Se il modo di produzione capitalistico è incentrato sul rapporto tra capitale e lavoro, tale rapporto però non è sospeso nel cielo, si innesta a sua volta su una relazionalità sociale sedimentata in epoche passate, fondata su processi di soggettivazione gerarchicamente ordinati, contenenti rapporti di genere e sessuali connotati dall’esercizio di forme di dominio. È questo lo scenario di fondo del recente testo di Federico Zappino, Un materialismo queer è possibile che resta prima di tutto una forte e originale risposta al bisogno di riconoscere, comporre, ricomporre e celebrare la vita nella sua multiformità
Gli studi sul materialismo stanno mostrando in questi anni una particolare vivacità, inoltrandosi dentro lo spazio di un’ontologia della materia come forza dinamica, vitale e intelligente, in grado di auto-organizzarsi e dispiegare un campo e un’operatività quanto mai complessi e versatili. Il recente testo di Federico Zappino, Un materialismo queer è possibile (uscito quest’anno da Mimesis), si colloca a pieno titolo all’interno di questa mobile cornice. Il libro raccoglie una serie di interventi, distinti quanto a forma (interviste, articoli apparsi su riviste, relazioni a convegni e seminari, prefazioni o postfazioni a volumi), ma accomunati dal fatto di mettere a tema la percorribilità di una materialismo queer o, per essere precisi, di un marxismo queer.
In fondo l’approccio che sottostà all’intero testo è propriamente dialettico (rendendolo in questa maniera perfettamente unitario) in quanto riguarda da un lato il rinnovamento del marxismo alla luce delle teorie queer e, dall’altro, il rinnovamento delle teorie queer alla luce del marxismo. Sono temi in parte nuovi, ma non nuovissimi, c’è tutta una solida genealogia del sapere su cui poggia lo stesso lavoro di Zappino: dal lesbismo materialista di Monique Wittig a Judith Butler con il suo fare e disfare il genere (ma interessante, nel libro, è la presa di distanza dal binarismo violenza/nonviolenza di Butler); dalla critica radicale omosessuale di Mario Mieli al meno noto Luciano Parinetto, uno fra i maggiori interpreti eterodossi del marxismo in Italia (ricordo qui il suo Corpo e rivoluzione in Marx, riedito anni fa da Mimesis, ma costituito da testi risalenti ai primi anni Settanta).
Vediamo così affrontati in modo stringente una serie di problemi non ulteriormente rinviabili; come, ad esempio, il rapporto tra struttura (economica) e sovrastruttura (culturale, ideologica, spirituale) o la rigida distinzione fra produzione (di merci) e riproduzione (sociale). L’autore ricorda più volte che sottovalutare o ignorare questi, come altri argomenti, conduce ad archiviare in un ambito separato le questioni di genere, decontestualizzandole dal piano sociale, economico e politico in cui accadono e prendono forma, improntando di conseguenza lotte e rivendicazioni dentro una pratica e un lessico politico squisitamente liberal, rivolto ai diritti delle minoranze, alla condanna dei pregiudizi ecc. Beh, si sarà compreso che qui la preoccupazione non è esclusivamente teoretica, bensì tutta attraversata da uno sguardo politico e appassionato rivolto a una prassi trasformativa. Per dirla in poche e chiare parole: orientato all’abolizione dello stato di cose presenti. In questo senso ci troviamo dinanzi a un libro rivolto a tutti e a tutte. O meglio: a chiunque avverta come invivibile la condizione in cui attualmente ci troviamo.
Sulla produzione della materialità corporea
Il focus del discorso ruota attorno a ciò che Federico Zappino chiama “modo di produzione eterosessuale”. Cosa si intende con tale espressione? Se il modo di produzione capitalistico è incentrato sul rapporto tra capitale e lavoro, tale rapporto però non è sospeso nel cielo, si innesta a sua volta su una relazionalità sociale preesistente, strutturatasi e sedimentata in epoche passate, fondata su processi di soggettivazione gerarchicamente ordinati, contenenti rapporti di genere e sessuali connotati dall’esercizio di forme di dominio. In questo senso il conflitto di genere e sessuale finisce per attraversare e fratturare lo stesso conflitto di classe, in quanto c’è alla base una silenziosa ontologia gerarchica dei corpi, dove la materialità corporea si trova fin dall’inizio inscritta e di conseguenza prodotta in forma binaria come maschio o come femmina. Tertium non datur e neanche il neutro (neuter, né l’uno né l’altro). L’eterosessualità viene così a configurarsi come quella forma razionale che presiede a una specifica produzione della materia, sovraintendendo alla trasformazione di ogni corpo in un genere e garantendo l’inclusione quanto l’esclusione sociale, in base all’accettazione o meno di tale procedura. Ed è proprio questo modo soggiacente di produzione delle risorse umane e simboliche che informa e organizza tutta la società – economia e politica comprese – la quale la riconosce e la utilizza in quanto funzionale a suoi scopi.
