Schiacciati da un racconto mediatico unico globale senza precedenti nella storia, tracce di pensiero critico hanno tentato negli ultimi mesi di offrire punti di visti diversi sull’infinito stato d’eccezione imposto in molti paesi con l’alibi della fragilità della salute, ma anche sulle conseguenze dell’affidare la nostra salvezza a degli algoritmi. A rischiare un deperimento progressivo sono il senso di responsabilità, l’aspirazione alla libertà, l’elaborazione di un pensiero riflessivo. A questi temi è dedicato il nuovo saggio (di cui pubblichiamo ampi stralci di un capitolo) della filosofa francese Alexandra Laignel-Lavastine
Uno Stato-care che ci proteggerà da tutto
Abbiamo calcolato adeguatamente i pericoli politici indotti da questo precedente (il modo con cui lo Stato in Francia ha risposto alla pandemia, ndr), al cospetto, stavolta, dell’emergere di un eventuale bio-potere? Non si capisce infatti perché la premessa secondo la quale la vita è il supremo valore, non ci condurrebbe passo passo a sacrificare durevolmente (e non più provvisoriamente) certe libertà sull’altare di uno Stato sanitario che ci curerà da tutto.
Del resto, la prima legge votata nella primavera del 2020 è stata la legge Avia, introdotta per combattere in Internet l’incitamento all’odio, misura di salute pubblica poi lasciata al “discernimento” e alla discrezione dei gestori delle piattaforme, da cui il suo carattere a giusto titolo controverso. A seguire, e sullo sfondo delle manifestazioni contro la violenza della polizia, la “comunità degli sviluppatori”, altra istanza misteriosa, faceva grottescamente sapere che intendeva “bannare” dalla Rete certe espressioni (come “lista nera”), troppo… “razializzate”, dunque razziste per il palato di tale comunità. Tra Stato care, vampate messianiche (proteggere i viventi), masse terrorizzate e sviluppatori virtuosi trasformatisi in purificatori lessicali allo scopo di vegliare al perfetto igiene del linguaggio, il nostro avvenire tecnologico è in buone mani.
Per renderci conto dei pericoli, ci si rivolga ancora una volta alla lezione dei dissidenti. Eretici isolati, appestati, perseguitati, trincerati nelle loro città parallele o gettati in prigione nell’indifferenza generale, sapevano molto bene con quale velocità la paura e la supremazia del viscerale possono impadronirsi di masse (comuniste o democratiche) animate soprattutto dalla passione per la sicurezza, l’auto-conservazione e il benessere. Nell’Europa dell’Est, meglio istruita dalle catastrofi del XX° secolo, i dissidenti avevano compreso che è sempre in questa passione che le “isterie collettive”, passate al setaccio dall’ungherese Istvan Bibo, maestro nell’analisi dei populismi, hanno trovato il loro più fertile terreno1. Se la vita è tutto, la paura e con essa la reattività, l’incapacità di fare un passo indietro e l’impulso irriflesso, trionfano fatalmente. Da tali derive possono sottrarsi solo gli animi che decidono di prendersi “cura” di sé, nel senso indicato da Potočka, ovvero quello di una resistenza al divorante imperialismo della vita e dei suoi diktat. Ma Bibo, nel programma dell’incultura tecnocratica trionfante e comunicante, non deve comparire più de La Barbarie di Michel Henry. Pertanto, in virtù di quali miracolose salvaguardie lo sviluppo di un partito dell’ordine sanitario, l’espansione di un neo-igienismo e l’istituzione di una sorveglianza generalizzata sarebbero da escludere?
Dopotutto, la fragilità della salute umana rappresenta un’urgenza perpetua suscettibile di fornire allo Stato l’alibi permanente per un infinito stato d’eccezione. Bisognerà giusto accettare come evidenze il tracciamento virtuale e le diaboliche telecamere di sorveglianza a riconoscimento facciale venute dalla Cina e già sperimentate, qui e là, in Francia. A nome della pace civile o del bene comune, ovviamente. E ammettere, come abbiamo fatto durante la pandemia, che il bio-potere esercitato sulla vita dei corpi e delle popolazioni, possa insinuarsi fin nell’intimità. Non sarà poi così difficile.
