Guardare alla natura come a un potenziale nemico, ostile e da addomesticare è uno dei topoi del pensiero moderno e positivista che guida la cultura occidentale, sicché la comparsa di esseri diversi viene facilmente ricondotta agli alieni, così concepiti nell’immaginario contemporaneo occidentale. L’altro, specie se non-umano, oggi è visto con diffidenza se non ostilità, a differenza di quanto avveniva nelle altre società ove gli animali erano, in genere, manifestazione del divino e considerati sacri. Possiamo abbandonare i pregiudizi di superiorità della specie umana e comprendere che non siamo gli unici esseri intelligenti? La recente comparsa dei cinghiali nelle periferie urbane ha fatto gridare molti alle “bestie selvagge” che invadono e minacciano il nostro territorio, ma poi ci ha sorpreso non poco mostrandoci da vicino animali non umani molto intelligenti e capaci di prendersi cura in modo magistrale dei propri piccoli. Gli storni, artisti indiscussi del volo geometrico collettivo ma spesso maledetti per le loro deiezioni, sanno contare almeno fino a sette, hanno una lingua propria, dei “dialetti” di gruppo e sono capaci di apprendere le lingue degli uccelli che incontrano nel corso della giornata. La ricerca dell’armonia è un obiettivo comune del vivente, possiamo pensare di viverla in modo non esclusivo anche nei “nostri” territori
La cronaca locale dei quotidiani parla sempre più spesso di animali “selvatici” presenti nelle città. Si parte dagli orsi, cervi e alci, che in nord America gironzolano tra le case ed i bidoni d’immondizia, per arrivare alle recenti immagini di una famigliola di cinghiali nei quartieri nord di Roma, nell’orario in cui si va a scuola, a spasso tra cittadini impauriti ed altri intenti a scattare le immancabili foto. E poi ci sono gli storni che sui cosiddetti social, dove una foto dei loro voli attira molti like, suscitano commenti contrastanti: ammirabili per i loro voli, insopportabili per le loro deiezioni. Cosa hanno in comune tra loro questi animali considerati selvatici e, soprattutto, cosa hanno in comune con noi sapiens (come ci chiamano in modo ironico gli animali della serie di film di animazione “Madagascar”)?
Anzitutto, parliamo di due specie di animali, il cinghiale (classificata come Sus scrofa Linnaeus, 1758), mammifero artiodattilo della famiglia dei suidi, e lo storno comune (Sturnus vulgaris Linnaeus, 1758), uccello passeriforme appartenente alla famiglia Sturnidae, che appartengono a due mondi apparentemente lontani, ma uniti da alcune capacità scarsamente considerate dall’ “uomo occidentale”: l’intelligenza, l’adattabilità e la capacità migrante, elementi in comune con il genere umano insieme con la capacità di scelta e con la curiosità. Le osservazioni e i diversi studi condotti su questi animali inducono a considerare fondamentali questi aspetti che, se ai più possono sembrare poco ortodossi, parlano del funzionamento della psiche e della memoria, meccanismi sino ad ora poco indagati anche nella specie umana.
La lettura dei testi scientifici spesso è corroborata dall’esperienza diretta e, per chi vive a Roma, dalle testimonianze raccolte in città (Roma è il primo comune agricolo d’Europa): una città che ha visto sempre circolare delle greggi nei parchi nel cuore della metropoli, cui ora si aggiungono famigliole di cinghiali, e volare stagionalmente una quantità di storni stimata, secondo le ondate, da uno a quattro milioni e mezzo di individui per ondata migratoria. Inoltre, per chi come me abiti in un condominio che ha l’originale caratteristica di possedere nel piccolo giardino interno due magnolie giganti e di poter assistere al ritorno quotidiano e alla partenza degli storni, ospiti di un cosiddetto collegio-dormitorio.
Negli animali che definiamo selvatici vi è un quid non prevedibile conseguente alla volontà, alla ricerca dell’armonia che si esprime in modi diversi ma significativi. I due esempi del cinghiale e dello storno rappresentano alcune delle tante manifestazioni di questa imprevedibilità: tanto nel volo degli storni, quanto nel trotterellare tranquillo e curioso di una famigliola di cinghiali nel traffico romano.