Tutto ciò è ancora di più valido nella misura in cui inseriamo questi discorsi nella situazione socio-economica presente, quella che in termini marxiani viene designata come sussunzione reale, intendendo con tale espressione quel processo in cui la vita intera è assoggettata al capitale in una maniera intensiva, organica e funzionale. È tutta la ricchezza riproduttiva sociale a venire capitalizzata e messa al lavoro nel nostro tempo, con la conseguenza che bisogni e desideri vengono soddisfatti nella forma dello scambio mercantile, cosicché tutta la produzione della vita, attraverso una serie di circuiti multipli, si trova risucchiata nella valorizzazione del capitale. In breve: lavoro e vita sempre più si sovrappongono e si confondono. Il soggetto stesso diviene “imprenditore di sé stesso” e nella società proliferano “fabbriche del soggetto” (che è pure il titolo di un libro poco conosciuto di Toni Negri uscito negli anni Ottanta).
A cosa serve tale riflessione? Se è vero che oggi, tanto a livello locale che globale, vediamo profilarsi i lineamenti di un capitalismo reazionario, fondamentalista e sovranista, con tratti marcatamente autoritari e discriminatori, quindi razzisti, sessisti e abilisti, è pure vero che sullo sfondo assistiamo da tempo alle manovre su larga scala di un capitalismo più “maturo”, liberal, rainbow, inclusivo, il quale vuole promuovere la diversità nei luoghi di lavoro (diversity management) e incorporare nell’economia di mercato bisogni e desideri di soggetti minoritari (per lo più provenienti da classi sociali medio-alte), definendo così comportamenti, estetiche, modelli di consumo e canoni pubblicitari ad hoc. Fondando tutto ciò – sottolinea a più riprese Federico Zappino – sempre sulle ferree logiche del mercato da un lato e sul disciplinamento dell’inclusività dall’altro, certamente non sull’eliminazione dei presupposti dell’esclusione, vale a dire l’esistenza del modo di produzione eterosessuale.
Sulle alleanze dei corpi
Ma il modo di produzione eterosessuale non è l’unica forma di diseguaglianza in cui si esplica l’organizzazione attuale della società insieme allo sfruttamento di classe. Giustamente nel libro ne vengono enucleate altre, come il razzismo, il sessismo, l’abilismo e, il più antico fra tutti, lo specismo. Dentro questi presupposti come sovvertite queste ontologie gerarchiche dei corpi per liberarci dall’assoggettamento di questi marcatori identitari e costruire il comune? Personalmente credo che il “queer come dispositivo” possa costituire un attrezzo efficace anche fuori dalle questioni di genere. Queer in un’accezione estensiva, come utensile ermeneutico per smontare in primis le fissazioni identitarie ed essenzialiste che possono allignare nelle pieghe delle nostre soggettività e della nostra quotidianità, ostacolando la relazione con la pienezza della vita e il suo divenire. In questo modo significa anche rendere queer lo stesso lavoro intellettuale, incominciando a rendere “strana” la teoria, trasgressiva, non ordinaria, non conforme ai canoni, sfidando una buona volta ciò che convenzionalmente viene definita teoria dagli ambienti accademici.
In questa prospettiva il comunismo queer tratteggiato in queste pagine può allora incontrare e dialogare con altre forme di comunismo elaborate in questi anni, anch’esse poco conformi a letture dogmatiche, per dare vita a ciò che Foucault chiamava un’”insurrezione dei saperi assoggettati”, un patchwork multiforme, un assemblaggio tutto orizzontale di pratiche e di conoscenze. In particolare sto pensando (ma altri nomi si potrebbero fare) ai contributi di due autori che ci hanno lasciato troppo presto: David Graeber e Mark Fischer. Sono sincero: non so quanto Zappino possa condividere le presenti riflessioni, le offro come contributo alla discussione da tempo in corso sulla costruzione di un nuovo paradigma politico.