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Affidare la nostra salvezza terrestre a degli algoritmi
Non c’è solo la questione delle “mani in cui cade la tecnologia” o del grado di consenso, più o meno informato, della popolazione. Affidare le nostre vite e la nostra salvezza terrestre alle cure dell’Intelligenza artificiale significherà esporsi a una più grande minaccia antropologica, finora meno sottolineata. Come non pensare agli effetti corrosivi degli algoritmi, a lungo termine, su libertà e responsabilità, due pilastri del mondo democratico in quanto facoltà propriamente umane? Lasciandoci assistere in tutto e per tutto da intelligenze artificiali, non rischiamo niente di meno che il deperimento progressivo del senso di responsabilità e il cedimento di ogni aspirazione alla libertà.
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Dando priorità ai criteri di prevenzione, precauzione e benessere, probabilmente non ne ricaveremo che i vantaggi propri della “massimizzazione” del bene collettivo. Il nostro sistema sanitario potrebbe così appoggiarsi ad algoritmi disponibili su cellulari e applicazioni, come nei paesi asiatici. E dal momento che in molti ambiti si riveleranno più performanti dei nostri dottori, non ci sarà motivo per privarsene a lungo. Con questo sistema integrato, si avrà allo stesso tempo prevenzione (l’applicazione si farà carico di ricordarci che dobbiamo sottoporci a esami clinici o check-up), la sintesi dell’insieme dei nostri risultati e analisi, ma anche una capacità diagnostica e di prognosi mai raggiunta nella storia della medicina. Questo dispositivo, associato alle biotecnologie, avrebbe vantaggi immensi. E una volta su una così buona strada, perché non ispirarsi anche al “credito sociale” in vigore in Cina, dove tre miliardi di umani si vedono attribuire un punteggio positivo o negativo in funzione del loro comportamento individuale, giudicato più o meno virtuoso dallo Stato, anche sul piano sanitario. Almeno, sapremo con chi avremo a che fare. Quando incroceremo un non-virtuoso, la nostra applicazione ci avviserà: «Stop-cattivo».
Ne va dell’esercizio della libertà e del senso di responsabilità, come due organi che a forza di oziare, finirebbero per indebolirsi, rattrappirsi e poi morire. Lo si vede già con il senso di orientamento. Ogni giorno, miliardi di umani si affidano ormai a delle applicazioni per orientarsi nello spazio. Ora, l’uso smodato dei dispositivi di navigazione è sul punto di generare un’umanità differente; tale abitudine ha già iniziato a modificare i nostri circuiti cerebrali, precisamente quelli dove hanno origine i sogni e che pilotano il senso d’orientamento. Quanto al potere devastante di Internet sull’intelligenza dei digital natives, ogni giorno abbiamo motivo di dispiacercene.
Molti di questi giovani procedono ormai in un mondo appiattito dove la cronologia, la geografia e gli indicatori storici scompaiono. La narrazione non si svolge più, si pilucca e si disperde, portando con sé la coscienza di essere depositaria di un’eredità da trasmettere. Perché sovraccaricarsi di conoscenze, quando si rendono immediatamente disponibili grazie a un dispositivo portatile? Il cervello delega e, a poco a poco, si svuota. La sensibilità prende allora il sopravvento sul raziocinio, a cui conseguono l’incapacità di elaborare un pensiero riflessivo e di padroneggiare la parola, intolleranza, manicheismo, ignoranza dei contesti e delle sfumature. In questa desolazione, presto non resteranno altro che tre ideali insormontabili: il culto delle minoranze, la causa animalista e la salvaguardia del pianeta. Una perdita di punti di riferimento che non rischia di proteggerci dal crollo politico incombente.
Al di là, e nell’ottica di quello che Zygmunt Bauman chiama modernità liquida, dove tutto ciò che ci precede dev’essere idealmente liquidato per sgomberare la strada a ogni commercio e offrirsi all’immediatezza dei nostri desideri, non sapremo più cosa farcene delle biblioteche (inutili e ingombranti), di solidi sistemi cognitivi (invalidanti), della memoria (avvilente), degli impegni durevoli e dei legami di lealtà fra umani (incompatibili con l’impero del management). Il privilegio accordato alla leggerezza, allo zapping, alla flessibilità, all’usa-e-getta, al volatile e al revocabile, li renderà handicap o fardelli di cui bisogna sbarazzarci. Se a questa liquidazione si aggiunge la tirannia del benessere, non è più chiaro in nome di cosa la pratica della responsabilità e della libertà – al cuore di tutte le grandi utopie politiche emancipatrici – potrebbe non uscire “influenzata” dall’epidemia.