Le vicende che hanno portato in primo piano la presenza di questi animali suscitano curiosità, incertezza, timori. La massa degli abitanti delle città non è abituata a vedere da vicino altre specie se non quelle domestiche e non sa come comportarsi in loro presenza. Inoltre, nonostante l’aumento di famiglie che hanno animali domestici – soprattutto cani e gatti -, non è andato riducendosi il timore del selvatico, anzi. Considerare la natura come fondamentalmente nemica, ostile e da addomesticare è uno dei topoi del pensiero moderno e positivista che guida la cultura occidentale, sicché la comparsa di esseri diversi viene facilmente ricondotta agli alieni, così concepiti nell’immaginario contemporaneo occidentale. Quindi l’Altro, specie se non-umano, è visto con diffidenza se non ostilità, a differenza di quanto avveniva nelle altre società ove gli animali erano, in genere, manifestazione del divino e considerati sacri. A Roma i gatti, dopo l’arrivo di Cleopatra, divennero sacri – esisteva un tempio a loro dedicato – e, nonostante persecuzioni e pregiudizi spesso veicolati dalla religione, hanno continuato ad avere un particolare status fino a oggi, tanto da spingere negli anni passati le giunte più lungimiranti ad istituire un assessorato per gli animali, con lo scopo di salvaguardarne la presenza e assicurare anche ai cosiddetti randagi (cani e gatti) un’esistenza dignitosa. Sono i loro comportamenti che dovrebbero farci riflettere dato che, ad avviso di molti autori, gli animali che stabilmente popolano le città non potrebbero essere considerati selvatici, specie se la loro presenza non si limita alle zone verdi, ma si espande in tutto il territorio, come nel caso dei parrocchetti.
In cosa risiede la buona riuscita della presenza dei cinghiali? Se ci basiamo sulle descrizioni contenute in qualunque testo di zoologia, il suo “successo” e la diffusione sul pianeta risiedono nelle sue caratteristiche specifiche: dieta onnivora; buona fertilità femminile (in genere due parti l’anno), che si traduce in alti tassi medi d’incremento annuo della popolazione (fino al 66%); la capacità di rispondere alle perturbazioni esterne; quella di adattamento che permette loro di vivere non solo nei boschi di caducifoglie, ma anche nelle foreste di conifere, nella macchia mediterranea, nelle aree paludose, nelle praterie alpine, persino nelle steppe ed, infine, nelle nostre città. Il grande potenziale riproduttivo unito alla mobilità, cioè alla capacità di spostarsi a lungo raggio attraverso il fenomeno della dispersione dei nuclei familiari, consentono al cinghiale di espandere facilmente il proprio areale.
Per quanto riguarda gli storni, la loro diffusione avviene in base a caratteristiche similari. Si dice che siano uccelli piuttosto rumorosi e gregari: stanno insieme anche di notte, dormendo in aree adatte a ospitarne un gran numero, come canneti e alberi cittadini. Sono onnivori, con qualche variazione stagionale che dipende dalla presenza di risorse alimentari, poiché mangiano invertebrati, semi e frutti e percorrono anche 100 km al giorno in cerca di alimenti, per poi riunirsi ed eseguire le tipiche evoluzioni che ci fanno restare a testa in su per ammirarli, interrompendo il nostro tran-tran quotidiano. La loro presenza in città è collegata alla migrazione da e verso Sud, quando si fermano fino a sei settimane, in autunno e primavera; ma talvolta possono assumere anche abitudini stanziali. Si accoppiano due volte l’anno (come nel caso dei cinghiali) e si mostrano dotati di notevole intelligenza e capacità di adattamento alle abitudini urbane. È accertato che sanno contare almeno fino a sette e comunicare con gli altri uccelli, perfino convivendoci. Quanto alla capacità di dispersione e di allargamento del loro areale, mostrano una grande attitudine, favorita anche dalla capacità di comunicazione: hanno una lingua propria, dei “dialetti” di gruppo e sono capaci di apprendere le lingue degli uccelli che incontrano nel corso della giornata.
Se poi dovessimo dare – nello stesso modo sommario – una descrizione della specie umana, in relazione al proprio successo ed alla sua diffusione sul pianeta, cosa diremmo? Che siamo piuttosto rumorosi e gregari, che abbiamo una dieta onnivora, che ci mostriamo dotati di notevole intelligenza (quasi tutti e quasi sempre), con capacità di adattamento alle abitudini urbane, capacità di contare almeno fino a sette e di comunicare con gli altri umani, convivendoci. Perché allora dovremmo considerare selvatici degli animali che hanno comportamenti e sensibilità simili alle nostre e dovremmo escludere la possibilità d’incrociare individui dalle abitudini simili nei nostri insediamenti? In fondo non è bizzarro pensare che essi possano trovare interessante convivere con noi.
