Palazzo San Gervasio in Basilicata, il CPR di cui nessuno parla, creato come centro di acoglienza nel 2011, dopo l’emergenza Nord-africa, e poi trasformato in centro di detenzione.
Ed oggi immagini inconfutabili sul CPR di Pian del Lago (CL), trasmesse da La 7, ma ignorate da quasi tutti i grandi media, dimostrano abusi ignobili e lo stato di degrado di queste strutture che la nuova legge n.50/2023 vorrebbe potenziare ulteriormente.

2. Il comma 3 dell’art.9 della legge n.50 del 2023 abroga l’articolo 12, comma 2, del regolamento di attuazione del Testo Unico immigrazione (adottato con D.P.R. n. 394/1999), ai sensi del quale, nel caso in cui le autorità rifiutino la domanda di permesso di soggiorno, il questore, in occasione della notificazione del rifiuto, concede allo straniero un termine non superiore a quindici giorni lavorativi, per presentarsi al posto di polizia di frontiera indicato e lasciare volontariamente il territorio dello Stato. Con l’abrogazione della norma che prevede il termine di 15 giorni per il rimpatrio volontario, allo scopo di accelerare l’espulsione del cittadino straniero, si è significativamente ridotta la possibilità di rimpatrio volontario e di difesa da parte della persona che riceve un qualsiasi provvedimento di diniego di permesso di soggiorno. Si profila dunque una estensione dei casi di espulsione dal territorio nazionale con accompagnamento forzato, e dunque di detenzione amministrativa, in contrasto con il carattere residuale che tali espulsioni, e la stessa detenzione amministrativa,dovrebbero avere, in base alle Direttive dell’Unione europea in materia di rimpatri e di procedure per la protezione internazionale.
La normativa eurounitaria prevede infatti (al Considerando 10 della Direttiva 2008/115/CE) che “Se non vi è motivo di ritenere che ciò possa compromettere la finalità della procedura di rimpatrio, si dovrebbe preferire il rimpatrio volontario al rimpatrio forzato e concedere un termine per la partenza volontaria. Si dovrebbe prevedere una proroga del periodo per la partenza volontaria allorché lo si ritenga necessario in ragione delle circostanze specifiche del caso individuale”. E ancora, la stessa Direttiva all’art.7 stabilisce che ” La decisione di rimpatrio fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi 2 e 4″. Si prevede quindi la possibilità di proroga di questo termine (par.2), su richiesta del cittadino straniero interessato, “tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l’esistenza di bambini che frequentano la scuola e l’esistenza di altri legami familiari e sociali., Mentre al paragrafo 4 si stabilisce che: “Se sussiste il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza na zionale, gli Stati membri possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni”. La riduzione del termine stabilito per la partenza volontaria può quindi ammettersi solo in presenza di circostanze precise, che vanno provate caso per caso dall’amministrazione procedente, e non in maniera automatica, o casuale, per tutte le persone che ricevano la notifica del diniego di una richiesta di permesso di soggiorno.
La Corte Costituzionale, con riferimento a casi di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, ha stabilito peraltro che l’automatismo del diniego di rinnovo del permesso in caso di lieve condanna penale risulta “manifestamente irragionevole, sotto diverse prospettive: sia perché, per le stesse condanne, nell’ambito della disciplina dell’emersione del lavoro irregolare, volta al medesimo scopo del rilascio del permesso di soggiorno, quest’ultimo non è automaticamente escluso, ma implica una valutazione in concreto della pericolosità dello straniero; sia perché l’automatismo del diniego, riferito a stranieri già presenti regolarmente sul territorio nazionale (e che hanno iniziato un processo di integrazione sociale), è in contrasto con il principio di proporzionalità, come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.
Il ricorso alla detenzione amministrativa, adesso generalizzato anche nel caso di richiedenti asilo, oltre ad apparire in contrasto con la giurisprudenza italiana e con i principi in materia di garanzie della libertà personale riconosciuti a livello internazionale, appare comunque di dubbia applicabilità, anche a causa della clausola di invarianza finanziaria che è stata apposta in chiusura della legge n.50 del 2023.