Graeber parlava spesso di “comunismo della vita quotidiana” (everyday communism), indicando una pratica all’opera qui e ora, senza nome e senza volto, per questo motivo spesso invisibilizzata (ne parla diffusamente nel suo Debito, Milano, Il Saggiatore, 2012). In altre parole, comunismo per Graeber è qualsiasi relazione umana operante secondo il principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Pertanto il comunismo è la materia prima di ogni forma di socialità, è il riconoscimento della nostra fondamentale interdipendenza (o, detto diversamente, la rivalutazione positiva della nostra costitutiva condizione di dipendenza), è qualcosa che è esistito ed esiste in ogni società umana, anche adesso, proprio in questo momento, laddove, pur con tutte le difficoltà che il presente attuale impone, si lavora e si collabora secondo principi egualitari, di solidarietà e di mutuo appoggio. Non sono posizioni nuove, riecheggiano infatti i temi della rivoluzione e dell’autogestione della vita quotidiana di matrice situazionista (penso soprattutto a Raoul Vaneigem) o le tesi di Toni Negri secondo cui il capitalismo sfrutta forme di cooperazione esistenti in gran parte a prescindere da esso. Il pregio dello sguardo di Graeber risiede nel sottrarre il comunismo alle rigidità dei cieli dell’ideologia, con i suoi mondi a venire richiedenti sacrifici senza fine, per ricondurlo al qui e ora, a una “militanza della gioia” – per usare una felice espressione di Silvia Federici – nel saper configurare obiettivi tangibili da raggiungere nel presente, i quali si distendono comunque lungo un orizzonte senza limite.
Dal canto suo Mark Fischer nei suoi ultimi scritti (cfr. Il nostro desiderio è senza fine, Roma, Minimum fax, 2020) usava l’espressione iperbolica “comunismo acido” (acid communism), con la quale intendeva sottolineare i processi di costruzione della realtà, la sua plasticità contro la prospettiva totalitaria dell’attuale realismo capitalista (ben divulgato col mantra thatcheriano there is no alternative). Come Graeber, anche Fischer sosteneva la necessità di volgere l’attenzione a ciò che il capitale è costretto a ostacolare, vale a dire la capacità produttiva collettiva, il prendersi cura, la gioia di vivere, appunto. Al realismo capitalista Fischer opponeva (anche, non solo) la “coscienza psichedelica” emersa negli anni Sessanta/Settanta, cogliendo in essa proprio la componente demistificatoria verso una concezione ingessata e rassegnata della realtà, per far emergere una prospettiva talmente radicale da promettere una democratizzazione e una politicizzazione delle stesse mappe cognitive che producono ciò che viene esperito come realtà.
Tutto ciò per giungere a costruire un’altra idea di realtà che – partendo dalla sovversione delle attuali condizioni sociali, con tutte le matrici di oppressione imposte alla materialità vivente, come ribadito da Federico Zappino, – possa riconoscere, comporre, ricomporre e celebrare la vita nella sua multiformità, ciò che in fondo il capitalismo nella sua storia ha pervicacemente diviso, incasellato e sfruttato. Perché – dinanzi alla crisi planetaria in cui siamo immersi, con le sue guerre, emergenze ecologiche, pandemie, migrazioni ecc. – è ciò di cui abbiamo un grande bisogno oggi.
Bernardo Severgnini dice
“Queer come utensile ermeneutico per smontare le fissazioni identitarie”. Fissazioni identitarie… Quindi adesso avere un’identità è diventata una fissazione? È un difetto? Una malattia? Una perversione da boomer? Tra l’altro LGBT, queer, woke ecc non sono forse espressioni identitarie anch’esse? Quelle vanno bene? E poi scusa, cosa c’entra il marxismo? Essere uguali significa per caso annullare le differenze di genere? Da quando? Quindi oggi bisogna per forza essere fluidi per essere dei veri marxisti? E io che pensavo che i problemi dei lavoratori fossero lo sfruttamento, il ricatto occupazionale, la migrazione indotta, le morti bianche. Ora scopro che la lotta dura sta nel mettere gli asterischi in fondo alle parole. Lavorator* di tutto il mondo, fluidificatevi!