Volutamente non ho parlato di cani, gatti, cavalli, tutti animali che hanno una storia di convivenza di migliaia di anni con noi umani e che sono passati attraverso quel processo complesso, ancora non ben indagato, detto domesticazione, che ha comportato profondi mutamenti reciproci. Di questi animali considerati domestici, nonostante il percorso comune solo ora – anche a causa dei nostri pregiudizi – iniziamo a comprenderne i sentimenti e l’intelligenza. Intelligenza diversa dalla nostra, che comunque ha permesso loro di privilegiare la relazione con gli umani rispetto a quella con altre specie. Nel caso dei cinghiali e degli storni, ci troviamo difronte a specie che hanno sviluppato una socialità interna, certo non in comune tra loro, ma che hanno scoperto, grazie anche ai nostri comportamenti, la socialità umana: ne sono curiosi e la trovano accettabile, quindi la praticano. Ecco che noi, a causa anche dell’espansione parallela e del cosmopolitismo comune, ci ritroviamo “improvvisamente” a contatto diretto con questi animali, senza conoscerne bene i comportamenti e, per giunta, con scarsa volontà di comunicazione.
Questo processo di separazione dal resto del mondo detto naturale è dovuto essenzialmente ai pregiudizi della nostra cultura di “moderni-occidentali”, che ci induce anche a ritenere i nostri comportamenti indipendenti dalle regole “naturali” che presiedono allo sviluppo o alla contrazione delle altre popolazioni viventi presenti sul pianeta. Alfred W. Crosby descrive nel dettaglio gli effetti indiretti delle migrazioni a seguito delle conquiste militari e dello sviluppo della società occidentali nel mondo, con la massa di piante, animali, microrganismi, malattie che i conquistatori portavano nei continenti attraverso gli spostamenti, nel corso dei secoli. Gli spostamenti hanno causato la modifica dei percorsi, degli insediamenti e anche delle abitudini degli altri viventi che hanno avuto contatto con le nostre strutture. Abbiamo assistito così non solo alla scomparsa di molte specie (il dodo e la tigre della Tasmania, per citare due esempi famosi), ma anche all’aumento della presenza di altre specie e alla ricomparsa in luoghi inaspettati di altre specie ancora, perfettamente a loro agio in strutture artificiali, frutto della civiltà occidentale. Il lavoro di analisi compiuto da Josef H. Reichholf , per esempio, consente di ricostruire il percorso attraverso cui sono avvenuti alcuni “ripopolamenti” inaspettati, dando una interpretazione dinamica dei comportamenti reciproci dell’uomo e delle altre specie.
Ma cosa ha causato l’aumento delle popolazioni di cinghiali e di storni? Pur non esistendo evidentemente cause comuni per l’aumento del numero tra gli umani, esiste una motivazione di fondo data dal nostro comportamento, che non è estraneo alla natura; anche con la plastica, con il petrolio e con le città di bitume, acciaio e cemento, noi contribuiamo a orientare l’evoluzione della natura e il mutare delle popolazioni. L’incredulità rispetto al nostro ruolo nei cambiamenti climatici sta tutta in questo pregiudizio.
Gli studiosi identificano tre cause principali che hanno favorito l’espansione dei cinghiali nell’area europea negli ultimi decenni: le abitudini dei cacciatori, il cambiamento dei paesaggi ed il ruolo dell’agricoltura, il cambiamento climatico globale ed il progressivo riscaldamento del pianeta. Tutte cause riconducibili alla struttura socio-antropologica della società industriale che abbiamo costruito negli ultimi secoli. Vorrei chiarire che oggi la pratica della caccia, contraria a qualunque principio morale, risulta essere in sostanza la manifestazione di un esercizio della violenza che, in attesa di essere praticata contro i propri simili, si rivolge agli altri viventi, ritenendoli inferiori.