Mobilitarsi per lottare contro un virus, quando si presenta, sì. Ma farne il nostro solo e unico orizzonte e pensare di poter salvaguardare la nostra dignità senza accettare di correre il benché minimo rischio è aberrante. È forse cosi difficile agire con calma, sangue freddo, responsabilità e fermo impegno, non trascurando la salute, ma preservando l’economia, che è vita essa stessa, e senza rinunciare alle nostre libertà? Come se fosse fuori dalla portata della nostra sensibilità post-tragica capire che solo la disponibilità a mettere un poco in gioco la propria vita per preservarne il senso può conferire a una società democratica la sua colonna vertebrale, la sua “sacralità”, la sua comunità, e la garanzia ultima che i suoi valori terranno perché verranno difesi. Senza questa disponibilità, che presuppone che la vita “bruta” non possa essere eretta affatto a bene supremo, il collettivo si svuota, quantomeno se si ammette che solo ciò per cui saremmo pronti a sacrificare qualcosa, riveste un carattere veramente sacro ai nostri occhi di Moderni laici.
Il criterio sconvolto che ci ha fatto da stella polare nei giorni del coronavirus è agli antipodi di questo atteggiamento mentale. E come scrive Olivier Rey ne L’Idôlatrie de la vie (Gallimard), «quando non si può più sacrificare la vita, non resta che tenersela». Niente di eroico o di glorioso in questo. Ci saremo comunque raccontati molte menzogne durante questa pandemia, la banalità della vita non essendo altro che una vita di servitù, esattamente quella a cui ci espone il fatto di erigere la vita biologica a bene supremo, e di situarne il sacro nella conservazione piuttosto che nel superamento. Una folle caduta su scala storica. E allora no, la scelta di vita sotto il Covid non costituisce necessariamente la notizia migliore di questo inizio secolo.
1 Istvan Bibo, Misère des petits États de l’Est, Paris, Albin Michel, 2000.
Tratto da La déraison sanitaire. Le Covid-19 et le culte de la vie par-dessus tout (Éditions Le bord de l’eau, 2020, “Follia sanitaria. Il Covid-19 e il culto della vita sopra ogni altra cosa”). Traduzione per Comune-info di Mia Lecomte. L’articolo è stato pubblicato con l’autorizzazione di Éditions Le bord de l’eau
Teodoro Margarita dice
Me ne ero accorto. In questo momento si sta svolgendo un consiglio di classe a proposito di idiozie imposte per legge e ci sono anche colleghi che si infervorano. Abbiamo alunni undici anni che si drogano e spacciano, si preferisce delegare ai “servizi sociali”. Si. La filosofa ha ragione. Non è una bella cosa vivere in questo brave new world. Non è bello aver rinunciato agli abbracci. Nel mondo gay sono scomparse le dark room. Ci si andava, si godeva con chicchessia. Adesso, domina la paura. L’angoscia. Abbiamo paura di vivere. Mi chiedo: suicidarsi, non è una opzione lucida? “Vivre libre ou mourir” era il motto della Commune, 150 anni addietro. Da una parte i talebani impongono il “medioevo”, dall’altra, ci si impone il regno delle quantità e dei numeri, scriveva Guenon. Ma, l’umano? I suoi desideri? Il suo slancio vitale? Vale davvero la pena di accettare prima seconda terza quarta quinta sesta dose… nelle proprie vene? Non è meglio, una buona volta, farsi una overdose di eroina cocaina cacca di cane, ed andarsene, lasciando questo pianeta all’inaridimento ed alla desertificazione sensoriale assoluta? Tanto, ci sopravviveranno topi e scarafaggi. Che vivono felici ed affollati. Assembrati nell’anima e nel corpo. Come giusto che sia.