Il ricorso alla Corte internazionale di giustizia da parte del governo sudafricano con l’accusa di genocidio al governo israeliano, in seguito alla mattanza in corso ormai da cento giorni nella Striscia di Gaza, viene da lontano e precisamente dal parallelismo che lo stesso Nelson Mandela – il leader sudafricano che liberò il suo paese dalla segregazione razziale diventandone presidente dopo ventisette anni di prigione – stabilì più volte tra la condizione di apartheid della popolazione nera del Sudafrica sottoposta al potere dai bianchi e quello della popolazione palestinese sottoposta all’occupazione israeliana. “L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid – diceva il presidente Mandela il 4 dicembre 1997 in occasione della Giornata internazionale di solidarietà con i palestinesi – e, nel corso degli anni, è stato costruito un consenso internazionale che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.
Bisogna arrivare al 2022 perché Amnesty International stili un Rapporto in cui questa comunanza nell’oppressione dei due popoli sia certificata. In esso si dimostra che “Israele impone un sistema di oppressione e dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che a beneficiarne siano le e gli ebrei israeliani. Ciò equivale all’apartheid ed è proibita dal diritto internazionale”. Un’accusa gravissima per il governo israeliano soprattutto a causa dell’impatto sull’opinione pubblica internazionale, come spiega Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui Territori palestinesi occupati: “L’empatia globale verso i sudafricani fu capace di scuotere il mondo, forse anche per questo apartheid è una parola così temuta dalle autorità israeliane che (…) accusano di antisemitismo chiunque ne parli” (J’accuse, 2023), compresa la stessa Amnesty International. E oggi anche direttamente il governo sudafricano, che accusa Israele di genocidio.
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Facendo un salto all’indietro si può scoprire che la vicenda israelo-palestinese era stata posta anche all’attenzione di Mohandas K. Gandhi – diventato un punto di riferimento per Mandela dopo la rinuncia alla lotta armata – che a sua volta aveva lanciato e sperimentato la lotta nonviolenta, il satyagraha, proprio in Sudafrica agli inizi del ‘900, poi esportata in India. Gandhi, avendo ricevuto numerose lettere rispetto al conflitto tra “arabi” ed “ebrei” giunti in Palestina, sostenuti dagli inglesi, già prima della fondazione dello Stato di Israele, ne scrisse su Harijan, il giornale da lui fondato, nel 1938, ossia quando il nazismo era già saldamente al potere in Germania, le leggi razziali in vigore, ma non era ancora iniziata la Shoah. In un lungo articolo del 26 novembre di quell’anno, dopo aver precisato che le sue “simpatie vanno tutte agli ebrei” che sono stati per secoli gli “intoccabili del cristianesimo”, Gandhi aggiungeva che la vicinanza al popolo ebraico “non chiude gli occhi alla giustizia” e che gli ebrei avrebbero dovuto entrare in Palestina non accompagnati dai fucili degli inglesi, ma con il consenso degli arabi.
“Vi sono centinaia di modi per trattare con gli arabi – scriveva Gandhi – se gli ebrei rinunciano all’appoggio delle baionette inglesi. Al contrario attualmente gli ebrei sono complici degli inglesi nella spoliazione di un popolo che non ha fatto nulla contro di loro”, aggiungendo che è necessario che gli ebrei scelgano “il metodo della nonviolenza per affermare la loro posizione nel mondo. Tutti i paesi, compresa la Palestina, diverranno la loro patria, ma non grazie all’aggressione, ma al sevizio reso con amore” (Teoria e pratica della nonviolenza, 1996).
Gandhi fu ucciso il 30 gennaio 1948 quindi non poté vedere l’evoluzione della storia tra israeliani e palestinesi, dopo la tragedia assoluta dell’Olocausto, ma già dieci anni prima aveva messo in guardia sull’occupazione militare di quelle terre contese tra due popoli, indicando un’altra strada.
Ora spetterà al Tribunale dell’Aja decidere se in Palestina è in corso un genocidio; qui possiamo dire che quel che accade corrisponde sicuramente alle caratteristiche del “massacro” analizzate nello studio di Jacques Sémelin sull’uso politico dei massacri e dei genocidi: “Massacro: processo organizzato di distruzione di civili, mirante al contempo alle persone e ai loro beni. (…) Il termine è più ampio che ‘strage’ perché include possibili pratiche di demolizione o di incendio di case, edifici religiosi, fondazioni culturali, allo scopo di annientare la presenza dell’Altro-nemico. Fatto che può implicare anche eventuali processi di disumanizzazione delle vittime prima della loro eliminazione. (…) Se questa violenza può essere inizialmente diretta contro obiettivi militari (o paramilitari), tende a separarsene per colpire essenzialmente, se non esclusivamente, dei non combattenti, dunque dei civili” (Purificare e distruggere, 2007). In quella ricerca comparativa non si parlava dei palestinesi, ma se ne descrive il massacro che stanno subendo da oltre tre mesi.
Mauro Bortolani dice
Quando i nazisti uccidevano 10 italiani per un tedesco parlavamo di orribile massacro o di orrenda vendetta. Ora è lo stesso per chi massacra 25 mila palestinesi per vendicare un attentato sia pure crudele.