I cacciatori, che spingono affinché sia riaperta in modo ampio la caccia al cinghiale, non sanno o non comprendono che è proprio la loro azione a causare l’espansione della popolazione, sia perché ne hanno favorito la diffusione, soprattutto nei decenni precedenti, con la pratica del ripopolamento (anche limitato alle riserve di caccia) e dell’alimentazione forzata, con lo scopo di fare del cinghiale un oggetto di mercato e venderlo come pregiata “selvaggina” nei ristoranti e nelle filiere alimentari (nei supermercati o nelle botteghe di molte zone turistiche si trovano spesso prodotti tipici a base di cinghiale: sughi, salumi, ecc.). Ma è lo stesso esercizio della caccia a favorirne l’espansione, perché praticato in condizioni climatiche diverse dal passato: sia gli inverni miti e la conseguente maggiore produzione di alimenti (ghiande) data da questo fattore, sia la moderna agricoltura che ha cambiato i paesaggi europei aumentando la superficie forestale e causando l’abbandono delle terre meno produttive per il mercato, hanno creato le condizioni favorevoli all’espansione di questa specie. L’avvio al processo è stato dato dai cacciatori poiché, uccidendo massivamente le femmine adulte (ma chi caccia non si chiede quale sia il sesso della cosiddetta cacciagione) hanno stimolato il precoce avvio del ciclo dell’estro nelle femmine superstiti, con la conseguenza di avere non più una sola famiglia composta da una femmina feconda e altri soggetti tra cuccioli e giovani adulte in quiescenza, ma di avere molte più famiglie diffuse sul territorio, tutte con femmine feconde, con conseguente aumento della popolazione nei mesi successivi. Paradossalmente, per limitare e contenerne la popolazione, sarebbe più efficace la salvaguardia degli esemplari viventi: se vivono più a lungo le femmine feconde ora esistenti, il numero della popolazione si conterrà molto di più che non cacciandola.
Che la caccia ed il tentativo di “soluzione finale” (praticato nella storia contro molti viventi, anche umani) siano non solo inefficaci, totalmente improduttivi e sostanzialmente dannosi, ma causino effetti opposti alle intenzioni di chi li pratica, è una evidenza anche analizzando la storia degli storni.
Questo uccello cosmopolita, stanziato dappertutto, tranne che nell’America latina e in Antartide (per ora), migrante tra le regioni del nord e del sud dei vari continenti, considerato un parassita per le coltivazioni, è stato oggetto di tentativi di sterminio ed eliminazione, praticati con tutti i mezzi che il genere umano ha avuto a disposizione. Questi interventi hanno solo favorito la sua moltiplicazione che, per quanti siano interessati ai problemi matematici, può essere facilmente dedotta dalla formula relativa alla loro fertilità. Le ragioni del loro successo sono le stesse di quelle dei cinghiali: il cambiamento climatico, che, con l’innalzamento delle temperature, rende possibile una vita più lunga per un maggior numero d’individui (la media della mortalità nella specie è vicina all’uno su due); l’agricoltura intensiva che incrementa le produzioni e abbandona sui campi i prodotti quando non è più redditizio raccoglierli, aumentando così gli alimenti disponibili; la vita nelle città che crea condizioni stabili di temperatura (più calda) e di sopravvivenza.
Ma perché gli storni ed i cinghiali si avvicinano alle città? Perché in Europa, pur aumentando le foreste e le terre abbandonate, i cinghiali le abbandonano per avventurarsi nelle città? Perché gli storni preferiscono dormire negli insediamenti urbani e fare durante il giorno anche 100 km per procurarsi il cibo, ritornando poi a dormire tutti insieme in città? Per dare una risposta a queste domande dobbiamo abbandonare i pregiudizi di superiorità della specie umana e comprendere che non siamo gli unici esseri intelligenti del creato. Anzi, con grande meraviglia di chi ricorre al senso comune, le ricerche in proposito hanno chiarito come la capacità di conoscenza e di memoria non sia nostro appannaggio esclusivo, ma che tutte le specie la sviluppano, sia pure in modo differente.