3. Le disposizioni contenute nell’art.10 della legge 50 del 2023, relativo al “potenziamento dei centri di permanenza per i rimpatri”, contengono ampie deroghe alla disciplina per la realizzazione di queste strutture in materia di assegnazione di appalti pubblici previste a livello nazionale ed europeo, con una maggiore responsabilizzazione delle prefetture. Le stesse deroghe, che appaiono comunque di dubbia legittimità, anche tenendo conto del quadro normativo europeo, sono motivate con “l’esigenza di celerità connesse all’eccezionale afflusso di migranti che caratterizza l’attuale congiuntura”. Un esigenza che non sembra ricorrere nel caso di centri destinati all’allontanamento forzato delle persone e non alla prima accoglienza, soprattutto considerando che l’allontanamento forzato dipende, più che dal numero dei posti disponibili nei CPR, dalla disponibilità dei paesi di origine a effettuare i riconoscimenti individuali e accettare la riammissione dei propri cittadini destinatari di provvedimenti di respingimento o di espulsione adottati dall’Italia, sempre che si tratti di “paesi terzi sicuri” e che il rimpatrio non avvenga in violazione da quanto previsto in materia di divieti di espulsione e di respingimento stabiliti dalla normativa italiana, euro-unitaria ed internazionale. Già il Decreto legge Minniti-Orlando n.13/2017, oltre a mutare la denominazione dei centri di identificazione ed espulsione (CIE) in centri di permanenza per i rimpatri (CPR), aveva disposto l’ampliamento della rete dei centri, in modo da realizzare un centro in ogni regione, con un raddoppio delle strutture detentive allora disponibili a livello nazionale. Attualmente i CPR sono rimasti dieci, per una capienza complessiva di 1.378 posti e non sembra facile aumentarli fino a 20, per la forte resistenza dei territori e degli enti regionali di diverso segno politico. Rimane ancora operativa la previsione del Decreto sicurezza n.113, convertito nella legge n.132 del 2018, che introduceva la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di un provvedimento di allontanamento in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” previsione che non veniva abrogata né modificata dal successivo Decreto Legge n. 130/2020, convertito con modifiche nella Legge n. 173/2020.
4. L’art.10 bis della legge n.50 del 2023 non sembra prevedere l’estensione della durata massima del trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio, distanziando maggiormente le proroghe nel tempo. Si prolunga invece il periodo durante il quale lo straniero può essere trattenuto presso il centro di permanenza per i rimpatri nell’ambito di una procedura di espulsione qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà. Rimane però inalterato il periodo massimo di trattenimento all’interno del centro di permanenza per i rimpatri, che non può essere superiore a novanta giorni ed è prorogabile per altri trenta giorni qualora lo straniero sia cittadino di un Paese con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi in materia di rimpatri. I giudici che dovranno convalidare questi trattenimenti saranno tenuti a verificare rigorosamente tutte le condizioni che giustificano il trattenimento amministrativo, non solo alla luce della consolidata giurisprudenza italiana, ma anche tenendo conto della interpretazione e delle criticità contenute nei più recenti documenti delle Nazioni Unite.
In base alla nuova legge fortemente voluta dal governo Meloni, all’articolo 14, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al quinto periodo, le parole: «prorogabile per altri trenta giorni» sono sostituite dalle seguenti: «prorogabile per altri quarantacinque giorni»;
b) al sesto periodo, le parole: «prorogabile per altri trenta giorni» sono sostituite dalle seguenti: «prorogabile per altri quarantacinque giorni».
Non si vede in che modo l’amplianento dei CPR, che sono soltanto centri di detenzione amministrativa, e il prolungamento del trattenimento, con il nuovo regime delle proroghe, possano significativamente contribuire a dotare di maggiore effettività i provvedimenti di allontanamento forzato, o fare fronte “all’eccezionale afflusso di migranti che caratterizza l’attuale congiuntura”, che si può stimare già nel mese di maggio di questo anno a diverse decine di migliaia di persone, che non si possono certo respingere o espellere nei paesi di transito, come la Tunsia, la Libia, la Turchia, di cui non sono cittadini. Ancora si può esprimere una maggiore amarezza, se si pensa che questo provvedimento, nela sua formulazione originaria del decreto legge n.20 del 2023,, che poi si è rivelata come un mero contenitore, è stato adottato nella giornata in cui il governo si è recato a Cutro per un Consiglio dei ministri straordinario, mentre poco distante, su una spiaggia, si continuavano a raccogliere cadaveri di persone che certamente non sarebbero mai rientrate tra i potenziali destinatari delle misure sanzionatorie, penali e amministrative cheadesso costituiscono il contenuto sostanziale della legge 50 del 2023. Un provvedimento evidentemente rivolto, oltre che ad abolire quasi del tutto la protezione speciale, a contrastare il soggiorno in Italia di qualunque “straniero”, non solo se “irregolare”, ed a facilitare le procedure di allontanamento forzato, aumentando i casi di confinamento e di detenzione amministrativa, piuttosto che dare maggiore efficienza ai soccorsi in mare, favorire gli ingressi per lavoro e creare nuovi canali legali per potenziali richiedenti asilo e profughi.