I cinghiali vivono in famiglia, ove le femmine hanno un ruolo preponderante, soprattutto nell’educazione dei cuccioli. Sono loro che insegnano i percorsi, i luoghi in cui cercare il cibo, sono loro che insegnano come vivere e fanno fare ai piccoli esperienza. La foto che ritrae una famiglia di cinghiali in giro per le strade di un quartiere di Roma nell’ora dell’andata a scuola non dovrebbe meravigliare più di tanto: come i genitori accompagnano la mattina i figli a scuola per far fare loro esperienza e per acquisire la conoscenza necessaria ad affrontare il mondo, così le scrofe accompagnano i cuccioli in giro a fare esperienza in quello che sarà, oltre al bosco, il territorio in cui dovranno imparare ad aggirarsi, senza avere paura delle auto, sapendo dove trovare il cibo, imparando a distinguere tra umani avvicinabili ed umani pericolosi.
Ma c’è un di più in questi percorsi, nello sguardo che hanno i cinghiali, nel comportamento che le testimonianze rilevano, che non è solo ascrivibile all’istinto ed alla necessità di mangiare. Sempre la stessa foto, qui riportata, mostra animali non già impauriti o disorientati, bensì sguardi attenti e curiosi, atteggiamenti non già aggressivi. Questi animali esprimono sentimenti, sensazioni e riflessioni che li rendono in grado di elaborare comportamenti e di “fare esperienza”. Riflettere sul significato del “ritorno della natura” nelle nostre città, dopo il vano tentativo di renderle assolutamente artificiali, dovrebbe conseguentemente far sì che adeguiamo i nostri comportamenti, legandoli all’idea di una progressiva ed ineluttabile convivenza con esseri intelligenti così simili a noi, anche nelle cure familiari.
Questo discorso vale ancor più per gli storni, paradossalmente favoriti dal nostro comportamento nel corso dei secoli. Il terreno per la loro caccia degli invertebrati sono state le campagne, oggi meno ricche di queste popolazioni a causa della quantità di concimi e antiparassitari che vengono distribuiti periodicamente, mentre ne sono diventati più ricchi i terreni riconvertiti (campi per attività sportive, aeroporti, ecc.), quelli abbandonati delle ex zone industriali o residenziali, come anche quelli in attesa di cambiamento di destinazione, situati in aree prossime alle città. Anche perché popolate da un minor numero di predatori, le stesse città contemporanee sono particolarmente accoglienti per questi uccelli, piene di pali della luce, antenne e cornicioni su cui posarsi, cortili e interni dove riscaldarsi, alberi dove dormire. Tuttavia, per mangiare continuano ad andare nei campi e nei pascoli (e sui campi da golf o intorno alle piste di atterraggio degli aeroporti). Perciò in città si vedono solo al mattino e alla sera: nel corso della giornata sono come pendolari tra città e campagna ma, al contrario degli esseri umani, “lavorano” fuori città e tornano per andare a dormire.
Quindi gli storni, come noi, amano vivere in collettività, comunicano con gli altri volatili imparando il loro linguaggio e, anche se molti faticano ad ammetterlo, sono animali molto intelligenti: Frank Heppner, ricercatore statunitense che tenne alcuni storni in cattività per le sue attività di osservazione e ricerca, osservò che “gli uccelli erano così bravi ad aprire le serrature delle gabbie che è stato necessario utilizzare dei lucchetti” (io spero che dopo imparò ad osservarli senza rinchiuderli). Per quanto sembri irreale il comportamento di uno storno (in realtà di una coppia), descritto nel recente film “Il nido dello storno”, il suo oggetto e la trama mostrano come inizi a essere più popolare l’idea che i comportamenti di questi uccelli non siano reazioni istintive, ma frutto di scelte individuali e complesse. Ma, prima di pensare che gli storni sviluppino reazioni “vendicative” come nel film, ci sono altri aspetti che dovrebbero attrarci per l’armonia che essi mostrano, come quando volano nei nostri cieli. Perché fanno quelle evoluzioni? Come riescono a non scontrarsi tra loro?
Riflettere su questi temi non è cosa sciocca o irrilevante, tant’è vero che uno degli studi fondamentali del fisico teorico Giorgio Parisi, recente premio Nobel, si basa proprio sull’analisi del loro volo e sui corollari che ne derivano. Gli storni sanno contare, almeno fino a sette, numero di individui con cui comunicano in volo per dare indicazioni. Quindi non esiste una guida, un condottiero che trascini migliaia di individui nella danza nel cielo, ma uno stormo di storni che si comporta come se fosse una singola entità: agisce come un sistema critico e ottimizza anche la sua risposta collettiva a sfide quali un attacco di predatori, secondo il già citato Parisi e i suoi colleghi dell’Università di Roma. Il fenomeno è detto “correlazione comportamentale senza scale”, che si verifica, al di fuori della biologia, in eventi come una valanga o la formazione di cristalli, entrambi i quali sono sistemi critici in cui può succedere una trasformazione quasi istantanea. La fisica Irene Giardina ha affermato che i risultati suggeriscono che gli stormi di storni si comportano come sistemi critici “pronti a rispondere al massimo alle perturbazioni ambientali”. Ma in questo caso c’è un di più non ancora accertato, poiché tutte le ipotesi utilitaristiche formulate per giustificare il loro volo collettivo (la forza collettiva contro i predatori, il maggiore calore nel volare in gruppo) sono risultate errate o, quanto meno, insufficienti a giustificare un tale sforzo. Come afferma Charlotte Hemelrijk dell’Università di Groningen: “In assenza di un predatore, credo sia effettivamente possibile considerare queste manifestazioni collettive come una sorta di danza”. È questo di più, questa ricerca della gioia del movimento, che rende interessante il loro volo e che può insegnarci molto rispetto alle nostre strutture sociali e alla natura del caos, molto di più di una valanga o dei cristalli. Negli animali che definiamo selvatici vi è un quid non prevedibile conseguente alla volontà, alla ricerca dell’armonia che si esprime in modi diversi ma significativi. I due esempi del cinghiale e dello storno rappresentano alcune delle tante manifestazioni di questa imprevedibilità: tanto nel volo degli storni, quanto nel trotterellare tranquillo e curioso di una famigliola di cinghiali nel traffico romano.
Le immagini dei cinghiali in giro per le nostre città e quella degli storni danzanti nel cielo non generano in me paura o diffidenza, ma evocano immagini come quelle leopardiane del “Sabato del villaggio” o di “San Martino” di Carducci e, soprattutto, la speranza che questa armonia possa ritornare a vivere nelle nostre città. Sarà possibile? La mia risposta è nella foto qui sopra, scattata nella città marocchina di Essaouira: un gruppo di lavoratori senegalesi, al termine della giornata, si riunisce per danzare e rilassarsi nella grande piazza antistante il porto, come fanno nei nostri cieli gli storni migranti, un ragazzino li guarda mentre altre persone guardano il tramonto e nello sfondo volano centinaia di gabbiani in attesa del ritorno dei pescherecci e degli scarti della pulitura del pesce. Non siamo nell’Eden; la vita è dura per tutti, ma la ricerca dell’armonia è un obiettivo comune del vivente.
Gianni dice
Mi pare una trattazione sicuramente scientifica ma un po’ idilliaca allo stesso tempo.
Non mi è chiaro come questa armonia Leopardiana o Carducciana possa tornare a vivere nelle nostre città.
Per il momento continuo a schivare i marciapiedi sotto ai cornicioni …
Gianfranco Laccone dice
Grazie del commento Gianni says, ma le città in cui vivevano i poeti in questione non erano certo migliori delle nostre. E se oggi si scansano i cornicioni, ieri si scansavano i Rivoli centrali delle strade in cui, in assenza di fogne e servizi interni, si scaricava parte delle deiezioni familiari quando -ed era spesso- non passava il carretto (scoperto) per raccoglierle. L’armonia è un fatto complesso e non idilliaco e il suo studio, prima ancora del suo raggiungimento, costa fatica. Poi, diceva qualcuno, andando verso l’orizzonte non lo si raggiunge mai ma si fa tanta strada. In quanto alle deiezioni alle fermate dei bus, ad esempio, non capisco perché queste, dove è possibile, non vengano spostate…?
Gianni dice
Dove abito io dovremmo anche spostare l’ufficio postale, le scuole, l’ufficio della finanza e un’altra buona parte del paese. Forse sono troppo razionale!
Gianfranco Laccone dice
forse si affronta il problema dal lato sbagliato. Non esistono problemi senza soluzione. se non se ne vedono, bisogna cambiare occhiali. Questo mi dice l’esperienza. Vivo in una città in cui ogni anno, due volte l’anno, ci sono dal 1.500.000 a 4.500.000 di storni che passano peralcune settimane (4/6). Forse cerco di vedere cosa ci sia oltre la montagna Almeno, cerco d’immaginarlo.