5. Con la sentenza Richmond Yaw e altri c. Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 par. 1, lett. f e par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale.
I giudici di Strasburgo hanno fornito una interpretazione dell’art. 5 della CEDU, che dovrebbe essere vincolante per le autorità italiane, ribadendo i limiti delle misure restrittive della libertà personale applicate su iniziativa delle autorità di polizia a carico degli immigrati irregolari e le garanzie correlate, anche nei casi di trattenimento amministrativo, in cui, in vista dell’allontanamento forzato del cittadino straniero, si proceda alla sua identificazione e quindi alla preparazione del rimpatrio. I precedenti giurisprudenziali rimangono però assai rari, mentre i trattenimenti arbitrari applicati nei CPR e in altre strutture provvisorie, nei confronti di immigrati irregolari, o ritenuti tali, sono sempre più frequenti.
6. L’art.2 del Testo Unico in materia di immigrazione n.286/98 stabilisce che “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”.
Se stiamo assistendo ad una ulteriore dilatazione dei poteri discrezionali delle autorità di polizia, e del ministero dell’interno, e dei suoi uffici periferici, dunque, non possiamo dimenticare, in chiusura, i limiti posti gli interventi delle auorità statali quando sono in gioco i diritti fondamemtali della persona, che l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione riconosce a qualunque persona, indipendentemente dal suo status giuridico, anche nei casi di ingresso o soggiorno irregolare, a maggior ragione nei casi di limitazione della libertà personale o di accesso alla procedura di protezione interbazionale. Secondo una importante decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, quando sia in gioco un diritto fondamentale della persona, “«nella misura in cui sia coinvolto il nucleo essenziale, direttamente tutelato dalla Costituzione, l’azione dell’amministrazione (come ancor prima quello del legislatore ordinario) difetta ab origine di discrezionalità e l’attività esercitata si prospetta come vincolata. Ciò poiché all’amministrazione (come al legislatore) non può essere riconosciuto il potere di comprimerlo ed anzi questa è tenuta a fare quanto necessario, di volta in volta, per garantirne la tutela».
La prosima missione della Meloni a Tunisi potrebbe portare ad una intensificazione dei rimpatri con accompagnamento forzato in Tunisia, con una prevedibile maggiore pressione sui cittadini tunisini irregolari presenti in Italia, e dunque ad un ulteriore sovraffollamento dei centri di permanenza per i rimpatri. Mentre appaiono ancora lontane le prospettive di un raddoppio di questi centri, vagheggiato da Minniti già nel 2017. Intanto la situazione delle persone trattenute in queste strutture sta raggiungendo livelli di degrado mai visti in precedenza. Ocorre una regolarizazione permanente per porre fine ad situazioni di irregolarità che sono il prodotto dele scelte legislative del governo. E sarebbe tempo che nei centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, si ritornasse al rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, da riconoscere anche nei casi di espulsione.
Occorre intensificare le visite nei CPR del Garante nazionale per le persone private della libertà personale e restituire alle organizzazioni non governative, ed alle campagne come LasciateCientrare, la possibilità di svolgere attività di monitoraggio periodico per verificare che i diritti fondamentali delle persone trattenute non siano indebitamente negati, e che i rapporti di appalto siano conformi alle prescrizioni di legge ed ai capitolati predisposti dal ministero dell’interno. Si tratta di verificare la conformità delle prassi attualmente applicate nella gestione dei CPR e nel trattenimento dei cittadini stranieri, rispetto alle garanzie costituzionali (in particolare gli articoli 13, 24 e 32 Cost.) accordate a qualunque persona straniera presente in Italia, anche se si trova in condizione irregolare, come prescrive l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/1998. Va ricostruita una rete diffusa di associazioni sul territorio che possa verificare l’attuazione effettiva dei diritti di difesa ed il rispetto delle garanzie procedurali accordate agli “ospiti” dei CPR.
5 GIUGNO 2003 – 5 GIUGNO 2023
Appunti di Dino Frisullo a Trapani, ed a Palermo, nel dicembre del 2000, un anno dopo la strage nel centro di detenzione Serraino Vulpitta.
“Ci sforziamo di portare diritti e umanita’ nelle celle dei migranti, senza farci carcerieri e criticando aspramente chi (anche a Trapani) accetta di vestire questi abiti mercenari, senza illuderci ed illudere che si possa umanizzare l’inumano, imbellettare l’ignobile, calzare all’iniquità i panni del diritto”.


Fonte: Adif
Spero che il governo Meloni abbia successo nelle sue iniziative, iniziative presentate nel programma e per le quali ha ottenuto la maggioranza nelle scorse votazioni degli Italiani.